Corriere della sera 8 luglio 2001
L’INTERVISTA / Il sindaco di Roma: i riformisti diventino l’anello di congiunzione tra il popolo di Seattle e la politica

«Sinistra inutile se non sfida la povertà»

Veltroni: è naturale che ci sia la rivolta contro il G8 ma ogni violenza è inammissibile

ROMA - «Prima di tutto, ho una richiesta da avanzare a Silvio Berlusconi, ed è la stessa che avanzai al suo predecessore: a Genova, il nostro presidente del Consiglio si batta perché il prossimo vertice, se si farà, e comunque si faccia, attorno a un tavolo, in teleconferenza, per telefono, sia allargato all’Africa e al Sud America. Queste riunioni ormai si svolgono sempre più spesso, si occupano di molte più materie di quelle previste inizialmente, e prendono decisioni che riguardano interi continenti che però non sono chiamati a partecipare...». Da quando è sindaco di Roma, Walter Veltroni si è dato la regola (ferrea) di tenersi distante dalle polemiche politiche nazionali. Ma, sul G8 e dintorni, questa regola è ben felice di violarla. Sta dicendo che i contestatori qualche ragione la hanno, quando negano legittimità al G8?
«E’ assolutamente naturale che la rivolta ci sia, semmai c’è da chiedersi come mai non sia esplosa prima. Vuole delle cifre? Eccole. Tre miliardi di persone, la metà della popolazione umana, vivono con meno di due dollari al giorno, solo nell’Africa sub-sahariana ci sono 28 milioni di persone ridotte alla fame. Il combinato disposto di fame, siccità, malattie e guerra ci conduce a un passo dal genocidio. Tutto questo è avvenuto e avviene sotto gli occhi dell’Occidente...»
E l’Occidente?
«E l’Occidente volge lo sguardo da un’altra parte. E’ incredibile che, prima della nascita di questo movimento, nessuno si sia levato a dire basta».
Insomma, signor sindaco, è diventato anche lei un critico feroce della globalizzazione.
«Ma neanche per idea. Nelson Mandela sostiene che contestare ideologicamente la globalizzazione è come opporsi al succedersi delle stagioni, Fernand Savater scrive: "Protestare contro la globalizzazione sarebbe come protestare contro il tramonto del sole perché non vorresti che il sole si nascondesse di notte e ti piacerebbe che brillasse al buio". Sono completamente d’accordo con loro. Il vero tema è il carattere della globalizzazione, che non può essere senza aggettivi. E il vero interrogativo è come illuminare l’altra metà del mondo».
Lei crede davvero che la globalizzazione possa essere governata politicamente a questo fine?
«Senta, la globalizzazione va benissimo. Non va bene che in Africa l’aspettativa di vita sia di 38 anni, e capiti, come è successo a me, in un viaggio che mi ha cambiato, di trovare le scuole chiuse perché gli insegnanti sono morti di Aids. Tutti abbiamo parlato della nave dei bambini schiavi in Benin, tutti ci siamo sdegnati. Ma in Africa ho conosciuto genitori che mi hanno detto: "Se potessi vendere un figlio lo venderei, perché sarei certo che lui sopravviverebbe, e con il ricavato potrei nutrire i suoi fratelli"».
Conosce l’obiezione: alla lunga, sarà la mano invisibile del mercato a porre rimedio a queste tragedie...
«La mano invisibile... Non scherziamo su cose tragicamente serie: per il momento, ci sono solo occhi che non vedono. Tutto è globalizzato, dai mercati finanziari alla comunicazione, tranne la politica. Io dico invece che la politica deve intervenire per guidarla, la globalizzazione: e pesantemente».
Non mi pare che la sinistra, in Italia e in Europa, abbia in materia idee univoche: oscilla tra la contestazione globale delle sinistre antagoniste e l’accettazione più o meno piena delle sinistre di governo .
«Io mi chiedo cosa sia e a cosa serva la sinistra, e parlo della sinistra riformista, se non si propone di essere il principale soggetto politico di questa gigantesca operazione di redistribuzione del reddito: si tratta di un obbiettivo paragonabile, per importanza, a conquiste come la liberazione dalla schiavitù, il suffragio universale, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche. La sinistra così com’è non riesce a porlo all’ordine del giorno, né in Italia né in Europa? Lo so bene. E’ per questo che sostengo che non è sufficiente dire ciò che per me pure è ovvio: siamo nel socialismo europeo. Le appartenenze tradizionali contano, certo, ma devono rispondere alle nuove sfide».
Le sue argomentazioni sembrano di natura più etica che politica...»
