Manifesto 8 agosto 2001

 

"Un movimento da cui c'è molto da apprendere"
Le giornate di Genova viste da Mario Agostinelli: "Una nuova generazione è in campo. Aiutiamola a salvarsi dalle logiche militari"
GABRIELE POLO

Quella di Genova contro il G8 è stata la sua ultima manifestazione da segretario generale della Cgil Lombardia. Due giorni dopo - ma la decisione risale a qualche settimana prima - Mario Agostinelli è stato sostituito al vertice del sindacato lombardo da Susanna Camusso. Ora, a mente pià fedda, Agostinelli vuole tornare a riflettere su quel movimento e su quelle giornate, soprattutto sul loro "lato positivo" e sulle novità, perché il tratto comune che ha segnato tutta la sua segreteria è stato l'apertura alle trasformazioni della società e la ricerca di una rappresentanza continuamente da verificare in rapporto ai cambiamenti: una ricerca di democrazia reale, insomma. E, in fondo, aver "chiuso" come segretario lombardo con il corteo di Genova, non gli dispiace affatto, in qualche modo è il paradigma della sua militanza sindacale.

Cos'è che ti ha colpito di più di Genova?

E' stata un'esperienza innovatova e straordinaria, una vera svolta, perché, in primo luogo, è scesa in campo una nuova generazione resa finora invisibile proprio dai cambiamenti propri della globalizzazione liberista. Questi giovani non li avevamo incontrati nei luoghi tradizionali dell'agire sindacale, nelle assemblee. Loro in fabbriche e uffici c'erano da tempo, ma tacevano, forse perché più attenti al fare che al dire. Magari li incontravi in piazza a ogni sciopero, ma nelle assemblee no, perché nelle manifestazioni potevano esprimere più liberamente autonomia e radicalità. Eppure non è che non discutano, anzi, ma hanno altri strumenti, penso prima di tutto alla rete, al fatto che il confronto sui fatti di Genova - tra quelli che sono stati lì - continua ancor oggi via internet. Qui la differenza con il '68 è palpabile: allora il luogo del confronto sono state le assemblee - a partire da quelle dei campus universitari - oggi il luogo è la rete. E poi c'è una grande capacità di libertà dalle gerarchie imposte, penso alla capacità di essere impermeabili alle regole dell'evento volute dalla televisione, alla centralità imposta della logica militare che è stata rifiutata...

Veramente non da tutti...

Certo, non da tutti ma dalla grande maggiornza. Quando il corteo di sabato è stato spezzato in due, la "coda" è tornata indietro rifiutando di voler raggiungere a tutti i costi la meta e dimostrando una granne maturità. La stessa cosa vale per le manifestazioni del martedì successivo, tutte grandi, determinate, pacifiche. L'azione delle forze dell'ordine ha cercato di distruggere la ricerca di una rappresentanza di diritti universali - anche questo è stato Genova - e ridurre il tutto a uno scontro tra due fazioni che tagliasse fuori i "cittadini". Io su questo la penso in maniera diversa da Luca Casarini, perché non considero un terreno d'aggregazione la risposta alle aggressioni della polizia, non può essere accettato il teorema dello scontro proposto - imposto - dalle forze dell'ordine; ed è un'idiozia rileggere quel corteo come una battaglia in cui i manifestanti hanno risposto agli attacchi della polizia. Una cosa è prendere atto che è in corso una fase repressiva dei movimenti, un'altra pensare di rispondere allo stesso livello, perché il nostro obiettivo deve essere quello di recuperare il terreno delle manifestazioni pacifiche.

Torniamo alle novità di Genova...

Oltre a quella generazionale c'è quella dello spazio, cioè il fatto che per la prima volta "giochiamo su tutto il mondo", cioè che quello in campo è necessariamente un movimento internazionale e che può nuovamente immaginare un futuro. Ci si muove, insomma, con prospettive spaziali e temporali di grandissimo respiro, non più nell'immediatezza e solo nel proprio paese. Non sono cose da poco e la coscienza di ciò è ben diffusa. Pochi giorni fa ho partecipato a un'assemblea sui fatti di Genova organizzata dalle Rsu della Rinascente, a Milano: ebbene, lì, per la prima volta i giovani lavoratori hanno preso la parola, non hanno delegato nessuna interpretazione agli "esperti", hanno discusso per più di due ore con un approccio informale ma molto profondo delle questioni che stavano alla base delle manifestazioni intrecciandole con la loro condizione di lavoratori dipendenti in un mercato globale. Come se sentissero addosso a loro la rappresentanza dei diritti negati a livello mondiale, anche quelli degli angoli più sperduti e poveri del pianeta.

Il sindacato italiano non è un po' arretrato rispetto a questo quadro? Come giudichi la partecipazione parziale (Fiom, alcune Cdl, le Cgil lombarda e emiliana) della Cgil alle giornate di Genova, con i vertici sintonizzati su tutt'altra lunghezza d'onda?

Esserci stati oppure no è e sarà un fatto dirimente. Io credo che il sindacato rischi molto nel rimanere fuori da questo percorso, perché gli interessi del lavoro dipendente non possono essere separati dalle questioni poste sul piatto. C'è stato un riflesso conservatore del gruppo dirigente, anche di fronte all'inquietante ipotesi fatta balenare da Berlusconi di "concertare" la globalizzazione. E ciò nonostante una possibile sintonia tra questo movimento e organizzazioni storiche dei lavoratori che hanno sempre messo al centro del loro agire la rappresnetanza dei diritti (gli incontri che ci sono stati tra il movimento e i sindacalisti che erano a Genova sono avvenuti proprio su questo terreno). Un movimento come questo - che forse non dovrebbe più limitarsi a definirsi no-global, ma "per la costruzione di una democrazia sociale" - ha bisogno delle organizzazioni sindacali e non solo perché al suo interno ci sono tanti lavoratori dipendenti. Trent'anni fa il sindacato italiano è stato capace di cogliere le novità - anche quelle di comunicazione - prodotte dal '68: l'assemblea come luogo centrale della democrazia rappresentativa, la diffusione del ciclostile come strumento per raccontare il proprio punto di vista, segnarono la capacità di trasformarsi e crescere in rapporto a un movimento innovativo. Oggi il rischio è quello di essere tagliati fuori, di chiudersi nei palazzi. E ciò proprio mentre questo movimento mette in discussione i fondamenti del potere assoluto dell'economia sulle persone... Ma senza il sindacato e il suo bagaglio di esperienze il discorso rischia di rimanere sui princìpi, mentre bisogna mettere in discussione la traduzione materiale di quel potere, il dominio assoluto dell'impresa. Questa è la sfida che abbiamo di fronte.