La Stampa
Venerdì 27 Luglio 2001
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«C’era la guerra, ho picchiato anch’io»
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Un poliziotto racconta il blitz nella
scuola: rimorsi? No, rabbia
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inviato a GENOVA
C’ERO dentro la scuola, ho partecipato all’inferno di Genova. Adesso siamo
finiti noi sulla graticola, accusati per tutto quello che è successo a Genova. A che
serve parlare? Vuoi sapere delle nostre violenze? Sì, ci sono state, ma perché vi siete
dimenticati di quello che hanno fatto le tute nere? Ormai a difenderci c’è solo il
capo della Polizia e il ministro dell’Interno. Voi non avete capito che a Genova c’è
stata una guerra».
Che brutto clima si respira in questura e nei suoi paraggi. Nessuno vuole parlare, persino
nella forma anonima, preoccupato di diventare «vittima» di una «caccia alle streghe».
I poliziotti che hanno garantito lo svolgimento del G8 si sentono stretti dalla morsa di
una tenaglia: da una parte il Gsf e l’opposizione, dall’altra i «colleghi».
Il poliziotto ha riflettuto a lungo se parlare o meno, se raccontare la perquisizione all’interno
della scuola Pertini, ex Diaz. E alla fine si è fatto vivo. L’incontro avviene in un
bar, nei paraggi della rianimata piazza De Ferrari, ex zona rossa. «Io c’ero quando
siamo entrati nella scuola Pertini, che voi signori della stampa chiamate Diaz, che non
era la sede del centro stampa del Genoa Social Forum. Il Gsf si trovava, invece, nella
scuola di fronte, la vera Diaz. Ma prima di parlare della scuola e di quello che è
accaduto - sì, abbiamo picchiato, è volata qualche manganellata di troppo - vorrei
gridare che noi venivamo da due giorni d’inferno».
Mastica rabbia il poliziotto: «Qualcuno ha scritto che avevamo l’infiltrato nella
scuola, che ci eravamo preparati nei giorni precedenti per fare questo blitz. Questo non
lo so, ma dubito che sia andata così». Fa una smorfia che sembra un sorriso: «Perché
non avete scritto che i miei capi vi avevano convocati per assistere alla perquisizione?
Se volevamo picchiare l’avremmo fatto alle tre di notte, senza testimoni». Ricorda:
«Respiravo lacrimogeni e mi difendevo dagli assalti delle tute nere da due giorni. C’era
l’inferno a Genova e adesso ve la prendete con noi».
Sabato sera, gli scontri erano finiti, il corteo del Gsf (200.000 persone) stava
defluendo, migliaia di ragazzi cercavano di entrare nella stazione di Brignole per
prendere il treno e tornare a casa. «Verso le undici, il mio dirigente ci avvisa di stare
pronti: "Li andiamo a beccare". Noi di Genova eravamo pochi, si aggregano il
reparto mobile di Roma e i carabinieri, che ci dovevano coprire le spalle. Se l’operazione
fosse stata pianificata un giorno o due giorni prima, ci saremmo organizzati diversamente.
E invece ci portano sù come quando arriva la chiamata d’emergenza al 113».
Il «celerino» sorseggia una birra. Non è testimone o protagonista di quello che è
accaduto prima dell’irruzione alla Pertini. La versione ufficiale parla di un
«pattuglione» di quattro auto, due in borghese e due volanti, che intorno alle dieci si
trovano a passare tra le due scuole, non erano di Genova e avevano avuto la segnalazione
che in via Trento, e non alla Diaz o alla Pertini, c’era un gruppo di tute nere.
Passano tra le due scuole e vengono bersagliati da pietre e bottiglie. E’ stato
allora che in questura si è pianificato l’intervento.
«Nel cellulare il capo ci dice di stare attenti, che nostri colleghi erano stati
assaliti, che ci dovevamo aspettare il lancio di pietre, di bottiglie incendiarie. Che
erano tanti. Eravamo nervosi, stanchi e l’adrelina ci teneva svegli. Ero lucido? Non
lo so. L’importante, in questi casi, è che i nostri dirigenti lo siano. Arriviamo
sul posto. In testa ci sono funzionari in borghese. Si mettono da parte, un nostro mezzo
sfonda il cancello. E’ buio, sentiamo grida. Entriamo in quella palestra, accolti da
una pioggia di pietre. Non si capisce più nulla. In quegli attimi - non so dire se dopo
un minuto o un’ora, non so quanto tempo siamo stati dentro - sento i colleghi che
dicono che uno dei nostri era stato accoltellato. Il primo che mi capita sotto tiro è un
ragazzo. Impugno il manganello».
Si ferma, i suoi occhi sono come dei laser: «Vuoi sapere se ho picchiato? Sì, l’ho
fatto. Nessuno mi ha fermato». Perché lo hai fatto? Cosa ti aveva fatto quel ragazzo? Un
sospiro profondo prima della risposta: «Non lo so. Sentivo gridare, vedevo che loro si
difendevano, che cercavano di darcele. E io sono stato più veloce di lui». Ma è vero
che i ragazzi dormivano? «Quando sono entrato nella palestra, no. Non so se prima o nelle
aule dei piani superiori c’era chi dormiva».
Quando tutto finisce, e si può entrare nella scuola, il sangue sulle pareti della
palestra documenta quello che è successo. Il bilancio ufficiale dell’operazione: su
93 presenti nella scuola, 68 devono far «ricorso alle cure mediche». Rimangono feriti
anche 17 poliziotti. Sei giorni dopo quella perquisizione, hai qualche rimorso? Il
poliziotto risponde fulmineo: «Rimorso no, rabbia tanta».
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