Corriere della sera 4 luglio 2001
Il
subcomandante dellesercito zapatista del Chiapas si confessa in unintervista
che uscirà venerdì su «Linus». «Non bisogna opporre alla globalizzazione una nuova
internazionale»
Marcos: «La protesta non
basta più, è il momento di trovare qualcosa a cui dire sì»
- Voi avete rappresentato il prologo di Seattle, Praga, Nizza, Davos, Cancun, Trieste e
ora di Genova. È così? «Noi ci siamo sempre sentiti solo un sintomo. Se abbiamo
saputo costruire tutto quello che abbiamo messo in marcia il primo gennaio del 94 e
poi portato avanti in questi sette anni, dobbiamo anche pensare che ci devessere
stata altra gente in altre parti del mondo capace di fare le stesse cose. Noi
interpretiamo Seattle, il primo gennaio del 94, Nizza e tutto il resto, come sintomi
o eruzioni di fenomeni che stanno montando più in basso. Il problema che segnaliamo è
che ormai dire di no non basta più. Il primo gennaio del 94 e poi tutti gli altri
avvenimenti sono stati modi di dire no alla globalizzazione, no a questa irragionevolezza.
Però sta diventando sempre più urgente dire: "va bene, questo no", però
allora che cosa è sì? In questa direzione è andato per esempio il Forum di Porto
Alegre: non si tratta più di dire solo no alle cose ma di costruire forme diverse di
confrontarsi».
Però voi, quando proponete la cultura Maya, alcune forme di vivere o di esprimersi
della cultura Maya, state offrendo qualcosa. Non vi limitate a dire di no alla
globalizzazione, siete fra i primi a segnalare: si può fare così, si può seguire questo
percorso...
«Quando lo facciamo, noi pensiamo sempre e soltanto al nostro orizzonte. In un modo o
nellaltro, siamo sempre stati discreti e abbiamo resistito allidea che la
proposta degli zapatisti potesse essere recepita come il nuovo decalogo, in questo caso
della sinistra o delle forze progressiste. Noi insistiamo sul fatto che questo modello
possa essere utile al nostro quotidiano, quello cioè delle popolazioni indigene e per
alcuni versi di altre zone del territorio messicano. Credo sinceramente che a livello
mondiale i nostri "no" si sommino semplicemente con tutti gli altri che
provengono dal resto del pianeta, mentre i "sì" debbano ancora essere
individuati. Intuiamo per esempio che in Brasile ci siano dei "sì" in fase di
costruzione, come nella nostra Selva Lacandona ci siano affermazioni che si stanno
concretizzando e che lo stesso stia accadendo in Europa. Non crediamo però che tutti
questi "sì" possano articolarsi in un unico corpo mondiale. Anzi, non
consideriamo questa eventualità auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla
globalizzazione si debba opporre una nuova "internazionale"».
La forza che ha ottenuto il movimento zapatista si basava sulla capacità di
convocazione della società civile, puntando su quei settori della società che potevano
diventare una nuova avanguardia critica sensibile ai problemi degli indigeni ma anche
della globalizzazione...
«Quando noi lanciamo un appello alla società civile la classe politica pensa
normalmente: "La società a cui gli zapatisti sappellano, non esiste perché
non è un attore politico", almeno secondo i criteri con i quali la classe al potere
concepisce un attore politico. Infatti, la società civile non ha una sede, non ha
rappresentanti al congresso, non ha una capacità di mobilitazione organica, non è quindi
una realtà politica. Per cui quello che facciamo quando parliamo alla società civile è
cercare di interpellare tutte quelle persone che per i politici sono interessanti soltanto
durante i periodi elettorali. Insomma, quel cittadino comune al quale è concesso di
occupare un posto solo quando deve pagare un prezzo. E il prezzo da pagare, in questo caso
è eleggere un candidato, un rappresentante alla Camera, un senatore o un aspirante alla
Presidenza o a qualunque altra carica elettiva. Così, ogni volta che noi abbiamo fatto un
appello alla società civile abbiamo ottenuto dei risultati».
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