Corriere della sera 25 giugno 2001
Lo Stato uscito dallunione tra lallora Tanganika e lisola di Zanzibar
è lesempio più emblematico di quanto urgente sia cancellare il deficit in denaro
accumulato dal Sud del mondo
Tanzania, dove si nasce
con un debito da bancarotta
I cittadini hanno un
reddito di 223 dollari ma ne devono 237 ai Paesi esteri. Il 40% dei bimbi è malnutrito
«Non è così che
immaginavo la mia vita», dice questuomo di 36 anni cresciuto nella retorica
ufficiale della libertà e dellindipendenza. Non se la può neanche sognare una vita
diversa. Il suo reddito è lontano da quello medio della Tanzania, che pure, con 223
dollari, rientra fra i 10 Paesi più poveri del pianeta. Ma soprattutto su di lui e su
ognuno degli altri 32 milioni di tanzaniani, pesa un debito estero pro capite di 237
dollari. Lui non lo sa ma, come la Tanzania, è tecnicamente in bancarotta.
Quarantanni dopo lindipendenza, lo Stato uscito dallunione fra lallora
Tanganika e lisola di Zanzibar è il caso forse più emblematico di quanto urgente
sia cancellare il debito accumulato dal Sud del mondo.
Questo è un Paese con grandi risorse naturali, una posizione geografica favorevole, un
quadro politico stabile, una coesa identità nazionale attorno a una lingua comune. Qui
non ci sono stati, come in quasi tutto il resto dellAfrica subsahariana, ricorrenti
colpi di Stato, sanguinosi regimi militari, guerre civili, devastanti disastri naturali,
periodiche carestie.
Eppure, oggi, il debito della Tanzania verso il Primo Mondo e le istituzioni globali
(Banca mondiale e Fondo monetario internazionale) sfiora gli 8 miliardi di dollari ed è
superiore al prodotto interno lordo, di poco oltre i 7. Dal 1970, quando era di 175
milioni di dollari, è cresciuto del 4.300 per cento. Ci sono diversi modi di fare i conti
(alcuni comprendono anche le donazioni, altri no). Ma il rapporto fra quanto la Tanzania
paga per gli interessi sul debito e quanto spende in istruzione e sanità è comunque
disastroso. Secondo i calcoli più favorevoli, per ogni dollaro restituito ai creditori ci
sono 70 cents per le scuole e 35 per la sanità pubblica. Secondo quelli meno, il governo
spende in interessi 4 volte più che nelleducazione primaria e 9 più che negli
ospedali.
Le conseguenze sui servizi di base sono, insieme, ovvie e apocalittiche. NellIndice
dello sviluppo umano, compilato ogni anno dallUndp, il Programma di sviluppo delle
Nazioni Unite, la Tanzania è 156esima su 174. Per la sanità spende due dollari per
abitante lanno, per listruzione sei. Solo il 40 per cento del Paese ha lelettricità
(con il più alto costo del mondo). Il 39 per cento degli abitanti vive, secondo i
parametri dellOnu, in condizioni di «degradante miseria», cioè con meno di mezzo
dollaro al giorno. Il 38 per cento non ha accesso allacqua potabile. Laspettativa
di vita è di 48 anni, e sta scendendo. Più del 40 per cento dei bambini sotto i cinque
anni sono malnutriti. Ogni 12 neonati, uno non raggiunge letà di un anno.
Da questanno, la Tanzania dovrebbe entrare a pieno titolo nellIniziativa per i
Paesi poveri pesantemente indebitati (Hipc), il programma per ridurre il debito a
«livelli sostenibili» lanciato al G8 di Colonia, nel giugno 99, e gestito da Banca
mondiale e Fmi. È un meccanismo complesso, che, partendo dal debito, richiede un
adeguamento strutturale secondo la ricetta tipica del Fmi (rigore fiscale,
privatizzazioni, abrogazione dei sussidi) e prende in considerazione diversi parametri.
Però: alla fine di una complessa serie di calcoli e dopo due verifiche, la Tanzania
continuerà ad avere un debito di almeno 4 miliardi di dollari e a pagare interessi
attorno ai 150 milioni di dollari lanno.
