La Stampa
Martedì 24 Luglio 2001

FIRMAXXXXretroscena
Francesco La Licata

ROMA
LUI, il capo, ha trascorso ore ed ore nella sua stanza. Ha sentito tutti i dirigenti dei servizi che sono stati impegnati a Genova, ha parlato al telefono con mezza Italia. La sala d’attesa del suo ufficio è stata continuamente intasata di funzionari «convocati» per dare chiarimenti su come si sono svolti i fatti che adesso costituiscono un vero e proprio capo d’accusa: il morto di via Caffa e il blitz in una delle sedi del «Gsf». Insieme coi comandanti dei carabinieri e della Guardia di Finanza, Gianni De Gennaro, ha lavorato ininterrottamente per offrire al ministro tutte le pezze d’appoggio necessarie, in vista del durissimo confronto parlamentare sugli incidenti di venerdì e sabato. Questi ultimi due giorni hanno praticamente visto sempre insieme il Capo della Polizia e il ministro dell’Interno. Il quadro che ne viene fuori, anche alla luce della relazione dello stesso Claudio Scajola, rappresenta sostanzialmente l’autodifesa degli apparati che sembra aver convinto il governo.
Va detto subito che, anche per ammissione dello stesso ambiente ministeriale, gli interrogativi più difficili ai quali dare risposte congrue hanno riguardato soprattutto le catastrofiche conseguenze del blitz nella scuola «Diaz». Sulla tragica fine di Carlo Giuliani, infatti, la ricostruzione dei fatti aveva, in qualche modo, attenuato le responsabilità delle forze di polizia, anche se rimane ingiustificabile l’aver permesso che una jeep con tre carabinieri (giovanissimi e inesperti) si sia trovata isolata e a contatto con la folla.
L’assalto alla sede del «Gsf», invece, è stato dai più interpretato come una sorta di colpo di testa motivato da spirito di vendetta per le aggressioni subìte nei giorni precedenti. Questa interpretazione viene seccamente respinta. Improvvisazione? Ma davvero c’è qualcuno capace di pensare che «per ripicca» si mette in piedi un’operazione condotta da due vicecapi della Polizia, La Barbera e Andreassi, il capo del Servizio centrale operativo, Francesco Gratteri, il questore di Genova, il prefetto, il capo della squadra mobile, il direttore della Digos e numerosi funzionari della Direzione centrale della polizia di prevenzione? La tesi del Viminale è che l’irruzione nella scuola era diventata necessaria perché una messe continua di notizie continuava a denunciare, nel ventre del «movimento», la presenza di elementi che le forze dell’ordine considerano veri e propri terroristi. Notizie di informatori? Qualcuno c’era, ma la certezza che ci fosse anche nelle sedi del «Gsf» un via vai di tute nere e di «materiale bellico», era venuta dalle riprese compiute dall’elicottero.
E non è completamente vero, continua l’autodifesa, che si sia sbagliato facendo intervenire il reparto mobile, cioè quei poliziotti che avevano il dente avvelenato per gli scontri dei giorni precedenti. Al blitz hanno partecipato quasi tutti i reparti presenti, agenti della mobile, dello Sco, carabinieri. Il difficile era entrare senza che ci scappasse un altro morto. I manifestanti si erano barricati e si temeva, fondatamente, che potessero essere armati. Poi, al momento dello sfondamento, c’è stato l’episodio dell’accoltellamento del poliziotto. E neppure al Viminale negano che si sia innescata una spirale di violenza e che qualcuno sia andato oltre il limite. Non è vero neanche che si è agito senza coordinarsi col centro. Roma - il capo, il ministro - era al corrente, attimo per attimo, di quanto accadeva. Anche la magistratura sapeva perché era stata avvertita che si sarebbe fatta una perquisizione, andando anche oltre quanto prescrive l’art. 41. L’irruzione era giustificata come operazione di prevenzione antiterroristica.
Ma non c’era anche una sorta di volontà di «recuperare», dal punto di vista politico e mediatico, dopo la diffusione delle immagini che certificavano il fallimento della tenuta dell’ordine pubblico? La risposta a questa obiezione lascia intravedere una parziale ammissione visto che nessuno nega quanto sarebbe stato «politicamente utile» dimostrare che il «movimento» offriva coperture agli anarchici. Tuttavia si insiste nel ritenere, quella perquisizione, un’operazione di polizia giudiziaria che avrebbe potuto dare un grosso contributo nella comprensione di un fenomeno che ancora non è di facile decifrazione. Purtroppo, è il rammarico, è andata male perché il materiale sequestrato non era quello che si immaginava e, di contro, è stato pagato un prezzo enorme in termini di feriti.
Ma insomma, non c’è nulla di cui la polizia debba rimproverarsi? Ed ecco questa volta l’ammissione: certamente non è andato tutto come ci si aspettava. Forse col senno di poi si potrebbe dire che andava intensificato il lavoro preventivo per impedire che i gruppi terroristici potessero addirittura entrare in contatto coi manifestanti. Ma anche qui si possono invocare attenuanti: come si fa a ipotizzare che si sarebbero dovute blindare le frontiere? Come si fa a negare l’accesso a cittadini italiani o anche stranieri che non portano armi e sono forniti di documenti in regola? Sospendere il trattato di Schengen significava semplicemente ripristinare il controllo dei documenti. Questo è stato fatto, tanto che più di duemila cittadini stranieri (i famosi «segnalati») sono stati rimandati indietro. E per alcuni di loro, forse, si è persino trattato di un abuso. Immaginate le critiche se si fossero blindati i confini.