La Repubblica 1 agosto 2001

LA VIA OBBLIGATA
DELLA VERITÀ

di GIUSEPPE D'AVANZO


RITORNA finalmente un po' di buon senso e di decoro istituzionale. Oggi il Senato affronterà la mozione di sfiducia al ministro dell'Interno Claudio Scajola, bocciandola. Subito dopo, la commissione Affari costituzionali della Camera avvierà le procedure per istruire un'indagine conoscitiva sui fatti di Genova. L'opinione pubblica italiana e non soltanto quella vuole sapere, ha il diritto di sapere che cosa è davvero accaduto a Genova e perché. Si poteva fare di più per bloccare l'arrivo a Genova dei gruppi più violenti dell'antiglobalizzazione? Perché uomini della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza si sono abbandonati per due giorni a violenze brutali e inutili contro manifestanti inermi? Chi, nella caserma del Reparto Mobile di Genova a Bolzaneto, ha seviziato e torturato cittadini in stato di fermo?

Per sette giorni, invece di dare risposte convincenti o almeno l'impressione di cercarle, governo, maggioranza e opposizione e soprattutto l'opposizione di sinistra sono apparse prigioniere di se stesse, cieche e sorde, incapaci di ascoltare quella domanda di chiarezza resa improrogabile dalle immagini cruente diffuse dalla tv e impresse negli occhi di tutti.
Il primo errore - errore di superficialità - è stato senza dubbio del ministro dell'Interno e del capo della polizia che, in Parlamento e in un'intervista, hanno scelto una linea tanto burocratica quanto di basso profilo, un racconto dei fatti che eliminava ogni increspatura e contraddizione e abuso, che aggirava ogni visibile omissione e responsabilità come nei copioni dei gabinetti democristiani di vecchio stampo. Il secondo errore, macroscopico - errore di cinismo politico - l'ha messo a segno il centrosinistra chiedendo a viva voce e come prima mossa le dimissioni del ministro dell'Interno. Senza ancora conoscere e accertare i fatti, l'opposizione aveva già il responsabile. Ma se c'è già un responsabile, a che cosa serve più accertare i fatti?
Il terzo errore - errore di insensibilità istituzionale - lo ha commesso il presidente del Consiglio. In Senato ha liquidato la «battaglia di Genova» ricordando al centrosinistra che i vertici della sicurezza e dell'ordine pubblico sono stati scelti dal precedente governo. Come se quest'osservazione - anche se fosse stata vera, e non lo è - lo liberasse da ogni responsabilità politica di quanto è accaduto e anche dalla sensibilità di dare un nome al disagio e alla rabbia dell'opinione pubblica. Come se il «segno» di una nomina liberasse il governo in carica dalla consapevolezza che le violenze di Genova appartengono a tutti, a chi le ha prese, a chi le ha date, a chi non ha impedito che fossero date, a chi oggi ha il dovere di punire gli abusi dopo averli accertati.
Per sette giorni, il mondo politico è stato penosamente incapace di vedere oltre le finestre del Palazzo. Il governo infastidito, lungo strada dei «cento giorni», da quella che appariva a Palazzo Chigi soltanto una grana più noiosa che pericolosa. L'opposizione, soprattutto quella di sinistra, impegnata più a regolare conti interni e «riposizionarsi» alla vigilia del congresso dei Ds. Un teatro politico penoso, ottusamente incapace di comprendere la posta in gioco. I pericoli della posta in gioco. Che non era ovviamente la testa del ministro o del capo della polizia, ma il reciproco rispetto tra il Paese e le forze dell'ordine.
A Genova si è consumato uno strappo. Quelle scene di pestaggio su uomini e donne inermi hanno cancellato con un colpo di spugna la consapevolezza che tra i manifestanti c'erano gruppi di violenti, che quei violenti hanno aggredito la polizia, che la polizia si è difesa. Perché non è difendersi aggredire anziani, disabili, in alcuni casi padri con bambini al collo. Quello strappo di Genova deve essere ricucito. Il Paese ha bisogno di sapere che forze dell'ordine garantiranno il diritto di manifestare la propria opinione in condizioni di sicurezza e le forze dell'ordine hanno il diritto di sapere che chi manifesterà lo farà nel rispetto delle regole della convivenza civile e del codice penale.
