La Stampa 29 luglio 2001
L'Europa interroghi se stessa
di Gian Enrico Rusconi

«L’Europa vuole la verità su Genova» - scrivono polemicamente alcuni giornali italiani. «Sono i giornali a protestare, non i governi europei, che si limitano a chiedere soltanto informazioni» - così replica il ministro Ruggiero. E’ una risposta infelice, da diplomatico nel senso più convenzionale della parola. Come se il vertice di Genova non fosse stato concepito originariamente, in analogia con tutti i G8, come un grande evento mediatico, compiacenti tutti i capi di governo convenuti. Come se questi capi di governo non fossero stati avvertiti - dopo le cattive esperienze precedenti, in particolare dopo quella di Göteborg - dei pericoli che correva il vertice di Genova.

Qui sta la grande leggerezza di tutte le autorità politiche e di polizia non soltanto italiane ma anche europee. A Genova infatti, in occasione di un evento pubblicizzato e realizzatosi come fatto transnazionale, si è visto che l’ordine pubblico non è più un bene di competenza nazionale, ma è diventato letteralmente un «bene comune» europeo. E’ sacrosanto che si presentino davanti al giudice quei rappresentanti delle forze dell’ordine che sono responsabili di inaccettabili comportamenti, documentati anche sugli schermi televisivi di tutto il mondo.

Ma questa azione di giustizia non dovrebbe certo essere compiuta soltanto per dare soddisfazione ai nostri amici europei. Vorremmo anzi che essi stessi chiedessero ai loro governi e alle loro autorità di polizia che cosa hanno fatto di concreto per mettere la polizia italiana nelle condizioni migliori di agire con efficacia. Sappiamo che l’elemento scatenante della violenza a Genova, nella prima fase, è imputabile all’azione di estremisti militarizzati, parecchi di nazionalità tedesca. E’ inspiegabile l’incapacità delle forze di polizia di contrastare questo gruppo militarizzato la cui presenza era prevista e annunciata da tempo sui giornali. Si è fatto tutto il possibile da parte delle autorità tedesche e italiane per prevenire il prevedibilissimo comportamento del cosiddetto «blocco nero»?

Non c’è stato qui il primo fatale errore di valutazione? E’ stato un errore condiviso dalle polizie dei due Paesi. A disastro avvenuto, si è capito che l’ordine pubblico a Genova non poteva essere garantito spezzando la città tra un’area riservata alla politica (recintata a «zona rossa») e ad un’area di parcheggio, riservata ai movimenti dei dimostranti. Questo modello è stato reso obsoleto dall’attualità e dall’urgenza stessa dei problemi dibattuti e dalla carica motivazionale dei manifestanti. Per questo è bastata la presenza del ristretto gruppo degli estremisti militarizzati per far detonare il tutto. Poi, purtroppo, c’è stata la seconda fase: quella del pestaggio dei manifestanti inermi e la violenta perquisizione della scuola. Quasi impotente vendetta postuma. L’analisi fatta sin qui evita intenzionalmente di far intervenire affrettate spiegazioni politico-ideologiche per quanto è successo. Questo vale anche per alcune letture «politiche», che vengono fatte in questi giorni all’estero sui fatti di Genova.

Con faciloneria si suggerisce un rapporto diretto tra la nota inefficienza italiana (in questo caso delle forze dell’ordine), con residui di immaturità democratica (comportamenti fascistoidi di alcuni poliziotti) e la presenza di un governo di centrodestra, già in sospetto per altri motivi. E’ un ragionamento a corto circuito che può far piacere a qualche commentatore italiano ma che non soddisfa. Forse però così si spiega l’attuale singolare congiuntura dell’Europa nei confronti dell’Italia: ritegno dei governi e loquacità della stampa.