La Repubblica 5 agosto 2001
Sui fatti di Genova nessuno si chiede se, al di là,
degli errori tecnici ci fu una responsabilità del "partito d'ordine"
Poliziotti e insieme ultras
la tentazione della destra
di GUIDO RAMPOLDI
ROMA - Fino a prova contraria crederemo al neo-deputato Filippo Ascierto,
responsabile del dipartimento sicurezza di An, quando nega di aver suggerito azioni e
comportamenti al comando provinciale dei carabinieri, dove egli stazionò nei giorni del
G8 con l'autorizzazione del Viminale: "Eh no! Non sono cresciuto alla scuola di
Violante". È più difficile credergli quando spiega con la preveggenza la ragione
per la quale organizzò la trasferta di Genova in compagnia di altri quattro parlamentari
della maggioranza.
"Volevamo essere testimoni di quanto sarebbe successo", dice, "affinché,
dopo, non si rivoltasse la realtà trasformando gli aggrediti in aggressori. Da ex
militare dell'Arma so per esperienza che quando in questo Paese c'è uno scontro, la colpa
viene scaricata sempre sulle forze dell'ordine". Ma non sospetteremmo di questa
solidarietà preventiva, dunque un po' curiosa, se l'onorevole Ascierto non aggiungesse, a
proposito degli spacca-tutto anti-global: "Non dormano tranquilli, perché noi li
andremo a prendere uno per uno. Uno per uno!". Andremo? Noi? "Ho detto
"andremo" perché mi sento ancora un carabiniere".
Tre teste sono rotolate dai piani alti del Viminale e altre forse rotoleranno: ma al
momento nessuno pare chiedersi se al di là degli errori 'tecnici' censurati dal Viminale
non vi sia stata una corresponsabilità di quella destra d'ordine presente a Genova in
corpore e in spirito. La si può ricollegare a quelle guardie di finanza che caricarono
gridando 'viva il duce', a quei poliziotti che imposero ai fermati di cantare 'Faccetta
nera'? Che in alcuni reparti sopravviva, a quanto pare tollerata, un po' di quella
cultura, lo confermano anche al Viminale. Ma chi sospettasse una trama fascista da anni
Settanta, con cellule nere che avrebbero pianificato la bolgia di Genova e interi reparti
ideologicamente orientati che l'avrebbero realizzata, probabilmente perderebbe di vista la
realtà. Prendiamo i celerini, quelli cui i cortei d'una volta gridavano 'fascisti'.
I romani del primo reparto ci giurano di non parlare mai di politica, soltanto di calcio.
E probabilmente è così, per il semplice fatto che da almeno quindici anni il terreno su
cui operano i 13 reparti mobili italiani non sono più le piazze e lo scontro politico, ma
gli stadi. Se i celerini degli Anni Settanta si formavano la rappresentazione del nemico
nelle dimostrazioni, i celerini del Duemila se la formano nell'urto domenicale con le
masnade ultras degli stadi più caldi, soprattutto in provincia.
Per questo molti di loro sono andati a Genova con l'idea di dover affrontare non i
"sovversivi", ma facinorosi dall'identità politica in qualche modo irrilevante,
però in vario modo partecipi della "nuova barbarie, la strada" (così si
prefigurava il nemico un gruppo di celerini toscani del Siulp, in un documento diffuso
alla vigilia del G8).
Dunque proviamo a metterci nei panni di questi comunissimi poliziotti. Non di quella
minoranza che durante i pestaggi inneggiava a Pinochet. Ma degli altri, i più, quelli che
hanno infierito su inermi senza una precisa intenzionalità politica. Sono cresciuti in
un'Italia pacificata ma non meno violenta. Sono entrati in polizia, la maggioranza, al
termine del servizio di leva, dopo un concorso fino a ieri blando e con l'inevitabile
raccomandazione.
