Corriere della sera 8 luglio 2001
«Per il G8 un segretariato permanente coordinato con l’Onu»

«Il popolo di Seattle? Non protesta contro la globalizzazione, ma contro la politica»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON - «Per molti, soprattutto tra i giovani, il termine globalizzazione equivale a colonizzazione. È una sporta dentro cui la protesta mette di tutto: dai poteri del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, alla povertà del Terzo mondo, dall’Aids all’inquinamento dell’ambiente, e così via. Il fenomeno della globalizzazione assume un significato diverso a seconda di chi lo giudica. A mio parere però, è sbagliato. Il cosiddetto popolo di Seattle se ne serve come una scusa, non protesta tanto contro di esso quanto contro la politica. Molta gente non ha più fiducia nei governi, pensa che non affrontino i problemi che la assillano. Si è creata una spaccatura tra l’elettorato e i leader. Veda l’Irlanda: in pratica ha votato contro l’Ue da cui ha tratto grandi benefici».
Robert Mundell, uno dei massimi monetaristi viventi, premio Nobel dell’economia nel ’99, vive in Toscana. Ha un carnet impressionante: ha insegnato nelle Università di tutto il mondo, ha lavorato per la Federal Reserve (la Banca centrale americana), il Fondo monetario, l’Onu, numerosi Paesi europei e latino- americani. Suoi furono i rapporti chiave sulla stabilizzazione delle monete e la nascita dell’euro. Da 35 anni, i suoi libri, improntati al liberismo, costituiscono una lettura obbligata per i governanti e gli economisti.
Dalla sua villa toscana, espone al telefono la sua tesi al Corriere . La globalizzazione, dichiara, è irreversibile perché le economie nazionali sono sempre più interdipendenti, legate ai commerci e agli investimenti all’estero e dall’estero, ed è portatrice di progresso. Il guaio è che ha colto molti governi e istituzioni internazionali del tutto impreparati.
Che cosa è successo, a suo giudizio?
«Le nuove tecnologie, le telecomunicazioni, i trasporti, gli investimenti non hanno più confini. Viviamo in un villaggio globale. E scopriamo di avere problemi comuni. Ma solo in parte sono problemi causati dalla globalizzazione dell’economia e della finanza. Più spesso sono problemi causati dagli squilibri e dalle tensioni locali, o dalle carenze politiche. Rappresentano grossi ostacoli alla crescita dei mercati».
C’è modo di rimediarvi?
«Secondo me, occorre che ciascun Paese realizzi le riforme sociali ed economiche interne più urgenti, e che in parallelo le istituzioni internazionali si aggiornino. Le faccio un esempio. Il G8 è forse l’unico organismo esecutivo mondiale esistente. Dovrebbe dotarsi di un segretariato, un Centro di ricerca istituzionalizzato, per l’individuazione dei maggiori problemi e la loro soluzione, e per la prevenzione di quelli che si stanno presentando. Se lo facesse a Genova, sarebbe l’inizio di una svolta».
Ma non esautorerebbe l’Onu? E questo ruolo non appartiene al Fondo monetario e alla Banca mondiale?
«Nel mio progetto, il segretariato del G8 dovrebbe coordinarsi con l’Onu. Il Fondo monetario e la Banca mondiale hanno perso credibilità, soprattutto il primo, che anziché aiutare i Paesi debitori protegge gli investitori. Né hanno un mandato per le questioni sorte ultimamente. Occorre essere realisti: l’onere del progresso grava sui Paesi più ricchi, America, Europa e Giappone in testa, tocca a essi pilotare la globalizzazione con una leadership illuminata».
Lei vive in Italia: crede che il governo Berlusconi realizzerà le riforme di cui il nostro Paese ha bisogno?
«Per competere nella globalizzazione l’Italia dovrà rendere più flessibile il mercato del lavoro, tagliare le tasse, ridurre la spesa pubblica, cambiare il sistema pensionistico, deregolamentare l’industria, snellire la burocrazia, cose difficili per un governo di centrosinistra. Spero che Berlusconi abbia coraggio, come l’ebbero 20 anni fa il premier inglese la signora Thatcher in Inghilterra e il presidente Reagan in America. È la strada che l’intera Europa dovrebbe imboccare».
Su quali problemi dovrebbe focalizzarsi il Centro di ricerca del G8 che lei propone?
«Nel campo finanziario, innanzitutto sulla trasparenza dei movimenti di capitali e sul coordinamento dei tassi di cambio, per rilanciare l’economia globale. Negli altri campi, sulla lotta all’inquinamento, in particolare delle acque. Purtroppo, nel primo campo l’America è condizionata dal rallentamento economico e l’Ue dalla debolezza dell’euro. Per quanto riguarda l’inquinamento sono d’accordo con il presidente Bush, il protocollo di Kyoto è inadeguato, ci vuole un accordo che vincoli anche potenze industriali emergenti come l’India e la Cina».
Lei ha accennato a nuovi problemi che stanno sorgendo.
«Concernono l’America e l’Europa. Ne cito due: l’antitrust e i cibi transgenici. Sono settori in cui l’America ha sempre guidato, ma in cui l’Europa incomincia a fare sentire il suo peso. Sono contrario alla interpretazione restrittiva dell’antitrust vigente nell’Ue: specialmente nel settore bancario promuove le fusioni nazionali anziché transnazionali, un serio danno. Non prendo posizione sui cibi transgenici, ma bloccarli è come bloccare l’energia atomica quando invece ce n’è bisogno».
Che cosa pensa delle polemiche sul G8 a Genova?
«Se allude alle misure di sicurezza contro la contestazione e di dialogo con i loro esponenti, sono indispensabili: va evitato il peggio, ma va spiegato alla gente che cosa sia la globalizzazione. Se allude a quanto può emergerne, mi auguro che si tratti di misure concrete contro le tragedie della povertà e dell’Aids. Sono problemi mostruosi a cui non abbiamo dedicato abbastanza attenzione e che richiedono enormi impieghi di risorse».
Ennio Caretto