La Repubblica 25 luglio 2001 LE
RISPOSTE CHE MANCANO
di GIUSEPPE D'AVANZO
LA QUESTIONE non è se il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, debba dimettersi o
restare al Viminale, per il momento. Quello che è accaduto a Genova non può precipitare
subito nella polemica politica fra governo e opposizione. Qui non sono ancora chiari i
fatti e, fin quando non lo saranno, ogni responsabilità sarà scolorita e troveranno
spazio soltanto le strumentalizzazioni, i pregiudizi, le convenienze di schieramento,
mentre altro sembra in gioco. In gioco sembra esserci il diritto di manifestare la propria
opinione nel rispetto delle forze di polizie e i limiti a cui devono sottostare polizia e
carabinieri nel garantire l'ordine. Dall'altro lato, la fiducia che le forze dell'ordine
devono avere nel rispetto delle regole di convivenza civile da parte di chi manifesta. E'
un problema che non si ferma, purtroppo, a Genova, ma che potrebbe ripresentarsi nei
prossimi mesi se l'Italia dovesse affrontare una situazione di acuta tensione politica e
sociale. Non c'è soltanto la globalizzazione. L'agenda politica offre un calendario
(pensioni, scuola, sanità, relazioni sindacali) denso di occasioni di confronto e
scontro.
Il ministro dell'Interno ha dato la sua ricostruzione dei fatti alla Camera l'altro
giorno. E' stata una ricostruzione superficiale, come un chiacchiericcio fra poliziotti in
Questura. Ben altre sono le risposte che ci aspettavamo alle questioni ancora oscure e che
rendono incomprensibili le giornate del G8 genovese. Qui tenteremo di proporne qualcuna.
Conviene cominciare dalla prevenzione degli episodi di violenza e dal controllo del gruppo
più aggressivo dei Black Bloc.
Non è un mistero per nessuno che, fin dalla primavera, c'era una sola preoccupazione ai
piani alti del Viminale: l'arrivo in Italia delle «tute nere». Questo giornale ne
rendeva conto il 27 maggio, con un articolo dal titolo «La minaccia dei Black bloc,
l'anima nera del movimento».
Ora, è lecito chiedersi perché i Black bloc non siano stati fermati prima che si
mettessero in azione nel corpo vivo del pacifismo in corteo. Ecco la prima domanda a cui
il ministro avrebbe dovuto rispondere. A Quarto, nei pressi di Genova, davanti
all'Ospedale psichiatrico, la Provincia ha a disposizione un maxicomplesso con uffici,
scuola superiore, asilo nido, due palestre, un teatro, il parco. Quest'area è stata
concessa al «Network», l'ala radicale degli anti G8 che comprende centri sociali -
estranei alle «tute bianche» - e i Cobas. Di questo complesso resta ben poco: gli uffici
sono stati distrutti, i computer spazzati via e il presidente della Provincia, Marta
Vincenzi, conta 4 miliardi di danni. Fin da mercoledì sono stati i Black bloc a occupare
l'area a suon di calci, bastonate e minacce cacciando via tutti gli altri. Per quattro
giorni sono stati padroni assoluti del territorio. Bene, Marta Vincenzi racconta che fin
dalle 11 di sera di giovedì la giunta, gli assessori, i direttori dei servizi provinciali
hanno segnalato quel che stava avvenendo in Questura e in Prefettura. A scanso di
ambiguità, c'è anche una denuncia scritta. Nessuna perquisizione del luogo è stata
ordinata dalla Questura che ha inviato, soltanto la mattina di sabato 21, una camionetta
della polizia. I poliziotti si sono tenuti ben lontani dall'edificio, accontentandosi di
dare una sbirciatina. È da Quarto che, da molteplici testimonianze raccolte dai cronisti
di Repubblica, alcune centinaia di «tute nere» si sono mosse verso il centro di Genova
giungendo a 200 metri da via XX Settembre, distruggendo al loro passaggio negozi, banche,
auto.
Qualche domanda al ministro. Perché l'edificio di Quarto non è stato perquisito prima
dell'avvio del G8? E perché non è stato perquisito neanche dopo il primo giorno di
violenze? Quante erano davvero le «tute nere»? Il ministro parla di 5 mila. I testimoni
oculari sparsi nella città indicano invece in non più di 300500 i violenti, di cui
soltanto 100 sistematicamente dediti ad assalti e devastazioni. Seconda domanda. È stato
confermato dall'Arma dei carabinieri che alcuni agenti, sotto copertura, hanno infiltrato
le «tute nere» durante i giorni di Genova. Come è ovvio, nessuno si scandalizza che
questo avvenga nelle particolari circostanze che si stavano creando. Ma se infiltri un
gruppo di violenti è per prevederne le mosse, localizzarne i luoghi di ricovero,
neutralizzare il loro arsenale, arrestarli o fermarli, prima che possano raggiungere i
loro obiettivi. Nulla di tutto questo è accaduto a Genova. E allora perché infiltrare il
gruppo? Anche questa domanda merita una risposta del ministro dell'Interno, che non può
essere, tuttavia, l'unico destinatario degli interrogativi di questi giorni.
