La Repubblica 25 luglio 2001 LA
VIOLENZA E LA POLITICA
di MICHELE SERRA
NELL'ULTIMA settimana i giornali di destra hanno detto cose più di destra, quelli di
sinistra cose più di sinistra. Prevalentemente questurini i primi, prevalentemente
movimentisti i secondi. Ma l'impressione non è che sia stata riguadagnata una
desiderabile chiarezza. Piuttosto, che sia stata restaurata una pigra, muffita tradizione
autoriferita.
SONO state risfoderate come spade arrugginite i vari "polizia assassina" e
"siete solo teppisti", ogni retorica ha ritrovato il suo megafono e ogni pessimo
umore sociale ha rioccupato, pavlovianamente, la sua antica nicchia. Le facce di destra,
abbandonato per l'occasione il maquillage garantista sfoderato per i reati
politico-finanziari, sono tornate al ceffo forcaiolo. Quelle di sinistra, dopo anni di
indurito legalitarismo, si sono inumidite nelle lacrime dei figli bastonati dai celerini.
Così funziona la violenza (così funziona la guerra): sospende la politica e pure
l'intelligenza, decortica il campo della discussione e perfino quello del conflitto. No
logos, che non è esattamente no logo. Che per le tute nere questo sia il solo modo per
trasformare una città nella loro Playstation, è ovvio. Meno ovvio che le due maggioranze
espropriate (destra e sinistra, governo e opposizione, se volete adulti e ragazzi)
subiscano questo gioco al punto di diventarne il materiale inerte. Il "game
over" che qualche ebbro ha tracciato sui muri di Genova dice esattamente questo:
l'estinzione del gioco politico e delle sue faticose regole è l'obiettivo di chi
riconosce e ama solo il suo sporco gioco personale. A modo suo, quella del "blocco
nero" è stata una privatizzazione, per giunta sinistramente speculare al
"lasciateci lavorare" che ha fin qui segnato i pomposi convivi dei potenti della
terra. Opposti estremismi, stavolta davvero. Connivenza "oggettiva", stavolta
davvero. Per dire anch'io una cosa di sinistra, è triste e molto grave che a questa
destrutturazione politica della tre giorni genovese abbia contribuito in maniera decisiva,
secondo tutte ma proprio tutte le testimonianze dirette, una gestione dell'ordine pubblico
approssimativa e spesso gaglioffa, per giunta sospettata e sospettabile di avere
utilizzato strumentalmente i violenti per confondere i pacifici, e infierito di preferenza
sui pacifici (non perdetevi, se ancora avete dei dubbi, l'atroce e asciutta cronaca
scritta in rete, su "Il nuovo", da Gian Paolo Ormezzano a proposito del
pestaggio gorillesco di suo figlio. Basterebbe quell'episodio, tra i tanti, a giustificare
le dimissioni del ministro degli Interni). Ma, sempre per dire una cosa di sinistra, è
apparso altrettanto velleitario anche lo sforzo del movimento di separare nettamente le
sue cause e perfino i suoi accampamenti da quelli dei demolitori. Banalmente, rudemente, e
lasciando nel loro torbido sacchetto i diecimila "distinguo" del caso: troppo
sangue e troppe ipocrisie hanno bruttato la storia della sinistra, di tutte le sinistre,
perché si possa nuovamente giochicchiare con gli stessissimi equivoci di sempre. Dicano i
portavoce del movimento se, di qui in poi, considerano gli agenti di polizia e i
carabinieri come servi del potere o come lavoratori, come arbitri o come nemici. Lo dicano
loro per primi, preventivamente e indipendentemente dal buono o dal cattivo uso che i
governi faranno della forza pubblica, perché il senno di poi è sempre meno spendibile di
quello di prima. Lo dicano a prescindere dalla (pur comprensibile) esigenza
"tattica" di rabbonire i loro cattivi, di non isolarli: sono già isolati
adesso. Dicano se la polizia di Stato (lo Stato) è per loro un interlocutore sordo quanto
si vuole, ostico quanto si paventa, ma legittimo e necessario, oppure è solo sbirraglia
