Corriere della sera 28 luglio 2001
IL
CASO
Dieci agenti aiutarono i
feriti: «Erano allo stremo»
- DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA - Fino a qualche ora prima quei dieci poliziotti-ragazzi erano in strada, tra i
fumogeni e la paura, a dare manganellate in assetto antisommossa, a difendersi dai cubetti
di porfido dei manifestanti. E adesso sono lì, nel grigiore degli stanzoni della caserma
di Bolzaneto, a distribuire panini, bevande e magliette pesanti a quella massa indistinta
di uomini e donne che, da ore mani al muro e gambe larghe, si lamenta, trema, sanguina.
«Alcuni dei fermati avevano il viso talmente tumefatto che non riuscivano nemmeno a bere.
Abbiamo dovuto metterci a cercare cannucce per tutta la caserma. Che altro dovevamo fare?
Facevano davvero pena. E poi, insomma, la guerra per noi era finita... Ricordo che alcuni
degli arrestati ci hanno ringraziato. Ma ricordo anche il sarcasmo di qualcuno in caserma,
che mi ha detto "ma che fai, dai dà mangiare a quei bastardi?"». Storie che
rimbalzano dal ventre di Genova, tra anonimati e mille paure. Che si infilano, con la loro
dose di umanità, tra inchieste, polemiche e sacrosanta voglia di chiarezza. Rendendo,
forse, tutto un po’ meno opprimente.
Tarda mattinata di domenica 22 luglio. La città è attraversata dal tam-tam di voci sui
pestaggi notturni alla scuola «Diaz», sede del Genoa Social Forum. Dagli ospedali
filtrano le prime denunce di violenze. Genova è in ginocchio. Marco e i suoi nove
colleghi, poliziotti del reparto mobile della questura genovese, si presentano all’ingresso
della caserma di Bolzaneto con le occhiaie di chi non ha dormito e la tensione degli
scontri ancora addosso: «Gli ordini - racconta ("Niente nomi, per favore, c’è
troppa tensione in giro, anche nel nostro ambiente") - erano quelli di prendere in
consegna le 93 persone fermate la sera prima durante la perquisizione nella sede del
Global Social Forum». E negli ordini, naturalmente, era anche implicito il consiglio di
non andare troppo per il sottile. Così come non si era diradato il fumo dei cassonetti e
delle auto che bruciavano per le vie di Genova, ben lungi dall’essersi placata era
anche la rabbia delle forze dell’ordine per tutto ciò che era successo nelle ultime
quarantotto ore.
«Appena entrati in caserma abbiamo subito avvertito un clima pesantissimo». La folla
degli arrestati è distribuita in alcuni stanzoni. I dieci poliziotti danno il cambio ai
colleghi, entrano e si trovano di fronte «gente sanguinante, ferita alla testa, agli
arti, lividi dappertutto». Alcuni si reggono a malapena in piedi, altri sembrano in stato
di choc, muti e con gli occhi sbarrati. Molti si lamentano: «Chiedevano da bere e
da mangiare. Qualcuno tremava, diceva di avere i brividi, volevano qualcosa per
coprirsi».
E’ stato allora che i dieci poliziotti hanno deciso - e forse è bastato uno sguardo
tra loro - che «la guerra era davvero finita». Senza dare troppo nell’occhio
(«Perché anche in tema di assistenza gli ordini sono tassativi»), si procurano una
cinquantina di panini e poi bottiglie d’acqua (con cannuccia per quelli messi
peggio), coperte, qualche indumento pulito racimolato chissà dove. «Abbiamo cominciato a
distribuire la roba, davamo quel che c’era, ma almeno il clima si è un po’
rasserenato». Ogni tanto si sentono addosso gli sguardi, tra lo stupito e l’indignato,
di qualche collega. Uno bofonchia: «Ma quelli là cosa credono di fare, i samaritani? Non
si ricordano più di quello che ci dicevano e ci tiravano addosso in strada quei
bastardi?». Sì, se lo ricordano Marco e i suoi nove colleghi: «Ma, perdio, non siamo
mica bestie...».
|
Francesco
Alberti |
|
|