Si sono formati davanti a quei muri umani, le curve degli stadi turbolenti, da cui alcune
centinaia li bersagliano di monetine, biglie, razzi, e altre migliaia di insulti. Hanno
partecipato a corsi di aggiornamento in cui si studia di tutto, ma assai poco la
deontologia professionale (appena venti ore all'anno, lamenta un sindacalista del
Silp-Cgil, Roberto Traverso).
Se sono inquadrati in reparti speciali, hanno cercato nello spirito di corpo motivazioni
forti che altrimenti faticano a trovare (già tre anni fa un'analisi del personale
commissionata dal Viminale vedeva "valori in pericolo", come onestà, spirito di
sacrificio, serietà, dedizione). Hanno vissuto il declino della politica attraverso lo
spappolamento dei sindacati di polizia, che da due sono diventati una ventina, e in gran
parte funzionano come consorterie di poliziotti in carriera.
Hanno scoperto che si può "calcare la mano", perché il Viminale chiudeva gli
occhi e il parlamento non eccepiva. E infatti né l'allora ministro Bianco, né il
centro-sinistra, tantomeno il centro-destra, ebbero il minimo soprassalto quando, nel
marzo scorso, gli anti-global fermati a Napoli subirono brutalità che ora suonano come la
prova generale di Genova (con una differenza significativa: mancarono gli inni al duce).
Poi questo ceto medio in crisi di ruolo e ansioso di status, vede, presumibilmente con
simpatia, insediarsi in parlamento una maggioranza che durante la campagna elettorale ha
promesso "tolleranza zero" e solidarietà sempre e comunque alla polizia.
Infine, Genova. Messaggi contraddittorii. Il Viminale dialoga con i contestatori e
raccomanda nervi saldi ai poliziotti. Ma allo stesso tempo avverte che li aspetta la
guerra più subdola, il nemico più imprevedibile. Il governo schiera l'anti-aerea, i
servizi materializzano il fantasma di Bin Laden, i giornali raccontano di possibili
attacchi con sangue infetto, bombe narcotizzanti, uomini-topo.
All'improvviso e per la prima volta quei poliziotti hanno l'impressione di essere
protagonisti. I celerini dell'ottavo reparto vanno al fronte "con tanta voglia di
sentirsi importanti", come scrivono in un documento retrospettivo. I celerini toscani
del Siulp si ripromettono di "mantenere con onore la promessa di servire fedelmente
la Nazione: con la forza della determinazione e della giustizia porteremo a termine quello
per cui siamo stati eccezionalmente incaricati".
Non più agenti, custodi dello Stato di diritto: soldati. La prima linea della Patria. La
trincea della Nazione. La commissione parlamentare dovrà stabilire se in polizia e
nell'Arma i comandi più in sintonia con il "partito d'ordine" abbiano varato a
Genova una maieutica della violenza. Se cioè non abbiano lasciato fare i Black blocks,
almeno in una prima fase, per dotarsi dell'alibi necessario ad affermare sul campo la loro
versione di "tolleranza zero"; o per accreditare l'immagine per la quale le
piazze che avversano il governo sono formate grosso modo da mascalzoni e violenti.
Ma sarà comunque utile fare onestamente i conti con un'evidenza negata dal governo: a
Genova le violenze poliziesche non furono circoscritte a questo o a quel reparto, ma
trasversali e diffuse, e diffusamente tollerate da funzionari e ufficiali che dovevano e
potevano fermarle. Prendiamo l'irruzione nella scuola Armando Diaz. Vi presero parte non
solo i 75 celerini romani del settimo nucleo, ma secondo il loro comandante, Canterini,
anche un centinaio di altri poliziotti. Tra questi ultimi c'erano agenti in divisa, ma
senza giacca: sarebbero stati cioè gli "smontanti", ovvero poliziotti di varie
Digos che al termine del servizio nella questura di Genova accorsero nella scuola: per
encomiabile zelo? Certo non tutti, se possiamo credere a Canterini quando nega che fossero
suoi uomini quei poliziotti allontanati dalla scuola perché "eccedevano".
