La Repubblica 9 luglio 2001 Costretti
a lavorare troppo
di ROBERT REICH
ERO entusiasta dell'incarico di ministro del lavoro nel Gabinetto di Bill Clinton,
tanto che dopo quattro anni, proprio quando Clinton stava per essere rieletto per un
secondo mandato, mi ritrovai molto spesso a lavorare 16 o 17 ore al giorno, fine settimana
inclusi. Era sì un lavoro che amavo, ma mi stava allontanando da altre cose che amavo
ancor di più. Mi resi conto che vedevo poco e niente mia moglie e i bambini e sapevo che
avrei dovuto lasciare il Gabinetto. Bill Clinton conquistò effettivamente un altro
mandato e di lì a poco annunciai il mio ritiro. Fui subissato di lettere e e-mail da
tutto il paese. Alcuni apprezzavano la mia scelta, prima la famiglia, ma molti non erano
così teneri: evidentemente, avevo toccato un nervo scoperto.
Sembra emergere una crescente preoccupazione circa la direzione presa dal capitalismo
americano. E' un dibattito che interessa anche l'Europa, dove la politica guarda spesso al
capitalismo americano come ad un modello. In alcuni ambienti è diventato quasi un mantra:
il capitalismo americano offre un mercato del lavoro più flessibile, più flessibili
mercati dei capitali, una maggiore flessibilità in generale, risultando di conseguenza
non solo più efficiente, ma anche più dinamico. Ci sono però altre voci in Europa, meno
convinte che il sistema capitalistico americano sia davvero la risposta.
La riluttanza a seguire questo modello è collegata ai timori che molti americani
avvertono circa il futuro dei loro posti di lavoro e delle loro retribuzioni.
Queste ansie derivano da un paradosso centrale, collegato al bilancio lavoro/vita: man
mano che l'economia cresce e diventa più dinamica, ci sarebbe da aspettarsi che la gente
abbia più tempo libero, non che ne abbia meno, e che sotto certi aspetti possa godersi di
più la vita. Nel 1930 John Maynard Keynes predisse che nel 2030 il cittadino britannico
medio, grazie agli aumenti della produttività dovuti al progresso tecnologico, avrebbe
lavorato 15 ore la settimana. Lo scorso anno negli Stati Uniti per garantire un reddito
medio ad una famiglia con prole ci sono volute sette settimane di lavoro in più rispetto
al 1990. Ora se si controlla il ciclo economico e si torna indietro fino al 1988 o al
1987, emerge chiaramente che si è registrato un costante aumento strutturale del numero
di ore lavorate negli Stati Uniti, e che il numero di ore non ha quasi nessun legame con
la posizione occupata nello spettro economico. Ironicamente quanto più si sale sulla
scala del reddito, tanto più è probabile che le ore di lavoro aumentino, piuttosto che
diminuire. I professionisti lavorano normalmente 55 o 60 ore la settimana. E non si tratta
solo del numero di ore, va considerato anche il livello di stress.
Come si spiega un paradosso simile? Io ho individuato tre ragioni, tra loro collegate e al
di là di esse si pone ovviamente la questione del capitalismo americano in sé: un
capitalismo straordinariamente dinamico e nello stesso tempo un fallimento sotto altri
aspetti. Fino a che punto successi e fallimenti rappresentano le due facce di una stessa
medaglia?
Venti o trent'anni fa guardando all'economia americana si poteva ancora trovare il
cosiddetto il "posto fisso", un lavoro cui era collegata una certa
prevedibilità in termini di retribuzione e avanzamento di carriera. Oggi i rapporti di
lavoro sono sempre meno prevedibili. La concorrenza è più intensa, tanto che i
dipendenti sono costretti a farsi carico di una quota sempre maggiore del rischio
dell'incertezza e della instabilità economica. Non si trova più il posto fisso ma sempre
più lavori basati su schemi di compensazione variabili, che si tratti di provvigioni,
premi produzione o stock option. Si discute molto sulla percentuale di forza lavoro
contingente negli Stati uniti, intendendo lavoratori assunti per un progetto specifico.
Questi lavoratori contingenti rappresentano però solo una piccola fetta di un sistema di
retribuzione contingente in cui il salario varia notevolmente in rapporto alla
prestazione. Se l'economia diventa sempre più instabile, altrettanto fanno retribuzione,
compensazione e benefici.
