La Repubblica 3 agosto 2001

SE SALTANO GLI UOMINI DEL CAPO
di GIUSEPPE D'AVANZO


NON sarebbe esaustivo parlare ora di teste cadute. Con la rimozione dal loro incarico del vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, del direttore di quella che una volta era la "polizia politica" Arnaldo La Barbera e del questore di Genova Francesco Colucci, con buone o cattive ragioni (giusto e ingiusto sono qualifiche fluide, in questi casi) la polizia di Stato paga il prezzo di quanto è accaduto a Genova.
Bisogna allora ricordare quanto è accaduto a Genova per comprendere quanto è accaduto ieri. A Genova soprattutto tra sabato e domenica (i micidiali Black bloc si erano esibiti con le loro distruzioni soprattutto il venerdì) la polizia e (anche se nessuno ha voglia di ricordarlo) i carabinieri si sono abbandonati a metodi e procedure indegni di uno Stato di diritto che hanno compromesso duramente il rapporto di fiducia tra forze dell'ordine e opinione pubblica e seriamente ferito l'immagine internazionale del nostro Paese. Era senza dubbio legittimo perquisire sabato notte le aule della scuola Diaz di via Cesare Battisti, ma non c'è ombra di legittimità nello scientifico pestaggio a cui sono stati sottoposti coloro che vi soggiornavano. Di peggio, è accaduto nelle venti ore seguenti quando i fermati sono stati ancora picchiati nella caserma di Bolzaneto.
Di fronte a questi episodi, nulla poteva restare come prima a meno di non voler deformare l' idea stessa di democrazia. Qualcosa doveva accadere, e ieri è accaduto. Mai le alte burocrazie della sicurezza in Italia hanno pagato un prezzo tanto alto alle loro responsabilità oggettive.

Mai in un colpo solo il vertice di un'istituzione antica di 150 anni ha accettato di mettere sul ceppo la testa dei suoi uomini più in vista. Anche al di là delle loro responsabilità dirette.
È il caso, per dire, di Arnaldo La Barbera. È arrivato a Genova soltanto nel pomeriggio di sabato. Ha invitato alla prudenza e alla cautela i funzionari che si stavano muovendo verso la Diaz anche quelli che strologavano di «bombardamenti di lacrimogeni». Inquieto e preoccupato, ha raggiunto la Diaz per tenere freddi gli animi. Ha anche tentato all'ultimo momento di far rientrare l'azione. Si è arreso di fronte a un quadro di comando che non gli attribuiva nessuna responsabilità né di ufficiale di polizia giudiziaria né di funzionario per ordine pubblico. È un capro espiatorio e nessuno può meravigliarsi che una catastrofe come quella di Genova travolga colpevoli e innocenti dando la stura a un fiume di polemiche (e faide e agguati di palazzo) che non vanno sottovalutate perché interpellano il ruolo, la responsabilità e il destino stesso del capo della polizia Giovanni De Gennaro. I prefetti Andreassi e La Barbera sono i collaboratori più stretti del capo della polizia. Da lui direttamente scelti per organizzare e controllare il summit genovese. Se loro hanno fallito, ha fallito anche De Gennaro. Salvare De Gennaro dalle responsabilità che pagano Andreassi e La Barbera, non significa proteggerlo, ma indebolirlo e con lui indebolire la credibilità e il prestigio della catena di comando che deve assicurare al Paese la sicurezza, l'ordine, il rispetto dei diritti e l'obbligo dei doveri. Una polizia debole, succube piuttosto che subordinata nelle regole (come è giusto che sia) all'esecutivo è un motivo di preoccupazione in un periodo in cui troppi uomini politici affollano le sale operative dei carabinieri, troppi ministri e vicepremier frequentano prefetture e caserme di polizia.
Con questa perplessità sullo sfondo, va dato atto al ministro dell'Interno Claudio Scaloja di essersi mosso forse con qualche ora di ritardo, ma con discrezione e decisione. Può essere un primo passo affinché il ministro recuperi agli occhi della maggioranza e dell'opposizione, del governo e dell'opinione pubblica, soprattutto del capo del governo Silvio Berlusconi, un ruolo super partes, bipartisan come usa dire, necessario alla sua più autentica missione istituzionale. Perché un ministro dell'Interno, in fondo, garantisce le regole del gioco per chi vuole mostrare in pubblico il suo consenso ma anche per chi vuole manifestare il suo dissenso, e le manifestazioni di dissenso nei prossimi mesi non mancheranno.
Sarebbe sbagliato, però, considerare chiuso, con la rimozione di Andreassi, La Barbera, Colucci, il «caso Genova». Anzi, quelle rimozioni finalmente lo aprono riportandolo lungo percorsi più trasparenti e comprensibili. Vale la pena di definirli.
Se il Viminale destina ad altro incarico tre dirigenti di quel livello vuol dire che prende atto che qualcosa a Genova non ha funzionato, che qualcuno nelle forze dell'ordine è andato oltre il recinto della legalità. Questa presa d'atto rende possibile un più coerente e fondato accertamento della verità. Andreassi, La Barbera e Colucci non possono pagare per tutti. Sono stati individuati come responsabili oggettivi di quanto è accaduto. Diciamo anche che sono i capri espiatori che pagano per tutti ora, ma da oggi vanno cercate le responsabilità soggettive e personali di chi ha distribuito a Genova mazzate gratuite, inutili e vendicative su cittadini inermi. È il lavoro che spetta ai pubblici ministeri di Genova impegnati nelle sei inchieste aperte da quell'ufficio. C'è poi la commissione d'indagine parlamentare. Anche qui la rimozione dei tre alti dirigenti del Viminale potrebbe e, negli auspici, dovrebbe riportare un clima di serenità nel confronto tra maggioranza e opposizione. La speranza è che si abbandonino i toni da crociata dall'uno e dall'altro lato, la voglia di processi e di pubbliche condanne che sembra accedere di volta in volta gli uni e gli altri. La commissione dovrà accertare anch'essa le responsabilità dei funzionari dello Stato ma nella prospettiva di individuare quali sono gli ostacoli da rimuovere nella pubblica amministrazione e nella politica per evitare che un aspro confronto politico e sociale degeneri in spietata repressione o in aggressione armata. Vale la pena che i politici di tutti gli schieramenti si leggano l'intervista a Luca Casarini che Repubblica pubblica in questo numero. Molti dei suoi argomenti non possono essere condivisi, ma in quegli argomenti affiora un grido d'allarme che è anche un'invocazione d'aiuto. Dopo la «battaglia di Genova», ci sono larghi settori del movimento giovanile tentati dallo scontro armato, affascinati dallo straordinario marketing mediatico dei Black bloc, attratti dalla tentazione di rispondere al fuoco con il fuoco. Ecco il pericolo che incombe sul nostro futuro cominciato nelle strade di Genova tra via Tolemaide e piazza Alimonda. Una generazione che può cadere ancora una volta, a distanza di venti anni, nel gorgo della violenza è una questione che chiama in causa le responsabilità della politica. Di quella di sinistra e di quella della destra di governo.