Manifesto 24 luglio 2001

Pallottole di stato@
Genova 1960, Genova 2001. La lunga scia di sangue lasciata nelle piazze dalla polizia
MARCO D'ERAMO

Vincenzo Napoli aveva 25 anni ed era un piccolo esercente di Licata in Sicilia; Afro Tondelli era fuochista a Reggio Emilia dove vivevano anche gli operai Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri. Invece il mastromuratore Andrea Vella e il giovane manovale disoccupato Andrea Gangitano erano di Palermo, mentre il ventiduenne Salvatore Novembre era un disoccupato di Catania. Nomi sepolti dall'oblio, ma quarant'anni fa destarono una commozione simile e diversa da quella che oggi suscita Carlo Giuliani. Nomi, come il suo, di manifestanti uccisi dalla polizia, dopo gli scontri di Genova (allora come oggi), 41 anni fa, nel luglio (allora come oggi) del 1960.
Era il 30 giugno 1960 quando a Genova si aprì il congresso del Movimento sociale italiano (Msi) di Giorgio Almirante, partito dalla cui costola è nata l'attuale Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Dal 29 aprile di quell'anno sedeva a Palazzo Chigi Ferdinando Tambroni, ex-ministro degli interni, il cui governo aveva ricevuto la fiducia grazie all'appoggio esterno dei fascisti. Era la prima volta dalla fine della repubblica di Salò che il Msi teneva un congresso da partito di governo, un preludio - anche quello - alla situazione attuale in cui An detiene la vicepresidenza del consiglio.
Ma nel 1960 il governo Tambroni è un tentativo ben più audace: quello di disdire il patto costituzionale, fondato sulla Resistenza, di un'Italia antifascista. E tenere a Genova il congresso è una provocazione calcolata da parte del Msi di Almirante, di Caradonna, di Michelini: Genova è un città profondamente partigiana, con una presenza comunista massiccia, un fronte del porto combattivo (i camalli), un sindacato pronto a mobilitarsi. Così il 30 gennaio la Camera del lavoro di Genova proclama uno sciopero generale dalle 14 alle 20. Alle 15 e 30 partì il corteo, centomila persone, guidato dai dirigenti della Resistenza. Genova - scrisse Giorgio Bocca - "sembra in stato d'assedio; non meno di 10.000 poliziotti e carabinieri in armi circondano la città. Gli scontri scoppiano improvvisi alle 17 e 30 dopo i discorsi ufficiali. Presto si è alla guerriglia urbana, le camionette della polizia vengono date alle fiamme; i mitra strappati ai poliziotti e gettati su un grande rogo in Piazza De Ferrari. Alle 19.30, mentre la rivolta si estende, la Camera del lavoro proclama uno sciopero generale di 24 ore nella provincia; solo a tarda sera le autorità acconsentono a ritirare dalla città i reparti di polizia: 80 agenti sono contusi, 36 feriti, i fermati una sessantina, i feriti civili in numero imprecisato".
Scioperano anche Milano, Livorno, Ferrara. Il prefetto Pianese fa affluire a Genova altri 15.000 uomini. Dopo vari tira e molla, i missini accettano di spostare il congresso da Genova. L'indomani Genova celebra la vittoria antifascista con una manifestazione cui partecipano in prima fila i dirigenti comunisti Pietro Longo, Pietro Secchia, Umberto Terracini, Ferruccio Parri. Il governo Tambroni cerca la rivincita.
Martedì 5 luglio a Licata il sindacato proclama lo sciopero generale contro la disoccupazione, la miseria e contro... lo spostamento di una centrale termoelettrica a Porto Empedocle. Gli scioperanti occupano la stazione ferroviaria, bloccano i treni, sbarrano il traffico sulle strade 115 e 123. Verso sera la polizia apre il fuoco, uccide il 25-enne Vincenzo Napoli. Altri 24 scioperanti rimangono feriti.
Il giorno dopo l'esibizione delle forze di polizia si trasferisce a Roma. Nonostante il divieto del prefetto, un gruppo di deputati del Pci e del Psi si reca a Porta san Paolo a deporre due corone ai piedi della lapide che ricorda i combattimenti del settembre 1943. Gli squadroni a cavallo caricano i deputati, ne trascinano alcuni per terra, ne feriscono altri, altri ancora sono manganellati. Le case del Testaccio vengono rastrellate a una a una. La cronaca dell'Espresso (17/7/1960) riferisce: "Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato, interrogato, spesso bastonato".
Ma il peggio doveva ancora succedere. L'indomani, 7 luglio, la scena si sposta a Reggio Emilia nel cuore rosso dell'Italia. Gli operai delle "Officine reggiane" non entrano in fabbrica per protestare contro il pestaggio a sangue di un ragazzo da parte dei reparti Celere. La Celere era la formazione adibita alla repressione antisommossa, e perciò tristemente famosa in tutta la sinistra italiana. Il 7 pomeriggio 350 "celerini" armati di mitra e pistola affrontano così 300 operai in camicia. La prima jeep si avventa sui dimostranti e schiaccia Afro Tondelli, l'unico a non essere ucciso da colpi di arma da fuoco. Subito dopo comincia la sparatoria e rimangono a terra altri quattro dimostranti: Ovidio Franchi ed Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri. E' di loro che parla una delle più belle e più tristi canzoni del movimento operaio italiano, "Morti di Reggio Emilia".