I benefici fanno altrettanto parte dell'equazione. Eravamo abituati ad un sistema in cui i
benefici, quelli pensionistici ad esempio, erano ben definiti. Sapevi che dopo aver
lavorato un certo numero di anni avresti ottenuto una pensione di un certo importo. Oggi
una parte sempre più cospicua della contribuzione è a carico del lavoratore. I datori di
lavoro fuggono i costi fissi. Persino chi ha un impiego full time non può essere sicuro
della retribuzione che riceverà in futuro. Così i lavoratori sono obbligati a battere il
ferro finché è caldo, cioè a darsi da fare quando c'è lavoro, perché può essere che
il mese o l'anno successivo i loro servizi non siano più richiesti. Sono così sempre di
più i lavoratori ad ore la cui retribuzione dipende dagli straordinari, i professionisti
che fanno affidamento sull'inserimento in un progetto, su provvigioni o rimborsi. Uno dei
motivi per cui la gente aumenta l'orario di lavoro è che non sa se ci sarà lavoro in
futuro, è quindi costretta a lavorare adesso.
In secondo luogo, per molti professionisti la carriera ha solo due binari, uno veloce e
uno lento. Scegliere il binario veloce significa lavorare 55 o 60 ore la settimana e anche
più, avere opportunità di promozione, tenere il ritmo con la clientela e con le nuove
tecnologie. I rampanti devono sgomitare, essere pronti ad adeguarsi agli ultimi ritrovati
tecnologici, dare il massimo per corteggiare e soddisfare la clientela. Se si vuole
restare sul binario veloce bisogna impegnarsi allo spasimo.
Scegliere il binario lento significa non ottenere promozioni, non essere stimato in grado
di tenere il passo con le tecnologie e con i clienti, avere una posizione inferiore
all'interno dell'organizzazione. Ecco il dilemma: scegliere tra questi due binari, non ci
sono vie di mezzo.
Infine, strettamente collegata ai primi due principi della new economy c'è una crescente
ineguaglianza, di reddito e di ricchezza. La spiegazione più semplice ce la dà ancora
una volta la new economy. Se è vero che l'innovazione oggi è la chiave per poter essere
concorrenziali, allora i datori di lavoro saranno disposti a pagare profumatamente chi
produce molte idee, è abile a corteggiare la clientela e a tenere il passo con le
esigenze di quest'ultima e con la tecnologia. Questo tipo di persone hanno assunto enorme
valore e i datori di lavoro sono pronti a retribuirle sempre meglio. Di converso, la
concorrenza costringe i datori di lavoro a ridurre le retribuzioni dei lavoratori ordinari
perché oggi questo tipo di lavoratori deve competere con computer e programmi e con altri
lavoratori in tutto il mondo che sono in grado di essere quasi altrettanto produttivi per
salari più bassi.
Ma che cosa significa tutto questo in termini di tempo e di fatica? Secondo uno studio di
Richard Freeman, quanto più si allarga il divario dei redditi, tanto più aumenta il
numero delle ore di lavoro. Questo accade perché quando il divario è vasto, quelli che
sono in fondo o quasi devono lavorare di più per riavvicinare gli estremi, e quelli che
sono in cima o quasi, rischiano di pagare un alto costo in termini di opportunità se
scelgono di non lavorare sodo.
Se la mole di lavoro e l'ansia associata al lavoro rappresenta, come sostengo, il rovescio
della medaglia (essendo la medaglia il dinamismo economico), allora c'è da chiedersi se
esista un qualche modo di ottenere il massimo del dinamismo minimizzando
contemporaneamente i costi sociali e personali. Circa 120 anni fa, un interrogativo simile
venne sollevato in relazione alla nuova industrializzazione. Il dibattito si incentrò
sulla possibilità o meno di godere dei benefici di questo nuovo ordine industriale
temperandone però le ingiustizie e riducendone gli eccessi. Da tutto quel fermento, nella
prima decade del ventesimo secolo, derivarono le norme che fissavano la settimana
lavorativa di 40 ore e i tetti allo straordinario, le leggi contro il lavoro minorile e
quelle per la sicurezza sociale e l'assicurazione contro la disoccupazione. Questo insieme
di leggi avrà anche reso l'ordine industriale un po' meno efficiente e rallentato forse
un po' la crescita, ma i vantaggi per la società sono stati senz'altro prevalenti ed ha
inoltre contribuito a ridurre i rischi di una reazione violenta contro
l'industrializzazione. Credo che ci troviamo ora allo stesso punto relativamente alla
cosiddetta new economy. Incertezza e imprevedibilità sono in aumento e, a meno che non
adottiamo misure cuscinetto per proteggere le persone dai capricci, dalle incertezze,
dall'instabilità della new economy, siamo destinati ad assistere a reazioni sempre più
negative e all'eventualità crescente di una risposta violenta contro la liberalizzazione
finora raggiunta.
l'autore è stato ministro del lavoro del governo Clinton
(traduzione di Emilia Benghi)
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