Manifesto 8 agosto 2001 Quel
ponte nell'abisso tra ieri e domani
MARCO D'ERAMO
E' con un nodo alla gola che leggo questo brano in un delle ultime
pagine dell'ultimo libro che il nostro carissimo Daniel Singer ci ha regalato prima di
lasciarci nell'autunno scorso: "Aggiungo una considerazione personale, dettata dal
contrasto tra i tempi della storia e i tempi della nostra vita. Il mezzo secolo, o quasi,
trascorso dalla morte di Stalin, avvenuta nel 1953, o il terzo di secolo circa trascorso
da quei giorni inebrianti del 1968, quando i giovani, a Berkeley come a Tokyo,
dichiaravano che l'immaginazione stava prendendo il potere, agli occhi di uno storico sono
periodi relativamente brevi. Tuttavia, dal punto di vista delle nostre vite individuali,
quei periodi possono corrispondere al passaggio dall'adolescenza alla vecchiaia, o alla
mezza età. In momenti di stanchezza o sconforto di può essere tentati di chiedersi a
cosa serva combattere se non si è destinati a conoscere l'esito della propria
lotta". Il brano è tratto dall'ultimo capitolo, "Utopia realistica", di A
chi appartiene il futuro? A noi o a loro? (prefazione di Rossana Rossanda, Ponte alle
Grazie, pp. 320, L. 32.000).
Quei momenti di sconforto mi sono piombati addosso più di una volta, anche se appartengo
a una generazione successiva a quella di Daniel che nacque a Varsavia nel 1926. Ma, a dire
la verità, il nostro fato umano e mortale è precisamente quello di essere destinati a
"non sapere mai come andrà a finire". Ci toccherà uscire dal cinema sempre
cinque minuti prima dell'ultima scena. Quel che invece mi fanno risuonare le parole di
Daniel è l'inaudita profondità dell'abisso che pochi anni bastano a spalancare nelle
percezioni, nelle visioni del mondo, nelle generazioni. Per un ragazzo che oggi ha
vent'anni, la conferenza di Postdam che pose fine alla seconda guerra mondiale ha la
stessa irrealtà che per noi, futuri sessantottini ricopriva il congresso di Vienna
(1815). La stesso '68 appare così remoto e distante dall'esperienza di vita di un giovane
attuale, da situarsi da qualche parte a metà strada tra la battaglia di Hasting e il
tumulto dei Ciompi.
Naturalmente proprio questa è la caratteristica della modernità: che a ogni generazione
diventa sempre più vertiginoso il baratro che ci separa dai nostri posteri più contigui:
l'accelerazione è la sua costante. Lo stesso immaginario da cui è plasmata ogni
generazione risulta estraneo a quella che la ha preceduta e a quella che la seguirà.
L'infanzia della generazione di Daniel è stata forgiata dal cinema, un'esperienza
inaudita per l'infanzia dei suoi genitori. La mia ha subito Topolino, Paperino,
l'Intrepido, Nembo Kid e la tv. E poi gli Hobbit e il signore degli anelli. E poi ancora i
Pokemon e tutti quei personaggi che un adulto di oggi apprende per breve tempo, nella sua
fuggevole esperienza di genitore di figli piccoli. E se questo è vero per i nostri
trastulli infantili, immaginiamo quanto è ancora più forte per quel grumo di emozioni,
di entusiasmi, passioni, speranze, cocciutaggini che noi chiamiamo "politica"!
Nel caso di chi ha militato nelle file del movimento operaio internazionale, di chi ha
considerato "comunismo" un termine positivo, una meta da raggiungere, la
distanza che la modernità scava è stata ancor più dilatata dalla martellante campagna
dei mass-media, dalla vulgata neocapitalista che tutto appiattisce e rende il nazismo
uguale al comunismo e tutti e due uguali alle dittature militari latino-americane.
Sommersi da un incessante battage, i giovani sono ormai portati a chiedersi in base a
quale nascosta, subdola follia, nelle generazioni precedenti tante persone così miti e
sane di mente, almeno in apparenza, fossero portate a battersi per qualcosa di così
ignobile e sanguinario come il comunismo (e certo Daniel è stato uno degli uomini più
dolci, cortesi, affabili che abbia mai conosciuto).
Per riannodare le fila tra queste generazioni servirebbe un ponte audacissimo, altro che
il ponte di Messina, un ponte che si slancia sopra gli abissi della memoria e
dell'amnesia.
Teso a tracciare un bilancio del "secolo breve", come l'ha chiamato Eric
Hobsbawm, il libro di Daniel è un tentativo di costruire questo ponte: ed è questa la
speranza che ci infonde; ma nello stesso tempo ci restituisce l'abisso del baratro: ed è
questa la tragedia che ci comunica (sul dilatarsi della dimensione cronologica nella
modernità, Paolo Rossi scrisse un libro fondamentale, tradotto in inglese con
l'espressione Lo scuro abisso del tempo).
