Cos'è che ti ha colpito di più di Genova?
E' stata un'esperienza innovatova e straordinaria, una vera svolta, perché, in primo
luogo, è scesa in campo una nuova generazione resa finora invisibile proprio dai
cambiamenti propri della globalizzazione liberista. Questi giovani non li avevamo
incontrati nei luoghi tradizionali dell'agire sindacale, nelle assemblee. Loro in
fabbriche e uffici c'erano da tempo, ma tacevano, forse perché più attenti al fare che
al dire. Magari li incontravi in piazza a ogni sciopero, ma nelle assemblee no, perché
nelle manifestazioni potevano esprimere più liberamente autonomia e radicalità. Eppure
non è che non discutano, anzi, ma hanno altri strumenti, penso prima di tutto alla rete,
al fatto che il confronto sui fatti di Genova - tra quelli che sono stati lì - continua
ancor oggi via internet. Qui la differenza con il '68 è palpabile: allora il luogo del
confronto sono state le assemblee - a partire da quelle dei campus universitari - oggi il
luogo è la rete. E poi c'è una grande capacità di libertà dalle gerarchie imposte,
penso alla capacità di essere impermeabili alle regole dell'evento volute dalla
televisione, alla centralità imposta della logica militare che è stata rifiutata...
Veramente non da tutti...
Certo, non da tutti ma dalla grande maggiornza. Quando il corteo di sabato è stato
spezzato in due, la "coda" è tornata indietro rifiutando di voler raggiungere a
tutti i costi la meta e dimostrando una granne maturità. La stessa cosa vale per le
manifestazioni del martedì successivo, tutte grandi, determinate, pacifiche. L'azione
delle forze dell'ordine ha cercato di distruggere la ricerca di una rappresentanza di
diritti universali - anche questo è stato Genova - e ridurre il tutto a uno scontro tra
due fazioni che tagliasse fuori i "cittadini". Io su questo la penso in maniera
diversa da Luca Casarini, perché non considero un terreno d'aggregazione la risposta alle
aggressioni della polizia, non può essere accettato il teorema dello scontro proposto -
imposto - dalle forze dell'ordine; ed è un'idiozia rileggere quel corteo come una
battaglia in cui i manifestanti hanno risposto agli attacchi della polizia. Una cosa è
prendere atto che è in corso una fase repressiva dei movimenti, un'altra pensare di
rispondere allo stesso livello, perché il nostro obiettivo deve essere quello di
recuperare il terreno delle manifestazioni pacifiche.
Torniamo alle novità di Genova...
Oltre a quella generazionale c'è quella dello spazio, cioè il fatto che per la prima
volta "giochiamo su tutto il mondo", cioè che quello in campo è
necessariamente un movimento internazionale e che può nuovamente immaginare un futuro. Ci
si muove, insomma, con prospettive spaziali e temporali di grandissimo respiro, non più
nell'immediatezza e solo nel proprio paese. Non sono cose da poco e la coscienza di ciò
è ben diffusa. Pochi giorni fa ho partecipato a un'assemblea sui fatti di Genova
organizzata dalle Rsu della Rinascente, a Milano: ebbene, lì, per la prima volta i
giovani lavoratori hanno preso la parola, non hanno delegato nessuna interpretazione agli
"esperti", hanno discusso per più di due ore con un approccio informale ma
molto profondo delle questioni che stavano alla base delle manifestazioni intrecciandole
con la loro condizione di lavoratori dipendenti in un mercato globale. Come se sentissero
addosso a loro la rappresentanza dei diritti negati a livello mondiale, anche quelli degli
angoli più sperduti e poveri del pianeta.
Il sindacato italiano non è un po' arretrato rispetto a questo quadro? Come giudichi
la partecipazione parziale (Fiom, alcune Cdl, le Cgil lombarda e emiliana) della Cgil alle
giornate di Genova, con i vertici sintonizzati su tutt'altra lunghezza d'onda?
Esserci stati oppure no è e sarà un fatto dirimente. Io credo che il sindacato rischi
molto nel rimanere fuori da questo percorso, perché gli interessi del lavoro dipendente
non possono essere separati dalle questioni poste sul piatto. C'è stato un riflesso
conservatore del gruppo dirigente, anche di fronte all'inquietante ipotesi fatta balenare
da Berlusconi di "concertare" la globalizzazione. E ciò nonostante una
possibile sintonia tra questo movimento e organizzazioni storiche dei lavoratori che hanno
sempre messo al centro del loro agire la rappresnetanza dei diritti (gli incontri che ci
sono stati tra il movimento e i sindacalisti che erano a Genova sono avvenuti proprio su
questo terreno). Un movimento come questo - che forse non dovrebbe più limitarsi a
definirsi no-global, ma "per la costruzione di una democrazia sociale" - ha
bisogno delle organizzazioni sindacali e non solo perché al suo interno ci sono tanti
lavoratori dipendenti. Trent'anni fa il sindacato italiano è stato capace di cogliere le
novità - anche quelle di comunicazione - prodotte dal '68: l'assemblea come luogo
centrale della democrazia rappresentativa, la diffusione del ciclostile come strumento per
raccontare il proprio punto di vista, segnarono la capacità di trasformarsi e crescere in
rapporto a un movimento innovativo. Oggi il rischio è quello di essere tagliati fuori, di
chiudersi nei palazzi. E ciò proprio mentre questo movimento mette in discussione i
fondamenti del potere assoluto dell'economia sulle persone... Ma senza il sindacato e il
suo bagaglio di esperienze il discorso rischia di rimanere sui princìpi, mentre bisogna
mettere in discussione la traduzione materiale di quel potere, il dominio assoluto
dell'impresa. Questa è la sfida che abbiamo di fronte.