Se questa è la posta il gioco dopo la «battaglia di Genova» non è né di destra né di sinistra, è un impegno che attende il contributo di tutti a destra come a sinistra. Dopo sette inutili giorni spesi a inseguire cabale di una politica politicante, finalmente si parlerà di fatti e di responsabilità, grazie soprattutto all'intervento del presidente della Repubblica.
Non c'è dubbio che i fatti di Genova devono essere ancora tutti accertati. Ieri gli ispettori del Viminale hanno consegnato al capo della polizia e al ministro le loro relazioni. Da due giorni si attendono quelle conclusioni come se dovessero chiudere il caso.
Ma potevano, e oggi possono, davvero chiuderlo? Bisogna escluderlo. Gli ispettori del Viminale avevano un primo rilevante limite. Indagavano soltanto sui comportamenti della polizia. Nelle piazze di Genova sono stati al lavoro migliaia di carabinieri e centinaia di finanzieri, ma l'indagine non è stata allargata ai loro comportamenti. Come fuori dell'indagine è restato il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria che occupava parzialmente la caserma di Bolzaneto, dove più cruenti e vendicativi - a dar fede alle testimonianze - sono stati i pestaggi e gli abusi.
Basterebbe il raggio ristretto dell'indagine, dunque, per far diventare leggero il rilievo di questa prima inchiesta. Ma i limiti dell'ispezione non sono solo qui. Gli ispettori, nelle loro audizioni o interrogatori, chiamateli come volete, possono soltanto prendere atto di quel che viene loro riferito. Non possono raccogliere autonomamente fonti di prova. Non possono organizzare confronti in caso di dichiarazioni discordi. Si limitano a rappresentare quanto è accaduto.
Nonostante le dimensioni ristrette dell'inchiesta, il lavoro degli ispettori ha confermato errori e omissioni, omessi controlli, mancata vigilanza dei dirigenti di polizia responsabili sul campo. Di più, nel caso della caserma di Bolzaneto non è stato rintracciato nessun responsabile operativo. Come dire, che quelle stanze sono state trasformate, come hanno raccontato gli sventurati che vi hanno soggiornato, in una terra di nessuno dove l'arbitrio degli uomini in divisa non aveva alcun controllo e controllore.
Per gli ispettori del Viminale, questo vuoto va addebitato al questore di Genova, al capo della squadra mobile, al dirigente della Digos, che vanno trasferiti. Al contrario, durante la perquisizione alla scuola Diaz, i responsabili dell'operazione - il direttore dell'Ucigos Arnaldo La Barbera e il suo vice Gianni Luperi - erano nel recinto dell'edificio scolastico mentre gli agenti del reparto mobile di Roma si abbandonavano a una violenza senza ragione. Per loro, gli ispettori chiedono il provvedimento disciplinare. Saranno questi cinque uomini a pagare per tutti? La punizione di questi cinque uomini cancella tutti gli interrogativi che ancora pencolano senza risposta?
Ben venga, dunque, la commissione d'indagine. A condizione che le forze politiche sappiano mettere in un angolo pregiudizi e risentimenti, sappiano resistere alla tentazione di trasformare l'inchiesta in un processo politico a questo o quel partito, alla storia di questo o quel partito. Se questo dovesse avvenire lasciando precipitare la ricerca della verità in una rancorosa faida politica, il prezzo che il Paese potrebbe pagare, alla vigilia di un calendario politico che annuncia più di un'occasione di scontro, sarebbe altissimo. Proviamo ad elencare. Forze dell'ordine delegittimate agli occhi di una parte dell'opinione pubblica. Radicalizzazione di un'ala sempre più vasta del movimento antiglobalizzazione. Più violenza nelle piazze e meno peso per le ragioni di una politica che si guarda l'ombelico senza riuscire mai ad alzare lo sguardo.