Da "Umanità Nova" n.27 del 22 luglio 2001

Radicali e radicati
Da Seattle a Genova passando per il cortile di casa

We are winning. Stiamo vincendo. Questa scritta è apparsa sui muri di Seattle durante le manifestazioni del novembre 1999 contro il vertice dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. Quando, nei primi giorni del dicembre di quell'anno i media diffusero le immagini di quella che presto venne chiamata la "Battaglia di Seattle" a molti, anche qui da noi, fu chiaro che qualcosa di nuovo e di importante stava prendendo forma.

Il successo, l'anno precedente, della lotta contro il famigerato MAI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) aveva indubbiamente infuso fiducia nella possibilità di dar forma ad un movimento, che, pur radicato localmente, avesse una capacità potente di creare reti di collegamento ed iniziative di portata globale. Le avvisaglie che qualcosa, dopo anni di quieta palude sociale, si stava muovendo erano ben evidenti da qualche anno, ma la straordinaria valenza simbolica delle azioni contro il WTO andava al di là delle aspettative dei più. La ragnatela fittamente e pazientemente intessuta tra attivisti dei quattro angoli del pianeta all'improvviso dimostrava di essere ben più di un nesso virtuale, una relazione telematica, un chiacchericcio attraverso la Rete, ma mostrava capacità di costruzione di ponti solidi, atti a portare conflitti progettualmente motivati fin nel cuore degli Stati Uniti. A Seattle le politiche di predazione, distruzione, controllo totale perseguite dagli Stati sono state improvvisamente colpite da un fascio di luce vividissima. L'assedio, fisico ma anche simbolico, del WTO ha sottratto al buio delle alchimie tecniche il significato delle scelte che, nei vari ambiti transnazionali, definiscono l'orizzonte di vita (e, spesso, di morte) per gli oltre sei miliardi di abitanti del pianeta. Da allora tutti i vertici dei potenti, usualmente mera vetrina scintillante per la ratifica di decisioni già prese, sono stati tallonati da un movimento sempre più vasto nonostante l'accrescersi ed il raffinarsi delle strategie repressive messe in campo dai vari Stati ospiti. Dal magma poliforme dei movimenti ambientalisti, comunalisti, autogestionari, squatter, femministi, neosindacalisti che attraverso gli anni '80 e '90 avevano disegnato galassie talora contigue ma raramente comunicanti è emerso un movimento variegato, plurimo, non di rado contraddittorio, certo segnato dalle esperienze dei decenni precedenti ma comunque capace, nelle sue espressioni più alte, di proporsi con freschezza ed audacia inedite.

Aspirazione alla concretezza immediata, agilità organizzativa, capacità comunicativa, afflato universale, tensione libertaria ne delineano il carattere. Il paradigma che ne definisce lo spazio di azione, le coordinate di pensiero ed anche, innegabilmente, contraddizioni e limiti, è quello disegnato dallo zapatismo. L'EZLN non a caso incarna un paradosso che nessuno, credo, avrebbe prima pensato realizzabile: un movimento armato, indigeno, locale che si proietta immediatamente sulla scena mondiale ridisegnando l'intera semantica della lotta extrasistemica. I volti coperti che anziché nascondere rivelano, una curiosa commistione di tattiche della non-violenza e di movimento guerrigliero, comunitarismo e internazionalismo, il pensare e agire localmente ed il pensare ed agire globalmente, la reinvenzione della cosiddetta "società civile" quale soggetto di una politica dal basso che non disdegna il dialogo con le istituzioni, la valorizzazione della tradizione autoctona e l'uso della Rete per una comunicazione a tutto campo.

Quando il primo gennaio del 1994, nello stesso giorno dell'entrata in vigore del Nafta, l'accordo per il libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, gli zapatisti fanno irruzione sulla scena politica mondiale è immediatamente evidente il carattere innovativo del loro agire che frantuma, tentando di superarla, la classica distinzione tra opzione riformista e scelta rivoluzionaria. Difficile a sette anni distanza valutare gli esiti, in Chiapas ed in Messico, dello zapatismo. L'intervento dell'Ezln si mantiene costantemente e fortunosamente in bilico in una sorta di movimento statico, un'empasse forse voluta, coltivata, mantenuta come condizione di sopravvivenza, tra l'esplodere violento del conflitto totale e distruttivo e lo scivolamento in un'arena istituzionale dalla prospettiva altrettanto rovinosa.

Ma l'empasse probabilmente intenzionale dell'Ezln è ancora una volta utile per tentare di delineare il profilo dei movimenti, che con intensa accelerazione si sono sviluppati da Seattle in poi.

Anche questi movimenti appaiono, talora perigliosamente, in bilico: in bilico tra il rischio di un'estremizzazione minoritaria del conflitto e quello dell'assorbimento rapido nei vischiosi meandri della politica istituzionale. In bilico tra l'apertura di uno spazio comunicativo efficace e la caduta nella spettacolarità effimera delle grandi manifestazioni internazionali. In bilico tra la riproposizione, riveduta e corretta in salsa Tobin, di prospettive neowelfariste e il delinearsi, per sottrazione e costruzione, di percorsi di autonomia economica e politica. In bilico tra democrazia radicale e radicale superamento della democrazia. In bilico tra prospettiva di un capitalismo dal volto umano ed anticapitalismo.

