Mnaifesto 2 agosto 2001 ARTICOLO
Quando i celerini si sono arresi
DAVIDE FERRARIO
Venerdì 20 luglio ore 15,30 circa, Genova, Piazza Marsala. Il corteo
dei pacifisti sta assediando la zona rossa. C'è stato qualche momento di tensione e una
carica della polizia con lancio di lacrimogeni. Ma la folla non si è dispersa e i
manifestanti cominciano a riaffacciarsi sulla piazza. I poliziotti si sono attestati un
centinaio di metri indietro.
Il megafono gracchia l'annuncio regolamentare (l'unico che mi ricordi di aver sentito in
48 ore di scontri): "Sgombrate la piazza". C'è un momento di perplessità, poi
qualcuno avanza a mani alzate. Con grande coraggio un paio dei leader pacifisti vanno
verso i poliziotti e sfilano davanti a loro con le braccia ben sollevate. Gli altri,
qualche centinaio, si siedono a terra. Una donna si sdraia davanti a una camionetta.
Altri, molti altri seguono il loro esempio. Parte un unico coro, non minaccioso: "Via
il casco, via il casco".
I poliziotti sono visibilmente presi in contropiede. Sembrano quasi essere contenti di
essere oggetto del lancio di una bottiglia piena d'acqua, ma il lanciatore viene subito
neutralizzato dai suoi compagni. Si sente fisicamente la tensione smontare di fronte alla
reazione pacifica della piazza. Quando il primo poliziotto si toglie il casco, scrollando
la testa rassegnato, è un'ovazione. Presto anche gli altri lo imitano. Segue una scena
che avevo visto solo in qualche film sugli scioperi delle mondine, quando i soldati si
rifiutano di sparare sui manifestanti.
I poliziotti - che senza la mascheratura del casco sono tornati a essere uomini,
spesso molto giovani - sono coperti di abbracci e di offerte di acqua e focaccia.
"Perchè ci picchiate? Siamo dalla vostra parte!" dicono i ragazzi. Il graduato
comincia a lamentarsi del costo della vita. "Sapete quanto costa una confezione di
latte in polvere?", protesta. Chiudendo inconsapevolmente e paradossalmente il
circolo visioso sulla globalizzazione iniziato con il boicottaggio della Nestlè...
Mezz'ora dopo arriveranno i Black bloc e ricominceranno a parlare, indiscriminatamente, i
manganelli.
Non molti, sotto il diluvio di immagini dure provenienti da Genova, hanno prestato
attenzione a questo episodio. Che è in realtà uno dei pochi in cui la piazza intorno
alla zona rossa è stata davvero "conquistata". Lo ricordo qui, come testimone
diretto, per raccogliere l'invito a cominciare a pensare al "dopo Genova" dal
punto di vista delle tattiche di disobbedienza.
Non sono, ideologicamente, un pacifista a priori. Ma mi resta molto forte la convinzione
che se quella di Piazza Marsala fosse stata la tattica unanimente adottata, la vittoria
del movimento anti-G8 sarebbe stata totale. Non perchè i mezzi sono più
"buoni", ma perchè - davanti a uno schieramento poliziesco e mediatico come
quello in opera a Genova - sono più efficaci.
Ancora alla vigilia del G8 avevo difeso in un acceso dibattito la scelta delle Tute
Bianche di tentare di sfondare la zona rossa. Credevo molto che quell'odioso simbolo
dovesse essere violato (le donne che mi contestavano leggevano in questo una chiara
metafora maschilista). Ma visto il modo in cui la polizia, durante la notte, aveva
spostato il campo di battaglia, penso che sia stata una scelta perdente quella di
accettare lo scontro in mezzo alla città. Perchè lì non c'era nessun simbolo da
conquistare, ma solo una serie di cariche e controcariche che hanno offerto alle forze
dell'ordine (e anche a molti manifestanti) la possibilità di offrire il peggio di sé. So
benissimo che il corteo è stato attaccato quando ancora non era volata una pietra: ma da
lì in poi lo scontro è stato accettato fino in fondo.
Certo, anch'io sono rimasto impressionato dal coraggio e dalla spontanea voglia di
combattere di molti: ma mi chiedo che diversi effetti avrebbe sortito se fossero stati
impiegati in altro modo. Affrontare i celerini a mani nude implica un coraggio molto
maggiore che non con la protezione di mezzi rudimentali (ed è inutile negare che nella
bagarre è stato utilizzato tutto ciò che si trovava a portata di mano, automobili e
cassonetti compresi).
Casarini ha giustamente detto che sarebbe stato autolesionista farsi spaccare la testa. Ma
il punto è proprio lì. Con duemila telecamere puntate sul corteo, la scelta di
attaccare, da parte della polizia, avrebbe avuto un effetto devastante sull'opinione
pubblica. Non a caso il punto che più gli si sta ritorcendo contro è l'attacco bestiale
alla Diaz, dove la disparità di forze e comportamenti è stato clamoroso. E, infine, non
è che i caschi e il resto abbiano salvato i molti feriti e tantomeno il povero Carlo
Giuliani. Nello scontro militare, vincono sempre loro.
A questo proposito, giovedì avevo seguito con una certa qual sufficienza un
"corso" di autodifesa tenuto da due compagne americane reduci da Seattle. Da
vecchio frequentatore di cortei mi era sembrato che tutto quanto vedevo fosse appunto un
po' "americano", poco applicabile alla nostra tradizione di servizi d'ordine
ecc.
Oggi penso invece che quel tipo di resistenza, fatto di cordoni e di sincronismi per
gruppi che si conoscono, nonché la capacità di applicarla su scala di massa, sia la via
d'uscita dall'impasse violenza sì-violenza no. Tenendo ben presente che l'uso
della forza non è necessariamente sinonimo di violenza. E che ormai è chiaro che ci
sarà sempre una telecamera pronta a riprendere quel che succede, innescando
contraddizioni interne al sistema della "democrazia liberale" che sono oggi ben
evidenti agli occhi di tutti e che il movimento deve sfruttare. Casarini aveva affermato
con una certa incoscienza che "Noi stiamo usando i media per i nostri
obiettivi". E' successo fino al 20 luglio: salvo poi cadere abbastanza ingenuamente
nel trappolone preparato (male) da polizia e carabinieri. Da allora dobbiamo ammettere che
sono i media a usare il movimento, riducendone la ricchezza di contenuti a una
questione di ordine pubblico.
Fuori dal fuoco della battaglia, proviamo a riconsiderare le cose anche da questo punto di
vista.
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