La Stampa
Sabato 28 Luglio 2001
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«La polizia ci ha torturato»
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Un inglese denuncia: violenze psicologiche
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LONDRA
JONATHAN Blair, 38 anni, fa attività sindacale. Dice di non appartenere a nessuna
organizzazione politica. A Genova era andato per conto suo, a manifestare in modo
pacifico, in compagnia del suo amico Dan MacQuillan, 35 anni, tecnico informatico per un’organizzazione
di volontariato e figlio di un ex medico onorario della regina. Entrambi sono tornati a
Londra insieme con altri due connazionali arrestati durante il raid nella scuola: pesti,
traumatizzati, hanno accusato la polizia italiana di brutalità non appena sono sbarcati
all’aeroporto. Jonathan Blair parla genericamente di «polizia», e non di
carabinieri, perché dice di non saper distinguere tra i diversi corpi di di polizia
italiani.
Jonathan, può ricostruire quella notte nella scuola?
«Mi trovavo in una camera al primo piano con il mio amico Dan e un altro tizio, un
neozelandese quando ho sentito questo rumore terribile fuori. Sono accorso alla finestra e
ho visto questo enorme numero di poliziotti in strada, che caricava, e un furgone della
polizia che sfondava i cancelli della scuola. Dopo hanno fatto irruzione anche nella
nostra stanza e ci sono saltati addosso».
Qualcuno di voi ha resistito all’arresto?
«Scherza? Bisognava essere pazzi per farlo. Io mi sono beccato solo qualche botta qua e
là, per miracolo: mi sono appallottolato sotto i colpi. Ma il mio amico Dan McQuillan è
stato pestato a sangue: ha riportato una ferita grave in testa, gli hanno rotto un polso e
ha contusioni su tutto il lato sinistro del corpo. Eravamo per terra, in un lago di
sangue, il sangue di Dan. Poi, prima di andare via, i poliziotti hanno preso alcuni mobili
della stanza e ce li hanno scaraventati addosso».
E poi sono venuti a riprendervi.
«Ci hanno ordinato di uscire, e mentre gli passavamo davanti ci colpivano. Poi ci hanno
fatto accovacciare sul pavimento dell’ingresso. Dan era molto malconcio. Sanguinava
profusamente e tremava in continuazione. Alcuni poliziotti avevano un aspetto molto
strano. Ne ricordo uno, un omone con la faccia mascherata, che aveva una coda di capelli
che gli usciva dall’elmetto e gli arrivava a metà schiena. Mi ricordo anche che
alcuni erano in borghese, in maglietta e jeans, con una maschera sulla faccia»
Siete stati picchiati ancora?
«Il pestaggio sistematico è stato il primo. Comunque so che ci sono stati stati pestaggi
nel centro di detenzione dove ci hanno portati. Sono stato fortunato perché i paramedici
mi hanno lasciato accompagnare in ospedale il mio amico Dan. Lo avevano già caricato in
barella e un poliziotto tentava di strappargli di dosso la sua pochette da cintura, con il
passaporto, alcune centinaia di sterline, lire italiane, e le sue carte di credito. Io ho
aperto i ganci della cintura, perché la smettesse di tirare. Non abbiamo mai più rivisto
niente di tutto ciò».
Quindi vi hanno prelevato dall’ospedale per portarvi alla caserma di Bolzaneto.
«Sì. Dan è rimasto in ospedale per due o tre ore. Il centro di detenzione era come un
luogo di tortura. Accuso la polizia italiana di avermi torturato. Tortura mentale. Sono
rimasto là per qualcosa come 28 ore. Non mi hanno permesso di dormire: gridavano tutte le
volte che mi veniva da assopirmi. Mi sembrava di avere le allucinazioni. Ci hanno dato due
piccolissimi biscotti dopo 12 ore, e forse 18 ore dopo sono arrivati una dozzina di panini
al prosciutto per le 14 persone della nostra cella. Sentivamo una ragazza che strillava in
inglese: "Aiutatemi, per favore"».
Lei è stato pestato là?
«Un poliziotto mi ha preso a schiaffi mentre mi stavo spogliando per essere perquisito.
Un altro, in bagno, non voleva che io usassi un altro rubinetto del suo stesso lavandino e
mi ha dato un calcio a una gamba. Ci hanno costretto, senza nessuna ragione, a stare in
piedi contro il muro con le braccia sopra la testa e le gambe divaricate: nella mia cella,
per un’ora e un quarto e almeno in altre due o tre occasioni. Per chi aveva traumi
alle braccia, come Dan, questo era molto doloroso».
Siete mai stati interrogati?
«No. Non abbiamo potuto metterci in contatto né con un avvocato, né con l’ambasciata,
né con la nostra famiglia. Eravamo senza regole, senza procedure di legge o di
costituzione. Durante quel periodo, mi sono sentito sequestrato dallo Stato italiano: era
come nel Cile di Pinochet, eravamo terrorizzati. Poi ci hanno portato nella prigione di
Pavia: erano circa le 7 del mattino di lunedì».
Finché, mercoledì, siete andati davanti al giudice.
«Ha detto che eravamo liberi di andare e non c’era nessuna accusa contro di noi.
Eppure, sono stato bandito dall’Italia per cinque anni. Perché? Amo l’Italia e
credo che molti italiani siano delle grandi persone. Farò causa alla polizia, tramite
alcuni bravissimi avvocati italiani».
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