Se si vuole sfuggire al gorgo di inutili polemiche politiche che lasciano ognuno nei
propri pregiudizi, è doveroso che anche la leadership del Genoa Social Forum sciolga
qualche nodo.
Il Tg5 di domenica alle 20 ha mostrato le immagini di un furgone, parcheggiato in una
strada di Genova, mentre si svolgeva la manifestazione del giorno precedente. Nel furgone,
un ragazzo distribuiva bastoni di legno e mazze ferrate. Bene, quello stesso furgone era
stato parcheggiato, nei giorni precedenti, in via Ciclamini, dove erano acquartierati i
manifestanti dei Cobas. In quello stesso campo, sono state sequestrate 62 mazze ferrate,
che erano di giorno in giorno caricate su quel furgone, preso in affitto a Torino da un
anarchico. È possibile che nessuno dei responsabili del «campo» abbia visto? È
legittimo che chi ha visto abbia taciuto, anche quando, nel corso del tempo, è parso
evidente che i più violenti usavano i non violenti, come schermo per le loro imprese? Noi
non lo crediamo.
Nonostante sia lecito ipotizzare che parte del movimento no global abbia sottovalutato o
tollerato o, addirittura, sia stato complice delle imprese dei gruppi più aggressivi non
è lecito, e non può esserlo in un paese di democrazia evoluta, che le forze dell'ordine
si abbandonino in presenza di questa ipotesi o anche di una certezza, a violenze inutili,
vendicative. Se i silenzi del movimento no global rappresentano una grave responsabilità
politica che rischia di travolgere le ragioni del movimento, le violenze delle forze
dell'ordine costituiscono una pericolosa défaillance istituzionale. A questo proposito,
ci sono per lo meno tre domande a cui il ministro dell'Interno dovrebbe rispondere.
Perché venerdì 20 luglio per tutta la mattinata le «tute nere» hanno potuto
abbandonarsi ad una distruzione sistematica? Perché carabinieri e polizia si sono messi
in moto, dietro una raffica di lacrimogeni, in via Tolemaide soltanto nel pomeriggio
quando, alle 15, è partito il corteo pacifico dei non violenti, che procedeva senza che
volasse una pietra, un urlo, un bastone? Queste risposte, ormai, il ministro dell'Interno
e il governo le debbono non soltanto all'opinione pubblica italiana. Dal New York Times al
Los Angeles Times, dal Financial Times alla tedesca Bild, dagli inglesi Sunday Times e
Guardian, i grandi giornali internazionali raccontano delle violenze gratuite subìte da
manifestanti non violenti. Soprattutto, in due luoghi, che coincidono con i protagonisti.
Primo luogo: gli edifici scolastici Diaz e Pascoli in via Cesare Battisti. In queste due
scuole è intervenuto il Reparto Celere di stanza nella caserma di Bolzaneto. Quel che è
accaduto alla Diaz e alla Pascoli lo abbiamo potuto vedere tutti nei suoi effetti. Le
immagini televisive ci hanno mostrato sangue sui muri, sui pavimenti, sulle cose. Abbiamo
visto uscire dall'edificio ragazzi con la testa rotta, senza denti, con le braccia
spezzate. Erano responsabili di aver celato macchine fotografiche, olio abbronzante,
tamponi, coltelli da campeggio, e certo anche due molotov. Ma è legittimo usare violenza
contro tutti per punire la responsabilità di pochi? Ed è legittimo accusare addirittura
di associazione per delinquere tutti coloro che avevano trovato ricovero in quel complesso
scolastico? Ma quel che è accaduto nelle due scuole non è nulla rispetto a quanto è
successo nella caserma del Reparto Celere di Bolzaneto.
Già Le Monde e El Pais di ieri hanno raccolto le testimonianze degli sventurati che si
sono trovati in quel luogo in stato di fermo. Nelle nostre cronache troverete la
testimonianza di Evandro Fornasier. Il suo racconto obbliga il ministro dell'Interno ad
una risposta. «A turno - racconta Fornasier, come già Adolfo Sesma e Luis Alberto
Lorente a El Pais e Vincent a Le Monde - entravano militari a usarci violenza: ci
sbattevano la testa contro il muro, ci davano calci sui testicoli, schiaffi, colpi al
torace, gas urticante in faccia e insulti continui: "Comunisti di merda, froci".
Oppure: «"Perché non chiamate Bertinotti o Manu Chao"?».
Signor ministro, chi dirige il Reparto Celere di Bolzaneto? È stata una iniziativa di
questo dirigente il pestaggio sistematico dei fermati? Oppure, a questo dirigente è stato
dato un ordine? E da chi?
Signor ministro, l'idea che non esistono fatti, ma solo interpretazioni non è solo falsa,
ma può diventare pericolosa perché se la democrazia, e le regole della democrazia,
diventano soltanto un punto di vista, alla democrazia conviene preparare il funerale. |