da abbattere, una grata di ferro da piegare a spintoni. Nella proterva disperazione degli
ultras anarchici c'è almeno un dignitoso germe di chiarezza: loro odiano e vogliono
distruggere, lo dicono, lo fanno, e mettono nel conto la caduta sul campo. L'ambiguità da
"zona grigia" di troppi settori del movimento alimenta invece il sospetto che la
querimoniosità, ad ogni colpo ricevuto, sia l'ingiustificato cappello di fumo da apporre
a un discorso incompleto e reticente, quello sulla "resistenza passiva",
sull'"autodifesa", sulla "risposta di massa", fonte, da sempre, di
ogni genere di inevitabili processi alle intenzioni. Non mancano ottimi esempi di azioni
"illegali" il cui nitore non-violento è indiscutibile, e difatti indiscusso. Le
molto perigliose azioni di Greenpeace (quello sì che è un bel videogame!) mettono a
repentaglio solo i loro attori, oltre ai profitti loschi. E un boicottaggio bene
organizzato (quanto a lotta contro la dittatura della merce) potrebbe infliggere
all'Impero, per dirla con le tute bianche, danni molto più seri, e mirati, della
devastazione di un povero chiosco o di una innocente Panda pagata a rate. Si fa più
politica andando a fare la spesa che gridando slogan in piazza. E il territorio da
contendere all'avversario non è scritto sulla cartografia cittadina (come ancora credono
certi von Clausewitz da corteo), ma nei bilanci dei supermercati, nei tabulati, nei
rendiconto dei Consigli d'amministrazione. Non negli scontri, ma negli scontrini. La
violenza è un crinale sottile e infido, ma mai abbastanza da impedire che un pre-giudizio
etico e politico forte e significativo aiuti a percorrerlo senza inciampi troppo gravi. Se
perfino la palesemente mite Grazia Francescato, l'altra sera in tivù, ha dovuto ripetere
quattro volte (cioè tre di troppo) di essere "non violenta", è perché il
movimento nel suo complesso avverte che su questo punto, anche se non ha il coraggio di
confessarselo, non c'è abbastanza chiarezza. Se la violenza avrà ancora campo, magari
quasi tutto il campo come è accaduto a Genova, non basterà neppure inchiodare il più
nerboruto dei governi di polizia alle sue più nefaste scorrettezze. La repressione, come
insegna il passato, è stata spesso (anche) un comodo e cinico pretesto per dissimulare la
propria impotenza e i propri errori. E la brava e cattiva "gente comune" che,
alla fin fine, sarà (come sempre) il solo vero arbitro della partita, concluderà che
quel movimento, quel raduno, quel corteo sono stati comunque il casus belli, perché la
gente comune sa poco o niente del nefasto sfruttamento, o del profitto sanguisuga.
L'opinione pubblica è in genere ottusa, e la democrazia di massa un pigro e limaccioso
fiume, non un torrente argentino. La gente vede la propria città bruciata, fa il suo
rozzo "due più due" e ingiuria e scaccia chiunque indugi nei dintorni con un
sacco a pelo e i capelli lunghi. Se ci fosse, domattina a Genova, un ballottaggio tra
Scajola e Agnoletto, vincerebbe a mani basse Scajola. E mi dispiace, perché voterei
Agnoletto, se non altro per il gusto di dare torto agli assenti. Per causa della violenza
o della omertà intorno alla violenza sono morti nel sangue, o scomparsi nel nulla, i
movimenti più radicali. E poiché questo è il più radicale di tutti (nel senso che
finalmente indica nel governo del mercato globale il punto esatto dello scontro politico
futuro, e mondiale), più acuto è il rischio che l'acuminatezza delle idee, delle
analisi, delle intenzioni, degeneri in uno scontro diffuso, incomprensibile e impolitico.
Poi dovranno passare un'altra trentina d'anni per riprovare, timidamente, a parlare
davvero di politica. Perché ci vogliono vite intere per rimediare al sangue, come
dimostra il gesto semplice e altissimo dell'ex sparatore Lauro Bonisoli, che è andato a
lasciare una carezza sulla maschera mortuaria di Montanelli. |