Il compito che Daniel si prefigge è duplice: 1) di riaffermare e dimostrare che "il
socialismo non è mai esistito nell'Europa dell'est: rifiutiamo di addebitare al
socialismo i crimini commessi da Stalin. Ma il 1917 è una data che fa parte della nostra
eredità". E' in quest'ottica che Daniel guarda al '900 "dall'osservatorio della
caduta del 1989", come scrive Rossana Rossanda nella prefazione: "E' stata una
'tragedia marxista' quella dei socialismi reali, un sistema sociale e politico che negava
il suo assunto... Singer ripercorre il tema di quella che è stata definita
l'irriformabilità del socialismo reale nei limiti della riforma di Gorbaciov e nella
'triste saga di Solidarnosc'".
Il secondo obiettivo di Daniel è sbugiardare quell'establishment che negli ultimi
anni "si è adoperato per convincere la gente che non esiste nulla al di là
dell'orizzonte capitalistico, e che perciò non si può fare altro che rabberciare il
sistema". "Il principio basilare del gioco è che non si possono mettere in
discussione né i principi né le fondamenta della società". Per farlo, Daniel
ricorre alla sua amatissima Rosa Luxemburg e naturalmente a Marx. Un Marx però fatto
scendere dal piedistallo, liberato dalle ragnatele, sbacuccato: Singer ci restituisce un
Marx che avrebbe fatto sue almeno in parte alcune tesi del post-moderno: "Marx
potrebbe essere descritto come il più ambizioso dei decostruzionisti, dal momento che
spese tutta la vita cercando di mostrare il vero meccanismo di funzionamento del sistema
capitalistico, nascosto sotto le apparenze dell'economia volgare e della filosofia
idealistica". Ancor più, Daniel ci restituisce un Marx che vede la globalizzazione,
il mondo globalizzato dalla borghesia come la base su cui battersi per il socialismo: il
problema è che "è occorso molto più tempo di quello che Marx pensava occorresse
perché il dominio del capitale si estendesse su tutto il mondo ed eliminasse le realtà
precapitalistiche presenti sui territori conquistati". Ma "alcuni passaggi del Manifesto
concernenti l'espansione sopranazionale sembrano scritti oggi, pensando alla
globalizzazione". Questo per mostrare quanto sia spregiudicato Daniel e quanto poco
sia rifondativo il suo progetto di rifondazione.
"Siate realisti, chiedete l'impossibile" diceva uno slogan del '68. E' in questo
senso che per l'inizio del terzo millennio Daniel propone come orizzonte di lotta
un'"utopia realistica": "Il vero conflitto culturale dei nostri tempi è
fra coloro che credono che si possa cambiare la società e coloro che credono che al
massimo si possano apportare dei miglioramenti, permanendo all'interno del sistema
attuale". E' questo lo spartiacque che definisce il noi e il loro che
compare nel titolo del libro. Noi è costituito da chi crede che si possa cambiare
la società; loro sono quelli che ritengono possibile solo rabberciarla.
La tragedia che ci comunica Daniel emerge quando cominciamo a guardarci intorno e a
contarci questi noi. Dove noi indica quel calore umano soffuso che
intercorreva quando ci chiamavamo "compagni" uniti dalle repressioni e violenze
subite insieme, almeno quanto dall'obiettivo comune che perseguivamo. Se ne rende conto
lui stesso quando scrive che "il compito ideologico è davvero immenso, dal momento
che abbiamo arretrato tanto da aver l'impressione di dover ripartire da zero".
"E' difficile, a questo punto, ristabilire le ragioni per cui la gente dovrebbe
desiderare un cambiamento radicale di questo mondo", riconosce.
Per questo, ammette Daniel Singer, "occorre tempo", molto tempo. In definitiva,
tra la rivoluzione industriale e le prime grandi organizzazioni operaie passò mezzo
secolo. Perciò si può essere abbastanza sicuri che l'umanità non morirà capitalista e
che il capitalismo non rappresenta la fine della storia umana. Sì, ma quanto ci vorrà
tra la rivoluzione postindustriale e l'emergere di una forza alternativa strutturata? Il
problema è che "al tempo indispensabile comincia a contrapporsi il tempo che
resta. Gli ecologisti ci dicono che le nostre scelte incideranno negativamente sul
mondo intero e sulla stessa sopravvivenza delle specie. E non si parla di temi geologici.
Il loro severo monito ... riguarda l'immediato futuro".
E' il tempo che scade, che viene meno, a segnare il registro stilistico di A chi
appartiene il futuro?: "Questo senso di urgenza, congiunto alla concreta
possibilità che non vi sia più tempo a disposizione, ha probabilmente segnato il
tono complessivo di questo libro, concepito esplicitamente, fin dall'inizio, come un
appello all'azione". L'urgenza è forse la cosa più difficile da trasmettere:
ricordo ad aprile a New York, nella Conferenza degli universitari socialisti, un'intera
sessione dedicata a Daniel Singer. La commozione, l'amicizia, il rimpianto. Tutto c'era,
ma il senso d'urgenza proprio di Daniel lì mancava, era andato smarrito.
Ritorniamo così al rapporto tra tempi storici e tempi della biografia individuale.
Perché non può non balenarci il sospetto che quando scriveva della "concreta
possibilità che non vi sia più tempo a disposizione", Daniel si riferisse, col
pudore e la discrezione che gli erano propri, alla malattia che lo stava minando. Questo
riferimento suona come il passaggio del testimone della lotta da una generazione che se ne
sta andando a un'altra che appena fiorisce, e così conferisce al volume la carica umana
che lo segna, e che ci dà il magone.
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