Manifesto 7 agosto 2001 POLEMICHE
Marx, il libero scambio e i movimenti
ANTONIO CALAFATI
Difficile dire se l'articolo di Luigi Cavallaro "Non so se Carlo
Marx sarebbe d'accordo con voi" (il manifesto, 4 agosto) sarà interpretato
così come viene presentato: "Provocazione al popolo di Seattle". Non ho idea di
quale possa essere l'interesse di questo "movimento" per ciò che Carlo Marx
pensava della liberalizzazione del commercio internazionale nel 1848, un tempo, per altro,
in cui si commerciava abbastanza poco rispetto ad oggi e gran parte delle economie dei
paesi allora più industrializzati non erano toccate dagli scambi internazionali. Magari
si potrebbe essere più interessati a ciò che Marx avrebbe pensato se avesse dovuto
esprimere una opinione oggi. Ma anche questa sembra una questione un po' troppo
accademica. Dopo tutto, se proprio vuole, ci sono dei "marxismi" in
circolazione, che qualche passo in avanti l'avranno anche fatto. E non sembra necessario
appendere un pensiero critico sulla "globalizzazione" a ciò che Marx pensava
del "libero commercio" nel 1848. Marx, poi, ha una reputazione come osservatore
della realtà e magari avrebbe avuto un idea diversa, oggi. Inoltre, ci sono altri
programmi di ricerca sui quali fondare un pensiero sulla globalizzazione. Ma forse il
cosiddetto "popolo di Seattle" su "Marx e la globalizzazione" ha
qualcosa da dire e raccoglierà la provocazione.
Le tesi espresse da Cavallaro, comunque, sembrano una divagazione piuttosto che una
provocazione, rispetto ai fatti e alla logica economica. Naturalmente, i fatti e l'analisi
non tengono in gran conto questo tipo di provocazioni (e divagazioni), di questi tempi
poi. E questa è la ragione per cui sono veramente tanti coloro che si preoccupano dei
cambiamenti che stanno avvenendo nelle relazioni economiche internazionali, preoccupazioni
che sono cominciate qualche decennio fa e che ora, per ragioni diverse, sono diventate
drammatiche e angoscianti. Pace Carlo Marx, dei cambiamenti della natura e della
intensità delle relazioni economiche internazionali si preoccupano, e non poco, i
"paesi forti" che intendono (a modo loro) orientarle. Se ne preoccupano i
"paesi deboli", anche se la loro voce non è facile sentirla e difficilmente
riescono ad articolare un pensiero condiviso. Se ne preoccupano, da anni, molte persone
comuni, che credono di avere - e in effetti hanno - altri valori e altre metriche per
valutare gli effetti delle trasformazioni in atto.
Che il "liberismo" - nella forma suggerita da Paul Krugman o da Carlo Marx
annata 1848 - sia la risposta intelligente e corretta (e, certo, "di sinistra")
ai problemi posti dai nuovi processi di globalizzazione è, in effetti, una affermazione
paradossale. Per dare un fondamento teorico alle ideologie liberiste non bastano certo i
modelli teorici di Krugman i quali, peraltro, quando letti analiticamente e non
ideologicamente, sembrano suggerire ai paesi deboli ben altre strade per aprirsi una
strada sui mercati internazionali che non il ricorso alla libertà di scambio. Ma neanche
le interpretazioni standard del commercio internazionale sono in grado di fondare
analiticamente (ed eticamente) i processi di liberalizzazione degli scambi internazionali.
Che il mercato sia il meccanismo di esplorazione più efficace dei vantaggi del commercio
internazionale non l'ha mai dimostrato nessuno, neanche l'Hayek di questi tempi così
amato.
Ciò è tanto vero che da sempre - da sempre, vale ripeterlo - esiste uno stupefacente
sistema di regolamentazioni istituzionale del commercio internazionale. Pace, questa
volta, tutti gli ideologi del libero scambio, compresi i loro tardi e disattenti esegeti.
E il "liberismo" è sempre stato un espediente retorico per giustificare
modificazioni di questo sistema di regolamentazioni - che nessun "paese forte"
vuole oggi abolire, ma semmai modificare a proprio favore sullo sfondo dei vantaggi
competitivi - che innovazione tecnologica e altri fattori hanno determinato o stanno
determinando.
