Manifesto 4 agosto 2001

PROVOCAZIONE AL POPOLO DI SEATTLE
Ma Carlo Marx non sarebbe d'accordo con voi
LUIGI CAVALLARO


"Chiunque pensi che la risposta alla povertà del mondo sta nell'invettiva contro il commercio globale è privo di cervello o sceglie di non usarlo", ha scritto Paul Krugman sul New York Times del 22 aprile scorso per manifestare il suo dissenso nei confronti del "popolo di Seattle". L'affermazione lascia a prima vista perplessi. Krugman, pur essendo in odore di Nobel, non può certo definirsi un economista "organico" all'establishment, verso il quale non perde occasione per lanciare strali polemici irridenti quanto teoricamente fondati. Come mai, allora, una presa di posizione così dura, fino a dire che gli unici in grado di fare qualcosa per migliorare le condizioni del pianeta sono proprio i policy makers assediati, mentre i dimostranti, sarebbero "gente senza cervello innamorata del proprio idealismo"?
Non credo che Krugman apprezzerebbe il paragone, ma la sua presa di posizione ha un precedente illustre in Karl Marx. Nel Discorso sul libero scambio pronunciato il 9 gennaio 1848 a Bruxelles, intervenendo nella polemica sull'abolizione delle tariffe doganali sui cereali d'importazione - rivendicata dagli industriali ed esportatori di Manchester come misura in grado di determinare la riduzione del prezzo del pane (cioè dei salari), e proprio perciò fieramente contrastata dai socialisti di allora - Marx prende inaspettatamente posizione a favore dei liberoscambisti. Nel farlo, non nasconde che la "libertà" per la quale essi si battono è "la libertà del capitale", che implica l'oppressione e la schiavitù dei salariati, né ignora che il vero scopo degli industriali è quello di liberarsi dal peso della rendita fondiaria; tanto meno gli sfugge che, da una simile rivendicazione, nessun beneficio immediato può venire al proletariato industriale. Nondimeno, è convinto che la conservazione di una misura protezionistica come il dazio all'importazione sia di per sé una sconfitta, perché - e qui si anticipa una delle tesi chiave del Manifesto del partito comunista, che vedrà la luce poche settimane dopo - lo sviluppo capitalistico porta con sé la distruzione degli "ultimi residui del feudalesimo" e permette il disvelarsi, proprio in ragione della sua distruttività, dell'antagonismo irriducibile tra il capitale e il lavoro. "In generale - conclude Marx - il sistema protezionista è conservatore mentre il sistema del libero scambio agisce come fattore di distruzione e spinge al culmine l'antagonismo tra proletariato e borghesia. In una parola, il sistema della libertà di commercio accelera la rivoluzione sociale".
E' possibile che in queste parole oggi si veda un che di cinico, quasi che Marx immaginasse la rivoluzione come uno Juggernaut sotto le cui ruote gettare l'esistenza concreta di milioni di donne e uomini. La cosa, però, non è così semplice. Dietro la difesa marxiana del libero scambio c'è, da un lato, la consapevolezza che molto tempo deve ancora trascorrere prima che gli individui imparino a scambiare i loro lavori in modo diverso dallo scambio delle merci che di quei lavori sono il prodotto; dall'altro, la convinzione che la genesi di questa nuova forma delle relazioni sociali presuppone comunque l'appropriazione del patrimonio di conoscenze che già ora è disponibile. In un mondo in cui il prodotto del lavoro umano assume forma di merce, il commercio internazionale rappresenta, infatti, l'unico fattore capace di favorire la mobilità internazionale del "sapere sociale generale" che nelle merci è, appunto, oggettivato. E l'acquisizione di questo sapere sociale generale, in quanto principale forza produttiva, rappresenta il presupposto decisivo perché i paesi più poveri possano ridurre lo squilibrio nell'appropriazione delle risorse a fini produttivi e di consumo che connota la loro posizione rispetto al club dei ricchi.
