Corriere della sera 19 giugno 2001

SAN SALVADOR - Una faccia della globalizzazione ...

SAN SALVADOR - Una faccia della globalizzazione ha l’aspetto brutale delle cifre, quelle che diventano slogan per il popolo di Seattle. Nelle maquilas (le fabbriche tessili che producono per grandi marchi come Nike, Gap, Adidas), i turni sono di 8-11 ore, il cottimo la regola, gli straordinari spesso obbligatori, la paga base di 60 centesimi di dollaro l’ora per un totale che oscilla da un minimo di 5 a un massimo di 10 dollari (11-22 mila lire) al giorno. Per ognuna di quelle magliette dei «Los Angeles Lakers», con il numero 34 e il nome di Shaquille O’Neal sulle spalle, che si comprano nei negozi Nike a 140 dollari (circa 300 mila lire), una maquiladora prende 29 centesimi di dollaro, meno di 650 lire. Il suo salario è lo 0,2 per cento del prezzo di vendita al pubblico, lassù nel Primo Mondo.
Una faccia della globalizzazione ha il profilo seducente di altre cifre, quelle che vengono sbandierate dai profeti del mercato unico planetario. Chi lavora nelle maquilas (all’80 per cento, donne nei loro vent’anni) guadagna anche 2.600 dollari l’anno, il 25 per cento in più rispetto al reddito pro capite medio del Salvador, che lo scorso anno era di 2.163 dollari (secondo l’ Undp , il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, corrispondono, a parità di potere d’acquisto, a 4.036 nel Primo Mondo). Il confronto con i dati della Banca Mondiale, però riferiti al ’98, è ancora più positivo: 1.900 dollari come reddito pro capite e 1.200 come livello di reddito medio-basso. Le maquiladoras rappresentano la manodopera meno qualificata: la loro unica alternativa è aprire un banco sulla strada e vendere tortillas o fiori, gonfiando quello che pomposamente viene chiamato settore informale, guadagnando meno della metà.
E una faccia della globalizzazione si nasconde dietro gli occhiali rotondi e la corta barba di Benjamin Cuéllar. È il direttore dell’ Idhuca , l’Istituto per i diritti umani dell’Università del Centro America. Ha inventato una cosa che si chiama «Gruppo di monitoraggio indipendente». Lo scopo immediato, addirittura banale, è di far applicare le leggi nazionali, quelle internazionali e i codici di condotta che molte multinazionali si danno ma subito dimenticano, dopo averli annunciati con grande fanfara pubblicitaria.
L’idea più ambiziosa è globalizzare l’etica insieme all’economia. Trovare, prendendo a prestito le parole del teologo Hans Küng, «quel minimo necessario di valori umani comuni, atteggiamenti basilari e criteri condivisi».
Le prime due facce della globalizzazione si incontrano ovunque: nell’equivalente cinese delle maquilas la paga è di 20 centesimi di dollaro l’ora e però in Cina si sta realizzando la più colossale accumulazione di ricchezza primaria mai registrata nella storia del mondo. La terza, la si vede solo in Salvador: è un esperimento originale, nato per caso, cresciuto fra grandi diffidenze e altrettali difficoltà. Racconta Cuéllar: «L’ha reso possibile la combinazione di due spinte. Una, dal basso e dall’interno, è venuta da un gruppo di maquiladoras che volevano veder riconosciuti i loro diritti. L’altra, dall’alto e dall’esterno, è stata provocata da quelli che chiamerei i consumatori coscienti del Primo Mondo: montando una campagna che avrebbe potuto portare al boicottaggio del marchio, hanno costretto Gap a prendersi la responsabilità dei comportamenti di un’azienda subappaltatrice».
La storia comincia sei anni fa, in una maquila di proprietà taiwanese che allora si chiamava Mandarin e adesso Charter. Sei lavoratori (cinque donne e un uomo) occupano la fabbrica, staccano la corrente, chiudono le porte e sequestrano il management per 36 ore.
