La Repubblica 28 luglio 2001 LA
TENTAZIONE
DEL CAVALIERE
di GIUSEPPE D'AVANZO
Se avessero dato il benservito al capo della polizia lunedì scorso, chi si sarebbe
meravigliato? L'opinione pubblica aveva ancora negli occhi le violenze dei Black bloc (che
nessuno è stato in grado di prevedere e fermare in tempo) o i pestaggi indiscriminati e
vendicativi dei poliziotti lungo le strade di Genova (e non erano ancora saltati fuori gli
abusi e i soprusi della caserma della Celere a Bolzaneto).
Chi si sarebbe meravigliato di una testa che saltava per una catastrofe dell'ordine
pubblico e dello Stato di diritto di quelle dimensioni? Non era stato così anche a
Seattle?
Ma se il problema si ripropone dopo una settimana, val la pena di guardare dentro la
ritardata tentazione del Cavaliere di fare piazza pulita ai piani alti del Viminale. Via
il capo della polizia, via i suoi vice. Non per gli «eccessi» manganellatori della
polizia, ma perché quegli uomini sono stati selezionati dai governi del centrosinistra.
In verità, come tutte le nomine dell'ultimo anno del gabinetto Amato anche quella di
Giovanni De Gennaro, capo della polizia, è stata bipartisan. Poco più di un anno fa,
furono Fini, Casini e Frattini a convincere Berlusconi a dare il placet per la nomina di
De Gennaro. Ma quel poliziotto non è mai piaciuto al Cavaliere. Troppo amico di Violante,
mai pubblicamente lontano dal procuratore Caselli, troppo inviso a Cesare Previti e a
Marcello dell'Utri per averne fiducia davvero e alla fine Berlusconi è sempre quel che
appare. Magari sa di dover velare il suo umore o la sua convinzione più profonda dietro
una sorriso diplomatico o una dissimulazione, ma non riesce a reggere il gioco a lungo.
Sollecitato dalle domande dei giornalisti nella conferenza stampa che ha chiuso il G8,
ricordò che quei vertici del Viminale erano lì per volere della «sinistra». È stato
appena stropicciato ieri al Senato da un accenno di critica e subito il presidente del
Consiglio ha rovesciato nell'aula il suo pensiero più autentico. «Non abbiamo cambiato
un solo funzionario di polizia. Il capo della polizia, il vicecapo della polizia, il
questore di Genova, il capo dei Servizi d'informazione sono coloro che voi, sinistra,
avete ritenuto degni di fiducia e che voi avete messo a ricoprire quelle
responsabilità». Insomma, quelli lì sono uomini vostri e non potete ora far pesare le
loro responsabilità sulle mie spalle. Come era prevedibile, le parole del Cavaliere
(meditate o «scappate» che siano) hanno riaperto una questione che sembrava chiusa
lunedì scorso, appunto. Quel giorno il ministro degli Interni, Claudio Scajola, aveva
«blindato», per dir così, i vertici della sicurezza riconoscendo loro, nonostante i
pubblici pestaggi, la professionalità di chi aveva organizzato l'ordine pubblico a
Genova. La faccenda si poteva dire liquidata. De Gennaro salvava la poltrona e con lui il
suo staff. Per il momento, come è ovvio. Nel Polo c'era chi avrebbe voluto tenerselo ben
stretto e a lungo, in fondo «sotto scopa». Gli avevano salvato la testa e, accettando il
salvataggio, il capo della polizia aveva firmato una bella cambiale in bianco che, prima o
poi, avrebbe dovuto onorare. Ma nel Polo c'era anche chi avrebbe voluto cogliere la palla
al balzo per liberarsi di quegli uomini professionalmente promossi negli anni dei governi
del centrosinistra. In prima fila, Maurizio Gasparri, oggi ministro delle
Telecomunicazioni, nel 1994 sottosegretario agli Interni nel «Berlusconi I». Gasparri
non nascondeva la sua voglia di scegliere facce nuove. In controtendenza con le
dichiarazioni di Gianfranco Fini e Claudio Scajola, dichiarava al Foglio (lunedì 23
luglio) che «qualche inadeguatezza c'era stata». Che quelle inadeguatezze erano tutte
«di De Gennaro e Andreassi (vicecapo della polizia) che di ordine pubblico nella loro
carriera ne hanno fatto assai poco». Anche ieri il ministro è stato lesto a farsi
avanti. Confortato dalla sortita di Berlusconi, è stato ancora più netto di cinque
giorni fa. «I vertici delle forze dell'ordine sono stati scelti dal centrosinistra. Ecco
perché io sostengo che bisogna fare un ricambio perché altrimenti si verifica una
situazione di equivoco. Mi auguro che, presto o tardi, ci sia una classe dirigente scelta
dal governo attuale così ci potremo fare carico di quella responsabilità che oggi non ci
possiamo assumere in toto perché non sappiamo bene se coloro che sono stati scelti dal
precedente esecutivo siano capaci o meno. Alcuni può darsi che lo siano e meritano di
rimanere, altri forse no».