«Rispetto a ora, il debito si sarà più o meno dimezzato», dice Christopher Mwakasege,
direttore del Tanzania Social and Economic Trust (Tasoet, unorganizzazione non
governativa basata ad Arusha, da dove nei giorni limpidi si vede la cima innevata del
Kilimangiaro). «Ma, dal momento che non siamo riusciti mai a pagare più di un terzo
degli interessi dovuti, la quota realmente sborsata si ridurrà soltanto del 7 per cento.
Cioè di 11 milioni di dollari. Cioè di 35 centesimi di dollaro per abitante. Che cosa
cambia, nella nostra vita?».
LHipc può essere solo un inizio. Dropt the Debt, la più attiva coalizione di Ong
per il totale annullamento del debito, sostiene che non è «né abbastanza allargata, né
abbastanza generosa, né abbastanza rapida».
Paesi assolutamente devastati come la Nigeria non rientrano nellelenco dei 41
eleggibili (ma la Costa dAvorio sì, grazie allazione di lobbying del suo
anziano patron coloniale, la Francia). Dei 100 miliardi di dollari promessi due anni fa
dal G8 a Colonia, a tuttoggi ne sono stati cancellati appena 13. Il rapporto
interessi-esportazioni fissato come «sostenibile» è del 20-25 per cento: con laccordo
di Londra del 1952, gli Alleati riconobbero alla Germania una quota massima del 3,5 per
cento, con in più un atteggiamento «flessibile».
Ad accusare il Primo Mondo di ipocrisia non è soltanto gente come Silas Likasi, il
responsabile di Oxfam a Dar es Salaam. Fa il caso di «Tutto eccetto le armi»
(«Everything but arms»), il tanto sbandierato piano dellUnione europea per abolire
le tariffe doganali che gravano sui prodotti agricoli e tessili provenienti dal Terzo
Mondo (spesso le uniche esportazioni possibili), penalizzandoli. Poco dopo lannuncio
di Pascal Lamy, il commissario Ue al commercio, è stato modificato per le pressioni delle
lobby degli agricoltori e dellindustria agro-alimentare: sono stati esclusi, fino al
2009, zucchero, riso e carne. Mentre pretende lapertura indiscriminata dei mercati
del Terzo Mondo, il Primo (Europa, Usa, Canada, Giappone) protegge la sua agricoltura con
sussidi per un miliardo di dollari al giorno: allanno, è lequivalente del Pil
complessivo dei 49 Paesi che fanno parte del gruppo dei meno sviluppati (per entrare nel
club, basta avere un reddito medio inferiore ai 900 dollari). «Non è più "Tutto
eccetto le arms", ma eccetto le farms, le fattorie», dice Likasi, giocando amaro con
le parole.
Anche Jeffrey Sachs, direttore dellIstituto per lo sviluppo internazionale allHarvard
University, sostiene che un annullamento parziale del debito del Terzo Mondo è
inadeguato. I Paesi poveri non sono comunque in grado di ripagarlo e, in ogni caso,
«nessuna persona di buon senso li costringerebbe a farlo». Il mondo ricco ha largamente
i mezzi per caricarsene. Il Fmi, ad esempio, ha un credito di 8 miliardi di dollari verso
i Paesi Hipc. In cassaforte, tiene oro valutato, ai prezzi di mercato, 30 miliardi di
dollari. A bilancio, lo iscrive per appena cinque. Con diverse (e più realistiche) regole
contabili, potrebbe cancellare totalmente il debito e presentare conti migliori di quelli
che ha ora.
Afferma Mwakasege, il direttore del Tasoet: «Il totale annullamento del debito è un atto
dovuto». Ha ragione. Ma, acclarata la necessità della riduzione a zero del debito,
denunciata lambivalenza dellOccidente, rimane un problema. Quante possibilità
ci sono che, liberata dagli 8 miliardi di dollari che la schiacciano, la Tanzania non si
ritrovi fra qualche anno nella stessa situazione di oggi? «Nessuna», risponde secco
Mwakasege. Alle devastazioni delleredità coloniale si sono aggiunte, aggravando la
miseria, quelle dei quarantanni seguiti allindipendenza. La rovinosa scelta
socialista di Julius Nyerere ha provocato, fra le altre cose, che il reddito medio della
Tanzania, in termini reali rispetto al 1961, abbia avuto un fattore moltiplicativo dello
0,3 (nello stesso periodo, quello della Corea del Sud è stato di 31). Ancora e sempre,
questo è un Paese agricolo: lagricoltura contribuisce al Pil per il 52 per cento
(molto più della quota considerata normale per uneconomia in via di sviluppo di
dimensioni paragonabili a quella tanzaniana) e la percentuale delle esportazioni agricole
è diminuita solo marginalmente, dall87 del 1965 all82 del 1987 (nello stesso
periodo, nel subcontinente indiano, non esattamente un modello di spettacolare sviluppo,
è crollata dal 63 al 36). Secondo un recente rapporto dellUnicef, meno dell1
per cento dei 103 mila maestri elementari ha la qualificazione accademica per esserlo:
quasi tutti hanno o solo uneducazione primaria oppure hanno lasciato la scuola senza
finire le secondarie.
