Corriere della sera 28 luglio 2001
Gli inquirenti: ha distribuito spranghe e mazze ai dimostranti con un furgone. Il suo avvocato: gli agenti sostengono di avere un filmato, ma non ci è ancora stato mostrato

In cella ad Alessandria: «Sono l’ultimo rimasto»

Andrea Rostellato, 18 anni, passa il tempo leggendo Topolino. «Botte a tutti a Bolzaneto, qui sembra quasi un paradiso»

DAL NOSTRO INVIATO
ALESSANDRIA - A vederlo dietro le sbarre della sua cella, in ciabatte e con le mani cacciate in fondo alle tasche di un buffo paio di pantaloni, certo non diresti che quel ragazzino è un teppista professionista. E a sentir lui questa storia è tutto un errore. Eppure chi lo ha messo sott’accusa giura: nel fascicolo che lo inchioda c’è un filmato che mostra lui impegnato a passare bastoni, spranghe e mazze ai più facinorosi manifestanti anti-G8.
«Lui» è Andrea Rostellato, 18 candeline alle spalle, la barba che ancora fatica a crescergli e la branda invasa da vecchi numeri di Topolino portati dalla mamma. L’idea che possa essere un vandalo devastatore fa a pugni con il suo fisico, il suo aspetto, le sue parole. Ma un’inchiesta, si sa, non è di questi particolari che può tener conto. Di tutti gli italiani arrestati nei giorni della bolgia genovese Andrea è il solo rimasto in carcere, ad Alessandria. Il capo d’imputazione scritto accanto al suo nome è quello di «concorso in devastazione e saccheggio» e la custodia cautelare che lo tiene in prigione è a termine: 30 giorni. Tanti ne servono alla procura di Genova per verificare se davvero era lui il fornitore di «armi improprie» filmato da un elicottero della polizia: quel ragazzo, cioè, che nelle immagini recupera l’«arsenale» dei manifestanti da un furgone e lo distribuisce alle avanguardie spaccatutto.
«Io non ci sono nemmeno andato alle manifestazioni - protesta Andrea -. Sono venuti a prenderci dov’eravamo accampati e ci hanno portati in caserma, a Bolzaneto. E lì giù botte a tutti. Qui in confronto è il paradiso».
«Qui», nella sezione al secondo piano del carcere alessandrino, Andrea il detenuto è quasi coccolato: «Sono tutti gentili ed educati. Mi hanno trattato da persona umana. E non lo dico solo perché adesso c’è qui lei» precisa, guardando la direttrice del carcere, Vanda Di Maio, che assiste a distanza al colloquio fra il ragazzo e Roberta Pinotti, parlamentare genovese dei Ds.
Delle accuse e del processo non si può parlare. Vietato dal regolamento. Ma Andrea la butta lì lo stesso: «Io non c’entro, davvero. Non ho passato nessun bastone a nessuno». E le chiavi del furgone trovate in tasca? Si avvicina la direttrice. Fine della risposta. Con le mani aggrappate alle sbarre gialle Andrea dice che «non ho bisogno di niente. Volevo i fumetti, ma l’ho detto alla mamma e ci ha già pensato lei. Per il resto se proprio vuole fare qualcosa, signora onorevole, mi porti fuori di qui». E a questo punto interviene il suo compagno di cella, Mohammed Tabach, un siriano di 47 anni che condivide con lui anche le stesse accuse e che, come lui, era arrivato a Genova da Torino per manifestare, giovedì 19: «Non ti lamentare, Andrea - lo rimbrotta -. Pensa a me che ho quattro mogli e nemmeno una che viene a trovarmi».
Andrea non era mai stato in carcere prima d’ora. Non gli era mai toccato passeggiare in tondo su quattro metri quadrati: «Chiusa questa faccenda spero di non vedere mai più un carcere in vita mia. Voglio fare il fotografo, io. Non il detenuto». Spiega con un certo orgoglio che si è diplomato a Torino, all’Istituto tecnico industriale delle arti fotografiche, e che a Genova non si è portato appresso nemmeno una macchinetta di quart’ordine: «Perché sono venuto per manifestare punto e basta».
Tutto questo Andrea l’ha dovuto spiegare «prima di tutto a mamma e papà». Dice che «erano spaventatissimi perché non sapevano che fine avessi fatto». E l’avvocato, Roberto La Macchia, aggiunge di essere stato «nominato difensore per il "presunto arresto" del ragazzo. Presunto perché i genitori non lo trovavano e hanno chiesto a me di verificare se era nella lista degli arrestati». E’ indignato, l’avvocato: «Che ce lo mostrino questo benedetto filmato - suggerisce -. La difesa ha il diritto di avere accesso agli elementi che secondo le indagini incastrano l’assistito. O non è più così?».
Anche Andrea parla di «diritti negati», ma si riferisce a tutt’altra cosa: ai pestaggi nella caserma di Bolzaneto, dopo gli arresti, per esempio. «Gliel’ho detto anche al giudice che ci hanno picchiati, che ci hanno tenuti in piedi per ore e di quello che ci ripetevano. L’hanno scritto nel mio verbale...». Direttrice a portata d’orecchio. Silenzio. «Scusi signora direttrice - cambia argomento Andrea - si può chiedere un mazzo di carte?».
Si torna alle ore interminabili nella caserma di Bolzaneto: «Ci facevano stare in questo modo», indica Andrea mettendosi mani e faccia contro il muro. «Se appena appena giravi la testa erano botte». La direttrice lo guarda da lontano. Glielo concede. E lui ricambia: «Una volta arrivati qui tutto è cambiato. Per me è stata la salvezza. All’inizio mi sono depresso. Adesso sono tranquillo. Sono innocente, non c’è nulla che io possa temere. L’ho detto anche ai miei».
Tutto quello che può fare, dietro quelle sbarre gialle, è aspettare che scadano i 30 giorni, chiacchierare con Mohammed che gli fa un po’ da papà, scrivere lettere e leggere le avvincenti avventure del suo Topolino: un’immagine lontana anni luce dal devastatore che impara a memoria il manuale del perfetto Black Bloc. E se invece il filmato desse ragione alla polizia? Andrea si aggiusta gli occhialini rettangolari che gli scivolano sul naso e ci ride sopra: «Ma mi avete guardato bene?».

Giusi Fasano