C'è qualche paese sviluppato che ha globalizzato il mercato del lavoro interno,
permettendo ai lavoratori di altri paesi di entrare e uscire dal mercato del lavoro a
piacimento? Lo hanno fatto gli Stati Uniti, forse? Gli Stati Uniti e la Germania hanno
forse totalmente liberalizzato gli scambi commerciali? Si apprestano a farlo dopo Genova?
Certamente no. Neanche a parlarne. Il tema chiave è come modificare il sistema di
regolamentazioni sullo sfondo delle nuove configurazioni di vantaggi competitivi. La
configurazione delle relazioni economiche internazionali ha un fondamento politico - ed
ora sono in molti coloro che desiderano che ciò sia esplicitamente riconosciuto - con
tutte le conseguenze del caso, compresa la trasparenza delle scelte e l'accettazione
dell'esistenza di altre metriche e valori per esprimere un valutazione sugli effetti
dell'integrazione economica.
Ma c'è un altro punto fondamentale, rispetto al quale "Carlo Marx sul libero
commercio" non ci aiuta: i costi sociali delle transizioni (o trasformazioni).
Nessuno può negare - e nessuno ha mai negato - che cambiamenti nella divisione
internazionale del lavoro possono creare, come ogni innovazione, squilibri e costi
sociali, disoccupazione e danni ambientali localizzati. L'atto di fede, un po' assurdo,
che si dovrebbe fare per credere che in ogni caso questi squilibri saranno nel
lungo periodo (quanto lungo?) riassorbiti, conducendo ad un incremento di benessere per
tutti, non è poi così facile farlo. Ecco perché questo profondo interesse dell'opinione
pubblica mondiale per gli effetti reali (non sperati o sognati) dei nuovi processi di
integrazione economica. C'è ben poca ideologia e molto pragmatismo nella critica ai
cambiamenti in corso nella sfera delle relazioni economiche internazionali. C'è
un'attenzione ai fatti, alle conseguenze delle decisioni di chi ha il potere di decidere.
Tanto per fare un esempio, si potrebbe provare a convincere il governo della Polonia, con
qualche citazione di Marx (magari sono ancora sensibili al suo pensiero) a liberalizzare
totalmente gli scambi nel settore agricolo con l'Unione Europea. Chissà perché non lo
fanno? Perché sono "senza cervello", come direbbe Krugman, o perché ce lo
hanno e non sono disposti a sopportare le drammatiche conseguenze di breve-medio periodo
della distruzione del loro settore agricolo. Prima che le loro mele siano competitive con
quelle del Trentino, qualcuno teme a ragione che l'agricoltura scompaia e citare Krugman e
Marx, indicando il radioso futuro che si avrà in virtù del libero scambio, non solo
sarebbe di scarsa consolazione ma apparirebbe anche come "una storia vecchia che ci
eravamo lasciati alle spalle". Che delocalizzazioni della produzione, esaurimento o
degrado del capitale naturale locale e sconsiderate aperture commerciali possano
distruggere le economie e le società locali e creare drammatici squilibri, lo hanno
capito proprio tutti, a questo punto. Che bisogna smetterla con gli atti di fede e
"radiosi futuri, a venire" sono in molti a pensarlo. I temi della
globalizzazione non sono accademici: sollevano questioni fondamentali e concreti, sullo
sfondo di una situazione che è oggi drammatica.
C'era un volta un pensiero critico (di sinistra?) - una volta, prima di mettere insieme
Marx, Hayek e Krugman (che mostro sia uscito fuori è sotto gli occhi di tutti) - per il
quale il tema del fondamento etico delle relazioni economiche internazionali era al centro
dell'attenzione. C'era un tempo, non molto tempo fa, in cui il tema dello "scambio
ineguale" era nell'agenda di molti, come un fatto, non da aggirare o da negare bensì
da interpretare e cambiare. C'era un tempo in cui si pensava che il mercato dovesse avere
dei limiti e che le società dovessero avere altri tipi di meccanismi per garantire
equità e libertà. C'era un tempo in cui si pensava che il mercato permettesse di
articolare dei valori, non che fosse un valore in sé. Non c'è stato alcun cambiamento
analitico o metodologico nella scienza sociale che ha reso questi temi obsoleti o mal
formulati, c'è stato, invece, uno spostamento ideologico che li ha nascosti. Ma soltanto
per un po', perché ora sembrano ritornare all'attenzione dell'opinione pubblica, e con
maggiore forza.
Non so dire della reazione del "popolo di Seattle", certo però che per molti
Marx che difende nel 1848 il libero commercio non sembra un argomento pertinente:
divagazioni, piuttosto che provocazioni.
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