La Repubblica 26 luglio 2001 Le
vittorie e le sconfitte
del movimento appena nato
LUIGI MANCONI
Nella breve biografia di Carlo Giuliani, il giovane di 23 anni ucciso a Genova, c'è un
tratto così drammaticamente simbolico da non potersi ignorare. Carlo Giuliani era figlio
di un dirigente sindacale, un uomo della Cgil di lunga e fedele militanza: e le parole
pronunciate da quest'ultimo dopo la morte del figlio esprimono il meglio di quella cultura
di sinistra che ha costituito corpo e anima di tanta parte della nostra società e della
sua faticosa storia. Ma, al contempo, il dato biografico segnala l'impotenza di quella
stessa cultura a farsi (o a continuare a essere) senso comune e sensibilità collettiva:
e, dunque, l'incapacità a trasmettersi sia pure conflittualmente - di generazione
in generazione.
Così, nella diversità radicale di stili di vita e di concezioni della politica e della
militanza tra padre e figlio, si manifesta una tragedia non solo privata: e si evidenzia
la difficoltà dell'intera cultura di sinistra (quella moderata e tradizionale come quella
radicale e alternativa) a leggere il mondo, a interpretarlo, a contribuire a modificarne
gli assetti di potere; non a caso, le analisi più acute sul tema della globalizzazione
provengono da altre fonti: quelle di ispirazione religiosa, in primo luogo.
Ma nella tragedia di Genova si può scorgere anche l'infelicità costitutiva
"caratteriale", direi del movimento antiG8, violentemente accomunato ai
popoli per i quali si batte non dal successo di una mobilitazione, ma dalla condivisione
dell'esperienza della morte. Ora, mentre elabora il lutto per un manifestante ucciso e per
questo brutale passaggio una sorta di transizione accelerata all'età adulta - il
movimento può iniziare a trarre un primo bilancio. Ribadito che la morte di Giuliani è
una irreparabile sconfitta per tutti, si può affermare che, per un verso, il movimento ha
vinto.
L'agenda del G8 è stata largamente condizionata e in parte riscritta (se non addirittura
ribaltata nella sua impostazione) dal movimento antiglobalizzazione. Dettare i temi e
definire le priorità significa, nella logica della competizione e della comunicazione
politica, conseguire un importante successo. Il Genoa Social Forum, in questo senso, ha
vinto: e si tratta, a ben vedere, non esclusivamente di una vittoria mediatica.
In una fase storica che vede prevalere gli instant party e i localismi, le organizzazioni
monotematiche e a termine, fondate su interessi circoscritti e transitori, le associazioni
dell'immediato e del vicinato, del qui e ora: in questa fase e in questo quadro, il
movimento antiG8 nasce e si sviluppa grazie alla sua proiezione nello spazio e nel tempo e
alla sua capacità di trattare politicamente queste due categorie. Ciò costituisce una
significativa differenza rispetto ai movimenti di qualche decennio fa, quando i concetti
di lontano (il Vietnam, la Cina) e di futuro (la rivoluzione, il socialismo)
rappresentavano l'elaborazione ideologicoutopistica di una mobilitazione intorno alle
proprie materiali condizioni di vita. Oggi, la concentrazione sul lontano (l'Africa) e sul
futuro (il destino del pianeta) ha assai poco di ideologico: e la forza del movimento e il
risultato finora conseguito a Genova consistono proprio nell'aver avvicinato - reso di
nostra pertinenza e di nostra responsabilità questioni che apparivano come di un
altro luogo (i paesi del quarto e del quinto mondo) e di un altro tempo (le generazioni
future).
Per altro verso, tuttavia, il movimento antiG8 ha perso. Nonostante l'impegno di alcuni
leader e, in particolare, di Vittorio Agnoletto, ha permesso un singolare e perverso
slittamento di senso. Il debito dei paesi poveri e la fame, le nuove schiavitù e i 500
morti al giorno per Aids in Kenya sono stati ridotti, all'interno del circuito mediatico
(e con qualche complicità di settori del movimento), a un problema di libertà di
manifestazione per i contestatori occidentali nella città di Genova. A questo ha
contribuito potentemente il comportamento prima ottuso e, poi, ferocemente illiberale del
governo; e non si vogliono sottovalutare, certo, i legami tra la partecipazione collettiva
nei sistemi democratici e le decisioni degli organismi sovranazionali e delle potenze
industriali sulla vita e sulla morte di miliardi di persone.
Ma la vita e la morte di miliardi di persone non si giocano in alcun modo ma
proprio in alcun modo nella toponomastica di una città e nei riti simbolici di
violazione delle zone interdette. Aver consentito che si potesse scambiare un problema
certo importante di agibilità politica all'interno dei sistemi democratici
con le questioni della desertificazione e della carestia, significa una sola cosa: che
l'antico vizio eurocentrico pesa ancora, eccome, e condiziona anche un movimento così,
alla lettera, lungimirante. Insomma, il movimento antiglobalizzazione deve essere ancora
più globale nella mentalità e nei comportamenti - di quanto oggi sia . |