Naturalmente, questo sviluppo procede sempre "dal lato cattivo", cioè in modo antagonistico: i lavoratori di taluni paesi sono costretti, per poter avere di che vivere, a lavorare più di quanto sarebbe necessario se si avvalessero delle conoscenze tecniche disponibili, e questo pluslavoro crea la possibilità di un "non lavoro" e di una ricchezza eccedente per altri paesi. Ma questo sviluppo antagonistico non è se non la conseguenza di un sistema economico - quello capitalistico - in cui le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono assunte su base individuale. L'altra faccia del commercio è infatti la divisione del lavoro: e se è vero che lo scambio mediato dal denaro presuppone "l'universale dipendenza reciproca dei produttori", è anche vero che questa dipendenza si manifesta come loro "mutua e generale indifferenza" (ancora parole di Marx). La società esiste come "fatto estraneo" agli individui, l'interesse generale come "generalità degli interessi egoistici". Ciò implica che in quello che von Hayek definisce il "cosmos" del mercato, i problemi economici che investono la totalità della riproduzione sociale non sono risolti da alcuna decisione "consapevole". Anzi, i produttori immediati non sono nemmeno consapevoli, se non confusamente, dell'esistenza di problemi del genere: ciascuno decide il proprio comportamento in vista del conseguimento dei propri obiettivi, basandosi sulle informazioni provenienti dal sistema dei prezzi; il funzionamento del sistema determina poi l'impersonale risposta ai problemi di ordine più generale.
Queste considerazioni permettono, a mio avviso, di cogliere una patente contraddizione nelle rivendicazioni del popolo di Seattle. Nelle rappresentazioni che esso dà di se stesso (illuminanti, in questo senso, tre recenti articoli di Giuseppina Ciuffreda), la conformazione "reticolare" non è assunta come limite connesso al basso grado di sviluppo del movimento, ma come un progresso rispetto alle tradizionali forme dell'agire politico. E' esclusa in radice, quindi, l'evoluzione del "movimento di movimenti" verso forme strutturate come quelle dei partiti novecenteschi: e ciò, a ben vedere, non è che una conseguenza del modello relazionale generale di cui il movimento stesso è portatore, anch'esso reticolare e privo di nessi organizzativi che non siano di tipo orizzontale (non è un caso che molti degli appartenenti al movimento condividano un'eguale avversione per i due moloch che hanno segnato la storia del secolo breve: il capitalismo e lo Stato).
Dove sta, allora, la contraddizione? Si può rinvenirla in ciò, che le forze morali che il popolo di Seattle ritiene artefici dell'ineguaglianza e della devastazione ambientale che si associano alla globalizzazione (e cioè l'egoismo, la motivazione al profitto, ecc.) sono al contempo quelle che permettono attualmente agli individui di cooperare senza che debbano per forza "conoscersi o amarsi" e possono essere rimosse dal loro ruolo di vettori della cooperazione solo istituendo un'autorità centrale che stabilisca, attraverso un piano mondiale, cosa, come e per chi produrre. Il motivo, in fondo è semplice: il mercato è, per definizione, il luogo "orizzontale" in cui s'incontrano decisioni di produrre, di scambiare e di consumare prese da individui che agiscono l'uno all'insaputa dell'altro, ciascuno preoccupato di perseguire il proprio utile. Se dunque dobbiamo evitare che la motivazione al profitto determini che cosa e in che quantità dovranno produrre gli imprenditori, dovremo istituire un'autorità unica che dia loro ordini ben precisi, relativi sia alle quantità da produrre che ai loro destinatari. E che, ovviamente, ordini a questi ultimi di consumare quei beni e in quella specifica quantità, e imponga ai lavoratori di lavorare alle dipendenze degli imprenditori proprio quel tempo che serve alla produzione di quei beni, e così via.
Non vale obiettare che non s'intende sopprimere il mercato, ma fissare prezzi "equi", profitti "giusti" e così via. Sul mercato, il prezzo "equo" è quello che risulta dal gioco concorrenziale; se ricerchiamo una "giustizia" o un'"equità" diversa da quella che si afferma sul mercato, dobbiamo anche specificare cosa è giusto e cosa è ingiusto in ogni singolo caso. Correlativamente, dovremo anche istituire uffici preposti a giudicare i casi dubbi e prevedere un aggiornamento sistematico della casistica; e tutti, ovviamente, dovranno dipendere dall'autorità centrale, alla quale in ultima analisi sarà demandata l'allocazione delle risorse mondiali. La conclusione è volutamente paradossale, ma il problema è reale e non vi si sfugge esibendo le forme concrete di "commercio equo e solidale" o di "banca etica": la comunanza d'intenti che simili esperienze presuppongono è sufficiente a dar conto della loro inevitabile "particolarità". Cosa vuole, allora, il popolo di Seattle?