Quando le guardie del servizio di sicurezza riprendono il controllo, i sei vengono licenziati. Il National Labour Committee (Nlc) di New York, un istituto che tiene sotto controllo i subappalti nel Terzo Mondo ed è finanziato dai sindacati americani (da sempre contrari alla pratica, considerata una minaccia ai «loro» posti di lavoro), pubblicizza la faccenda, che diventa un caso mediatico.
Preoccupata dalle possibili ripercussioni negative sulla sua immagine, Gap manda in Salvador un mediatore che cerca di coinvolgere l’ufficio governativo dei diritti umani. L’ombudsman non ne vuole sapere, sostenendo che è un problema dei ministero del Lavoro. Il ministero scarica sul governo. Il governo fa finta di non sentire. La vertenza Mandarin langue per mesi. Tre altri marchi (J.C. Penney, Target e Eddie Bauer) rescindono i loro contratti. I taiwanesi cominciano a licenziare in massa. Nella primavera del ’96, Cuéllar offre la sua mediazione. I sindacati salvadoregni si oppongono, accusandolo di essere colluso con le multinazionali.
«Era un caso da manuale», dice il direttore dell’Istituto per i diritti umani. «C’era tutto. Una multinazionale finalmente messa nell’angolo da consumatori che non si preoccupano soltanto di comprare magliette al più basso prezzo possibile. Investitori di Taiwan arrivati in Salvador convinti di poter gestire una fabbrica come fanno in Asia, dove i diritti dell’individuo sono molto in basso nella scala dei valori. Un governo incapace quando non corrotto, appena convertito a un’apparenza democratica (l’accordo di pace con la guerriglia del Fronte di liberazione Farabundo Marti è del ’92 e ha messo fine anche a una lunghissima sequela di regimi militari, ndr ) e comunque composto da una classe dirigente convinta che la sola cosa possibile, quando la gente protesta, è reprimere. Sindacati deboli e anche loro corrotti, abituati a vendere gli scioperi e i lavoratori, fatti in gran parte di individui senza scrupoli, che sfruttano la loro posizione di potere per mettersi in tasca un po’ di soldi».
Alla fine, è stata Gap ad accettare di coinvolgere il poco ortodosso gruppo composto da Cuéllar, dall’ufficio di tutela legale dell’arcidiocesi di San Salvador e dal Centra, il Centro di studi del lavoro, un’organizzazione non governativa. Nel marzo ’96 viene firmato un accordo che prevede due cose: la reintegrazione dei sei e la progressiva riassunzione dei lavoratori licenziati durante i mesi del conflitto.
Passa l’estate e non succede niente. A ottobre, Cuéllar scrive una lettera a Gap. Si dice molto dispiaciuto per l’ impasse e però costretto a rendere pubblici i motivi del fallimento della mediazione. Il giorno dopo, dal quartier generale di San Francisco, si precipita un dirigente, i licenziati vengono riassunti, la maquila riapre come Charter e Gap diventa il suo unico cliente.
Ma i furori dei «consumatori coscienti», lassù nel Primo Mondo, svaniscono in fretta e l’attenzione di una multinazionale per una sola delle centinaia di fabbriche subappaltatrici che ha in giro per il mondo rischia di spegnersi dopo poco. In Salvador, come nella quasi totalità dei Paesi del Terzo Mondo, la democrazia è un fragile facciata, spesso un velo ipocrita. I principi di indipendenza, credibilità, trasparenza e professionalità sono pressoché sconosciuti. Se non fosse stato per una impronosticabile coincidenza, il destino del Gruppo di monitoraggio, che ha senso solo se quei principi fa propri (ciò che in effetti fa), era di finire nel nulla. Un’altra buona occasione sprecata, annegata in un mare di ricorrenti abusi, di costanti prevaricazioni, di diffusa corruzione.
Invece, a gestire la Charter, i taiwanesi hanno messo un salvadoregno tornato in patria dopo una carriera alla Banca interamericana di sviluppo, fra Washington e Asunçion (Paraguay).
«Conoscevo bene Benjamin», dice Pedro Mancia. «Ero a scuola con suo fratello e i nostri padri avevano fatto l’università insieme. Ammetto che, all’inizio, lo guardavo con diffidenza. Ma non ci ho messo molto a capire che quella da lui immaginata era la sola strada possibile per fare andare avanti questo Paese».