Da ieri, dunque, il capo della polizia (De Gennaro), il vice capo (Andreassi), il
direttore dell'intelligence civile (Stelo) sono di nuovo sulla graticola e non per quello
che tutti hanno visto durante la «battaglia di Genova», ma per un confronto tutto
interno al governo e alla maggioranza. È una situazione che appare istituzionalmente
ambigua e quindi pericolosa perché se fai il capo della polizia o hai sulla tua testa la
mano dell'autorità politica o è meglio per il Paese e i 300 mila uomini impegnati della
sicurezza che te ne torni a casa. E' una situazione non inedita. Dovette fronteggiarla
anche Vincenzo Parisi, il capo della polizia che il primo governo Berlusconi si ritrovò
al Viminale nel 1994. Il ministro dell'Interno era allora Roberto Maroni e quel vecchio
poliziotto che aveva servito lo Stato su tutti i fronti, e nella micidiale congiuntura del
crollo della Prima Repubblica, non andava giù al neoministro che aveva una gran voglia di
cambiare e di svecchiare le polverose e assai democristiane stanze del Viminale. Parisi
annusò l'aria e si disse che un capo della polizia non può restare in un limbo di
legittimazione perché in gioco non è un destino personale, ma la forza e la credibilità
delle istituzioni, la tenuta di un corpo delicatissimo ed essenziale dello Stato. Ai miei
uomini - confessò Parisi - non chiedo di andare ogni mattina a un ballo in maschera. Gli
chiedo di rischiare il posto, la carriera e qualche volta la vita, assumendosi delle
responsabilità. Lo fanno se credono nell'autorità di chi impartisce gli ordini e ci
credono soltanto se quell'autorità è legittimata dal potere politico. Se non lo è,
ognuno si barcamena attendendo giorni migliori e certezze più salde. Non è così che si
può garantire la sicurezza e l'ordine nel Paese». Parisi chiese che Maroni desse un
inequivoco segnale per la sua riconferma. Il ministro ritenne non necessario farlo. Parisi
lasciò il suo incarico.
È una situazione che sembra riproporsi ora con Giovanni De Gennaro. Ora qui importa poco
che la sua nomina sia stata concordata da Giuliano Amato con Berlusconi. Conta dire che la
sospensione di legittimità che pesa su De Gennaro non indebolisce soltanto il capo della
polizia, ma il ministro dell'Interno, l'efficacia delle politiche della sicurezza, il
governo stesso. Le indiscrezioni spiegano quest'impasse o ripensamento con un confronto
nel governo tra chi, come Scajola, il vicepresidente Gianfranco Fini e il ministro per i
Servizi segreti Franco Frattini ritengono che non sia il momento di avvicendamenti e chi,
come il portavoce del capo del governo Bonaiuti e Marcello Dell'Utri cedono alla
tentazione, puntando il dito contro De Gennaro, di mettere in difficoltà il ministro
dell'Interno, un po' troppo potente con il controllo di Forza Italia, che ha conservato, e
il ministero che ha conquistato. Altri raccontano addirittura che, per ridimensionare il
potere di Scajola, Palazzo Chigi stia valutando l'ipotesi di affidare al Viminale soltanto
il compito di assicurare l'ordine pubblico assegnando la gestione della sicurezza
(intelligence e investigazioni) alla Presidenza del Consiglio. Come che sia, questo
confronto nel governo - sempre accade in questi casi - ridà fiato ai movimenti delle
lobbies, alle faide tra le alte burocrazie con l'Arma dei carabinieri alleata al «partito
dei prefetti» contro il «partito dei poliziotti». Un bailamme che conviene interrompere
al più presto prima che l'intero assetto della sicurezza ne esca indebolito più di
quanto non lo sia oggi, dopo la vergogna di Genova. |