«Io, come è noto, sono un convinto sostenitore del fondamento etico dell’agire politico: se non ci credessi, mi occuperei d’altro. Ma anche chi al posto del cuore avesse un sampietrino dovrebbe capire che, alla lunga, il mondo così non regge. Possiamo mettere tutti i cavalli di Frisia e le torrette che vogliamo, ma gente destinata a morire a trentott’anni camminerà anche sulle acque per campare il doppio. E però i ragazzi senegalesi, ne sono certo, preferirebbero stare in Senegal che stipati in 18 in una stamberga a Santa Maria Capua Vetere. Chi è indifferente alla questione sotto il profilo etico farebbe bene a prenderla in considerazione, e in fretta, almeno per motivi di puro realismo. Ma di tutto questo l’Occidente, sin qui, se ne è bellamente fregato».
E quali sarebbero, secondo lei, i motivi di tanta indifferenza?
«Quando, con la caduta del Muro di Berlino, finì la stagione del mondo separato in blocchi contrapposti, tutti i politici più intelligenti sperarono nell’avvento di un nuovo ordine mondiale, anzi, di un governo mondiale. Non se ne è fatto nulla. Ai vecchi equilibri crollati non sono subentrati equilibri nuovi, le questioni drammaticamente aperte, dalla fame all’ambiente ai diritti umani, sono rimaste inevase. L’economia di mercato non incontra più opposizioni sostanziali, ed è un bene. Ma una cosa è l’economia di mercato, un’altra la società di mercato: una sinistra che non contesti la società di mercato non ha ragione di essere».
Lei, però, prima parlava della sinistra riformista, non di una sinistra radicale come quella che, anche a Genova, sarà parte integrante della contestazione al G8.
«Io credo che, cadute, e fortunatamente, le ideologie che ordinavano secondo un fine ultimo i movimenti collettivi, si sia aperta in Occidente tra i giovani, e non solo tra i giovani, una grande domanda di senso, alla quale la politica è chiamata a dare delle risposte. I riferimenti al Sessantotto sono abusati e spesso stucchevoli, lo so. Ma che cosa successe allora? Successe che in tutto il mondo, in milioni, sentirono troppo angusta la società in cui vivevano, le diedero una spallata, aprirono la strada a una gigantesca modernizzazione. Qualcosa di simile, penso, sta capitando anche adesso: il cosiddetto popolo di Seattle è l’espressione di un movimento profondo, nello stesso tempo antipolitico e politicissimo».
E i riformisti che c’entrano?
«Se sono riformisti davvero, devono entrarci, eccome. Sono l’anello di congiunzione, l’unico anello di congiunzione possibile, tra le domande inevase di questo movimento e la politica. Sta a loro, sta a noi dimostrare nei fatti che il riformismo non cancella il conflitto e la radicalità, ma invece ne ha bisogno, li promuove, dà loro sbocchi reali».
Non sembra proprio facilissimo.
«No, è molto difficile. Con il cuore, ma anche con la testa, mi sento vicinissimo a chi andrà a Genova. Ma non bisogna mettersi a fare il verso al popolo di Seattle né, tanto meno, a fare i furbi con i violenti: la violenza gratuita e comunque inammissibile contro le forze di polizia o anche contro le vetrine di un negozio è la peggior nemica di un movimento pacifista per costituzione, e in cui potenzialmente si incrociano le culture di tutti i riformismi. Che le giornate genovesi si concludano senza incidenti gravi è importantissimo, dunque. Ma non basta. Cancellazione del debito, embargo della vendita delle armi, rispetto degli impegni per gli aiuti allo sviluppo, fondo globale per la lotta all’Aids, rispetto degli accordi di Kioto sull’ambiente: questi sono i temi che il movimento ha imposto all’agenda politica, questi sono i temi sui quali il movimento, e lo dico da riformista, ha diritto di vedere realizzati dei passi avanti significativi».
Veltroni, lei polemiche interne alla sinistra non vuole farle, ed è inutile che io provi a farla cadere in tentazione. Ma da ex segretario dei Ds qualche sassolino dalla scarpa vorrà pure cavarselo. Se non altro perché non mi sembra che le questioni di cui abbiamo discusso siano al centro del confronto congressuale del suo partito.
«Sassolini dalla scarpa? Ma no. Mi piacerebbe solo che fosse più chiaro, anche dalle cose che le ho detto, perché mai al congresso di Torino scelsi quel motto, I care , su cui tanto si è ironizzato. E, a proposito di ironie, o di sarcasmi, mi piacerebbe anche che fosse più chiaro, con quello che va capitando, il senso del mio tanto discusso viaggio in Africa. Il Nasdaq va male, ma non si vive di solo Nasdaq, tanto meno a sinistra. Che altro posso dirle? Solo questo: che ogni tanto vedere le cose un po’ prima del tempo può essere pericoloso.
Paolo Franchi