L'indomani la scena si risposta in Sicilia. L'8 luglio, alle due del pomeriggio, poche centinaia di persone si riuniscono per manifestare davanti al Politeama di Palermo. La polizia comincia a caricare selvaggiamente, i dimostranti rispondono a sassate, finché in via Roma gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Andrea Vella e Andrea Giangitano. Nello stesso giorno a Catania la polizia spara un altro manifestante, il 22-enne disoccupato Salvatore Novembre. L'unica consolazione, se tale può dirsi, è che il 19 luglio cade il governo Tambroni.
Non sarà l'ultima volta che la polizia ucciderà un dimostrante (vedi la cronologia qui accanto): appena due anni dopo toccherà Giovanni Ardizzone schiacciato da un'altra camionetta della Celere. E poi Avola, Battipaglia, Serantini, e così via per altri sedici assassinati, fino a Giorgiana Masi (1977). Da allora, dal 1977 - per quanto ci si possa fidare della memoria propria e dei propri coetanei - la polizia italiana (intesa in senso lato, compresi i carabinieri cioè) non ha più ucciso nessun manifestante.
Per il suo mega articolo sui fatti del luglio 1960, l'Espresso più su citato aveva come occhiellone "La violenza di stato". Ecco, dopo 24 anni ci eravamo dimenticati della violenza di stato e delle brutalità poliziesche. Quasi quasi, prima di vederli in tenuta antisommossa, li avevamo perfino presi per una specie di servizio sociale. Ci era come sfuggito che la definizione funzionale delle forze di polizia di uno stato è quella di "apparato repressivo" e che - in accordo con Max Weber - ciò che fa dello stato uno stato è il "detenere il monopolio della violenza" (legittima secondo Weber, ma anche illegittima quando è il caso).
Oggi, dopo il blitz notturno di Genova e l'esecuzione a bruciapelo di Carlo Giuliani, ci colpisce quanto tutto si somigli e quanto tutto sia diverso. Simili i governi di centro-destra. Simile la città (Genova) in stato d'assedio; simile la retorica sul terrorismo rosso, sui vandalismi e le devastazioni; sui benpensanti disturbati nello shopping; simili le lacrime di coccodrillo degli Emilio Fede di turno.
Ma allora si moriva per una centrale termoelettrica a Porto Empedocle o per il congresso di un partitino fascista; oggi contro il governo del mondo. Allora erano braccianti, manovali, disoccupati, fuochisti indigeni e autoctoni di Reggio e di Licata; oggi giungono a manifestare da Brema, Ostenda, Barcellona, Edimburgo, Los Angeles. Allora, contro una violenza poliziesca come questa, i deputati della sinistra erano pronti a sfidare le cariche degli squadroni a cavallo e i sindacati proclamavano lo sciopero generale. Oggi il Fassino di turno o il Bertinotti telegenico cadono dalle nuvole davanti alla violenza nella storia: all'improvviso ognuno si scopre dentro di sé un gandhismo per lo meno sospetto.
In un certo senso, il comportamento del ministro Scajola e dei suoi prefetti rimette le cose a posto, pone fine a un'amnesia di 24 anni. Perché è vero: ci eravamo dimenticati di quanto bieche, stupide e maramalde potessero essere le forze repressive dello stato, ma loro si sono dimenticati di un fattore ancora più fondamentale, e cioè che niente favorisce la crescita di un movimento quanto la vile angheria e la repressione cieca.
Viltà è parola troppo forte, direte, ma si rivela ineludibile, se si considera che là dove e là quando il movimento è stato più forte e più deciso - cioè i portuali e i partigiani a Genova nel '60, gli studenti nel '68 e gli operai delle fabbriche del nord nel '69 - lì la polizia non ha mai osato estrarre le armi da fuoco, anzi ha preferito farsele gettare al rogo come avvenne a Genova nel 1960.
Il 19 luglio del 1960 Ferdinando Tambroni si dimetteva. Ma il 20 luglio 2001 gli otto potenti della terra hanno annunciato che l'anno prossimo si riuniranno rintanati in una landa sperduta del Canada, nelle tundre tra lo stato del Manitoba e lo Saskatchewan, tra licheni, alci e zanzare: solo lì si ritengono al sicuro. E questa è una grande vittoria: avere obbligato gli otto grandi a "entrare in clandestinità".

PS. Genova 1960 costituisce il mio primo ricordo politico, con i deputati fascisti che venivano a parlare eccitati con mio padre ex ufficiale della X Mas. Ma Genova è anche la prima "trasferta politica" di mio figlio per partecipare a una manifestazione in un'altra città: tre generazioni in quarant'anni.