Dove agenti, finanzieri e carabinieri "eccedevano", alcuni comandanti li
frenarono con decisione ("Fui costretto a prenderli a calci", racconta un
vice-questore). A quanto pare altri lasciarono fare. Pesò un certo sbandamento nella
catena del comando, per la quale talvolta accadde che a comandare le cariche non fosse
più l'autorità civile di polizia, come è prescritto, ma semplici ufficiali. Ancor più
forse influirono lo schema della "guerra", che infatti è la sospensione del
diritto, e il malinteso protagonismo di molti uomini in divisa. Ma è opinione di tanti
che se dal primo giorno il governo, il ministro dell'Interno e il "partito
d'ordine" piazzato nelle caserme avessero detto una parola chiara il disastro sarebbe
stato minore. Invece sembrarono immedesimarsi totalmente negli uomini in divisa, scendere
nella loro trincea, e rimanere lì, anche fisicamente, dopo le prime evidenze di
brutalità poliziesche.
Quando un comandante vuole segnalare ai suoi uomini che possono calcare la mano, alle
prime violenze si gira dall'altra parte: è così che fu percepito il comportamento del
governo, o perlomeno di quel partito d'ordine variamente rappresentato a Genova? Fabrizio
Rossetti, segretario del sindacato Cgil della polizia penitenziaria, racconta di "una
sensazione diffusa tra le forze di pubblica sicurezza: e cioè l'idea che con la destra
sulla plancia di comando certe cose si possano fare, e che comunque non saranno punite.
Per questo sarebbe stato fondamentale che in quelle ore le autorità politiche ribadissero
concetti come legalità e Stato di diritto, invece di minimizzare, come invece ha
fatto".
Poiché è impensabile che il governo abbia voluto organizzare un autogol così clamoroso
proprio davanti ad una platea mondiale, restano le spiegazioni più semplici: imperizia,
mancanza di coraggio, scarso senso dello Stato. E nella destra d'ordine, un'idea confusa
dello Stato di diritto. Dopo Genova, alcuni celerini hanno commissionato magliette su cui
sono stampate scene di scontri cruenti e la scritta "G8, c'ero anch'io". Altri,
quelli del sindacato Siap di Bologna, hanno distribuito un documento in cui si celebrano
come 'i guerrieri, coloro che hanno permesso il regolare svolgimento del vertice, coloro i
quali fra tanti anni non vedranno i loro nomi scritti sui libri di storia, ma saranno
consapevoli d'averla scritta'. 'Guerrieri': questa è appunto l'epica degli ultras del
calcio, l'eroismo da curva che si rappresenta lo scontro come battaglia tra bande,
gloriosa e sregolata.
Similmente la parte avversa non è mai citata nei termini propri, politici, ma come
un'ìndefinita banda rivale: 'i contestatori'. L'irruzione a palla di cannone nella scuola
Diaz diventa appunto la vittoria finale sugli 'ultimi contestatori, stanati nel loro sogno
di stanare'. Ora, non è rassicurante sapere che tra chi dovrebbe rappresentare lo Stato
alcuni, sia pure una minoranza, in realtà si immaginano all'incirca come la 'Fossa dei
leoni' del Milan. Ma soprattutto è preoccupante che questi poliziotti ultras ricavino da
Genova l'impressione, come scrivono, che 'le cose, ora, sono cambiate!'.
Questa sensazione sembra oggi nelle viscere di non pochi uomini in divisa, e in generale
di quell'Italia stressata e pre-politica che il populismo del Polo ha
"protagonizzato", come usa dire in politichese. E' un'Italia sparsa che vuole
scrivere regole nuove, le proprie, nelle strade, nelle fabbrichette, nei bilanci
societari, e adesso potrebbe leggere nei fatti di Genova la prova d'esordio, la dura
battaglia d'inizio. Tanto più è salutare che quei tre giorni abbiano finalmente
ridestato un garantismo cloroformizzato dalle "emergenze" e un'opinione pubblica
disabituata a chiedersi che cosa sia uno Stato di diritto.
(5 agosto 2001)
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