Il Paese è punteggiato di industrie che non hanno mai lavorato un solo giorno (fra le
molte: una di piastrelle, a Dodoma, otto per la lavorazione degli anacardi). Di dighe
costruite per dare acqua a risaie mai produttive e che in compenso hanno tolto acqua al
parco nazionale di Ruaha, dove cè una delle più ampie popolazioni di elefanti dellAfrica
orientale. In compenso, solo il 5 per cento delle strade è asfaltato e un tanzaniano su
tre deve camminare mezzora per arrivare a un pozzo dacqua (in un Paese che
certo non ne ha poca). Le aule di scuola sono in gran parte costruite come capanne, di
terra e rami, cè un libro di testo ogni tre alunni, su 4,2 milioni di iscritti alle
elementari (il 77 per cento del totale) 2,7 non ha né sedia né banco e il rapporto
maestri-alunni, nelle zone rurali, è 1 a 75.
Ogni tanzaniano ha più debiti che reddito. Ma che cosa ne ha fatto, il governo, dei soldi
ricevuti in questi quarantanni? La Banca mondiale ha finanziato il rifacimento della
strada che da Dar es Salaam sale verso Arusha: per percorrerla, adesso, bastano 6-7 ore
contro le 14 di prima. Ma, appena dopo lindipendenza, in 10-11 si arrivava a
Nairobi. A quel tempo, le dogane della capitale avevano un capo inglese, di nome Peter: su
un grande libro nero aveva scritte tutte le tariffe allimportazione. È paradossale
che, oggi, lo stesso lavoro lo faccia una società svizzera. Dovrebbe farlo lo Stato
tanzaniano, che evidentemente non si fida dei suoi funzionari. Invece, la Cotecna sigilla
i container nei porti di partenza, certificandone il contenuto e il valore. Su quello gli
importatori pagano le tasse (e una percentuale dell1,33 per il servizio). I
paradossi abbondano, svuotando di senso la sovranità nazionale. Il monitoraggio degli
animali nel parco del Serengeti è affidato ai tedeschi della Frankfurt Zoological
Society. La quarantina di fuoristrada donati dallUe ai ranger del Ngorogoro giace
inutilizzata, inservibile e senza pezzi di ricambio.
Nella classifica mondiale della corruzione, Transparency International mette la Tanzania
al 76esimo posto su 94 Paesi. Dato 10 come massimo dellonestà, è a 2,5. Sulla
costa orientale di Zanzibar, a Kiwengwa, cè una scuola. Silvia Ceppi, una biologa
di una piccola Ong di Bergamo, il Fondo per la Terra, ci ha lavorato sei mesi. Vicino, ci
sono tre o quattro villaggi-vacanze. I turisti vengono in visita, incoraggiati dagli
insegnanti, e lasciano qualche soldo. Questa primavera quattro italiani volevano dare 50
dollari a testa per costruire unaula in muratura. Silvia, una ragazza nei suoi tardi
ventanni arrivata in Africa piena di ottimismo, li ha convinti a non affidare i
soldi al professore di inglese (che, diciamo così, «gestisce» gli aiuti informali). È
andata in città, ha comprato cemento e mattoni, ha convocato un gruppetto di muratori e
quattro giorni dopo laula era pronta. I turisti se ne sono andati soddisfatti, il
preside lha convocata diffidandola di interferire in futuro nelle faccende della
scuola. Esasperata, delusa e imbufalita, Silvia è tornata a casa per una vacanza.
Tornerà, ma solo per monitorare i leoni del parco di Tarangire. Con gli animali, almeno,
le illusioni non muoiono.
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