Oggi la Charter (1.100 dipendenti) sta in un capannone pulito, con 16 impianti di ventilazione, sette uscite di sicurezza, una mensa, bagni aperti, pausa per il caffè. Ma soprattutto gli straordinari non sono obbligatori (e, quando vengono fatti, sono pagati il doppio, come prevede la legge). Gli obiettivi di produzione sono fissati sulla capacità media delle maquiladoras e non sulla massima. I bonus di incentivo vengono pagati a partire dal 60 per cento della quantità prevista. Maschere speciali sono distribuite a chi lavora a contatto con prodotti chimici («Il problema è stato convincerli a metterle», dice Mancia). E i supervisori di linea non abusano verbalmente i gruppi sotto il loro controllo.
Non è così nella stragrande maggioranza delle 229 maquilas (per un totale di 85.000 dipendenti) salvadoregne, che nel ’99 hanno esportato vestiti per 1,33 miliardi di dollari, il 53 per cento del totale del Paese. Sono quasi tutte di proprietà taiwanese e coreana. Hanno manager espatriati che le gestiscono con quello stile militaresco tipico dei «valori asiatici». «Sopporto il caldo a 35 gradi, i turni di 11 ore e le 200 etichette all’ora che devo attaccare», dice Nancy Gonzales, 26 anni, una madre e due figli a carico, e nessun marito. «Ma non quel coreano che mi urla nelle orecchie di andare più in fretta». Ha protestato insieme ad altre, la Amintex ne ha licenziate 84. Sono state riassunte solo per l’intervento del cliente americano, la Cygnus, dietro sollecitazione del National Labour Committee . E i sindacati salvadoregni? «Oh, quelli», dice Sergio Chavez, il rappresentante locale dell’ Nlc . «Uno ha cercato perfino di venderle, chiedendo soldi all’azienda per far rientrare lo sciopero, e ha organizzato una manifestazione davanti al ministero del Lavoro pretendendo la testa dell’ispettore generale Rolando Borjas, che aveva tentato una onesta mediazione».
Per quasi cinque anni, l’esperimento del Gruppo di monitoraggio è rimasto chiuso dentro la Charter.
Solo da qualche mese, Gap ha accettato di allargarlo ad altre quattro maquilas di cui è cliente, ma non a tutte le sei che ha sotto contratto in Salvador. Una lunga serie di scioperi alla Doall (proprietà coreana, tre maquilas e 1.850 dipendenti) ha convinto il marchio Liz Claiborne a chiedere i buon uffici di Cuéllar. «È curioso», dice lui. «Finora abbiamo avuto più successo fuori del Salvador che dentro. Ci invitano a conferenze negli Stati Uniti, in Honduras e in Guatemala stanno sorgendo iniziative simili. Qui il vero potere politico (rimasto quello di sempre) ed economico ci considera comunisti. I cosiddetti sindacati, impegnati solo a sfruttare a loro personale vantaggio condizioni di obiettivo conflitto, ci bollano come collaborazionisti. E le pause di distrazione dei consumatori coscienti sono purtroppo lunghissime. È ridicolo, ma andiamo avanti».
Tanto avanti che il gruppo si sta trasformando in una fondazione.
Avrà un consiglio direttivo fatto di imprenditori e sindacalisti (ce ne sono anche di non ottusi, in tutt’e due le categorie, per quanto pochi), avvocati ed esperti dei problemi del lavoro, professori universitari e specialisti dei diritti umani. «Ne farò parte anch’io», conclude Cuéllar, «ma a titolo personale. Voglio sganciare l’Idhuca, che ha altro di cui occuparsi». Per esempio i problemi della giustizia: «Proprio in questo edificio, nel novembre dell’89, vennero uccisi padre Segundo Montes e altre sette persone. Per quegli omicidi, stiamo accusando il generale Juan Orlando Sepeda. All’epoca era ministro della Difesa, oggi è uno dei pochi salvadoregni proprietari di una maquila . Non vorrei che le cose si mischiassero».