Appare improbabile che queste tensioni possano restare a lungo irrisolte: già emergono chiari segnali che i numerosi grovigli non districati che attraversano il percorso dei movimenti contro la globalizzazione liberista creino un garbuglio difficilmente scioglibile. Le varie tradizioni politiche e culturali della sinistra ne sono attraversate in modo trasversale, tale di scompaginare il quadro cui eravamo soliti fare riferimento.

Il vivace dibattito sulle forme di lotta, divenuto più serrato dopo i numerosi tentativi di criminalizzazione dei movimenti, non è che la punta di un iceberg la cui parte sommersa è ben più vasta e profonda.

Quasi due anni dopo Seattle la partita si allarga e si complica. Negli ultimi tempi, complice e vittima della sovraesposizione mediatica, il movimento sembra avvilupparsi avventatamente nella discussione sulle diverse strategie di piazza, perdendo di vista l'approfondimento dei contenuti, la costruzione di una prospettiva che vada al di là dei grandi appuntamenti intorno ai summit dei potenti. La macchina servile dei media, prona di fronte alle veline di poliziotti e spie alle dipendenze dei poteri forti, ha lavorato a fondo per tentare di criminalizzare la parte di movimento indisponibile al dialogo con le istituzioni, per dividere i "buoni" dai "cattivi", i compatibili dagli incompatibili. Giornali come Repubblica hanno condotto con vergognosa spregiudicatezza un'operazione di plastica bifacciale: da un lato hanno disegnato, con volgare ed insistita grossolanità il profilo del manifestante violento, anarchico, teppista senza prospettive; sull'altro fronte hanno dato spazio alle anime riformiste, vicine alle aree diessine e cattoliche, possibile serbatoio di voti e consenso per la sinistra moderata. Un gioco volgare, sfacciato che tuttavia pare trovare più di una sponda all'interno del movimento. Un movimento le cui componenti più istituzionali tentano di smarcarsi dal vento impetuoso di Seattle per ridislocarsi nell'alveo rassicurante delineatosi con il Forum sociale mondiale di Porto Alegre.

Le parte più marcatamente libertaria, a-istituzionale, anticapitalista ed antistatalista del movimento rischia l'accerchiamento da parte della repressione statuale da un lato e delle aree riformiste dall'altro. Tra queste vi è persino chi mima, nei contenuti e nelle modalità di lotta e organizzazione, forme e percorsi tipici dell'approccio libertario, distorcendoli e depotenziandone la carica sovversiva. Occorre evitare questi tranelli, aggirandoli con un salto capace di ridefinire costantemente le forme di un conflitto che trae senso e linfa vitale dalla continua capacità di costruire autogestione e progetto.

Le manifestazioni internazionali, come quella odierna di Genova, sono state e saranno importanti perché riescono a di mettere in luce il carattere distruttivo, violento, irriformabile dei vari organismi sovranazionali, ma non possono rappresentare il punto centrale di un percorso che deve, necessariamente, svilupparsi altrove. La forza di questo movimento è nella capacità di coniugare radicalità e radicamento, agire e pensare localmente ed agire e pensare globalmente e non deve inaridirsi nella mera contestazione dei vertici dei potenti. Altrimenti si rischia di diventare una sorta di "tour operator" della contro globalizzazione, specializzati in viaggi in paesi esotici. Una specie di Camel trophy della sovversione, con tanto di emozioni già programmate. O, peggio, di fare da sponda di movimento ad un'esangue sinistra istituzionale a caccia di poltrone e di volti nuovi. Al Genoa Social Forum hanno preso parte politicanti di ogni risma bisognosi di legittimazione. C'erano gli esanimi Verdi, orfani di potere, reduci dal governo della "guerra umanitaria"; e in prima fila anche i sindacati di stato cui è stato tolto un tavolo per la concertazione di politiche antipopolari; per non parlare di qualche diessino in salsa associazionista, degli onnipresenti cattolici e dei rifondati bisex: con i Cobas e con la CGIL, con la tute bianche e con gli autonomi.

Questo è un mondo che corre, corre sempre più in fretta, ed altrettanto in fretta macina esperienze, percorsi ed anche i movimenti sociali che non sanno sottrarsi allo spettacolo, alla logica folle che, mimando insensatamente le regole imposte dal marketing, consuma rapidamente, rendendola improvvisamente desueta, persino la capacità di critica, oltrepassamento, negazione dell'istituito.

È una trappola da schivare, spiazzando l'avversario, moltiplicando la propria capacità di dissodare terreni nuovi, zone autonome, spazi liberi. Per superare le numerose empasse in cui rischia di bloccarsi occorre che il movimento sappia spargersi sul territorio come polvere, costruendo rapporti conflittuali che si alimentino della capacità di costruzione intenzionale di mondi altri, di relazioni altre, di vite altre. Ogni giorno, ovunque.

La tensione ad un'azione radicale che sappia trarre linfa da un radicamento profondo, da una progettualità capace di innervare profondamente il presente, può essere il segno di un movimento rivoluzionario capace di costruire il proprio futuro nell'oggi.

Come anarchici abbiamo cominciato, non senza difficoltà, a muoverci in questa direzione, l'unica capace di raccogliere le istanze più feconde di questi movimenti. Ma si può e di deve fare di più.

Maria Matteo