IL PATRIMONIO GENETICO MONDIALE IN VENDITA
di JEAN-PAUL MARECHAL * tratto da Le Monde diplomatique/Il Manifesto marzo
2000
L'impoverimento della biodiversità costituisce uno degli aspetti più preoccupanti della
crisi ecologica mondiale. Si calcola che ogni giorno scompaiano dalle cinquanta alle
trecento specie vegetali e animali (1), mentre l'Unione internazionale per la
conservazione della natura (Uicn) nella sua "lista rossa" del 1997 afferma che
attualmente, a livello mondiale, sono a rischio l'11% degli uccelli, il 20% dei rettili,
il 25% degli anfibi, il 25% dei mammiferi e il 34% dei pesci (2). Queste cifre, per quanto
impressionanti, rispecchiano solo in modo imperfetto le conseguenze in termini di qualità
del degrado dell'ecosistema terrestre a causa dell'espandersi della sfera produttiva. Il
concetto di biodiversità, infatti, non può ridursi ad un semplice indicatore
quantitativo. Inventato da Walter G. Rosen nel 1985, si applica sia all'insieme costituito
da tre diversità:
genetica (dei geni di una specie), specifica (delle specie) ed ecologica, che alle
interazioni esistenti fra le tre diversità. Come rileva Robert Barbault (3), è una
nozione che trascende il campo delle scienze naturali, per aprirsi su quelle dell'uomo, il
quale si scopre allora predatore, causa d'indebolimento della biosfera e, nello stesso
tempo, contabile della ricchezza del mondo vivente che lo circonda.
Ma, al di là dell'impoverimento in corso, l'ecosistema deve far fronte alla sempre più
massiccia espansione di un nuovo sistema tecnico ed economico fondato sul mutuo
rafforzamento di un mercato ormai planetario, e libero da ogni vincolo, e di un insieme
tecnologico in cui interagiscono informatica, robotica, telecomunicazioni e biotecnologie
(4). Jeremy Rifkin, in Il secolo Biotech (5), vede nell'avvento delle biotecnologie la
seconda grande rivoluzione industriale della storia e analizza la mutazione contemporanea
come l'emergere di un potente complesso scientifico, tecnologico ed economico risultante
dalla convergenza tra rivoluzione genetica e rivoluzione elettronica.
Una tale convergenza affretterebbe il nostro ingresso in una nuova era: il "secolo
delle biotecnologie", caratterizzato da un'inedita capacità di plasmare la natura e
di creare una fauna e una flora "bio-industriali".
Presenti ovunque, dall'agroalimentare alla salute, le biotecnologie questo "insieme
di tecniche che mira allo sfruttamento industriale di microrganismi, cellule animali,
cellule vegetali e loro costituenti (6)" interessano un insieme di settori produttivi
che va dall'agricoltura alla farmaceutica, passando per la chimica. Esse, infatti, al pari
dell'informatica, non costituiscono un "settore" o una "branca", nel
senso economico del termine, ma un fascio di tecniche "fluide" (7), vale a dire
atte a coinvolgere l'insieme del sistema tecnico e ad essere oggetto di svariate
applicazioni in molti settori.
La produzione di piante e di animali transgenici, come pure quella di medicinali, vaccini,
test diagnostici medici, ecc., costituiscono solo un piccolo esempio di ciò che avverrà.
Una parte della ricerca si concentra ormai sul pharming neologismo che indica la fusione
di attività agricole e farmaceutiche , cioè sulla trasformazione di animali domestici in
officine per la produzione di medicinali e sostanze nutritive. D'altra parte, clonazione e
manipolazioni genetiche permetteranno, tra non molto, di ottenere animali rigorosamente
standardizzati, rispondenti a precise norme bio-industriali. Questi animali saranno
studiati sia in funzione del consumo alimentare, che della produzione di organi destinati
al trapianto (8). Ma le biotecnologie trovano applicazione anche là dove, a priori, meno
si penserebbe: nella decontaminazione ambientale, nella fabbricazione di materie plastiche
o anche nell'estrazione mineraria.
I profitti previsti da una tale valanga di innovazioni sono enormi. I proventi del mercato
dell'ingegneria genetica, il cui valore è oggi stimato tra i 20 e i 30 miliardi di
dollari, dovrebbero raggiungere i 110 miliardi nel 2005. Nello stesso anno, il mercato
americano delle piante transgeniche ammonterà, secondo la ditta Monsanto, a 6 miliardi di
dollari (9). Con queste premesse, non ci si stupisce di vedere giganti industriali quali
Monsanto, Novartis, Rhone-Poulenc, Pioneer-DuPont o Lafarge-Coppe studiare attentamente
questi nuovi sbocchi di mercato. Le ristrutturazioni delle multinazionali privilegiano la
chimica, mentre la concentrazione, tendenza costante della storia del capitalismo, procede
in modo molto deciso sotto il controllo degli americani. Nel settore della biotecnologia
agricola, la ricerca è controllata da quindici ditte private, tredici delle quali sono
americane e solo due europee.
I geni sembrano proprio "l'oro verde" del XXI secolo, un oro verde che le grandi
industrie del complesso genetico-industriale vogliono controllare, come hanno sempre fatto
le multinazionali, insieme alle risorse o alle attività necessarie al loro sviluppo.
Solo che in questo caso non si tratta di mettere le mani sull'estrazione di minerali o sul
funzionamento di circuiti commerciali, ma sul patrimonio genetico stesso. Ciò che può
apparire come una pretesa folle è ormai realizzabile grazie all'estensione della
brevettabilità sul mondo vivente.
Nel 1980, infatti, la Corte suprema degli Stati uniti ha riconosciuto, per la prima volta,
la validità di un brevetto che protegge un batterio geneticamente modificato. Nel 1987,
il Pto (Patents and Trademark Office, l'equivalente americano dell'Ufficio brevetti in
Italia) ha decretato che tutti gli organismi viventi multicellulari, animali inclusi, sono
potenzialmente brevettabili. Un anno dopo, lo stesso Pto ha accordato un brevetto su un
mammifero (un topo con un gene umano che lo predispone al cancro). Da allora, altri
animali sono stati brevettati. Come riassumono Catherine Aubertin e Franck-Dominique
Vivien, la generalizzazione del sistema dei brevetti consacrata dai negoziati finali
dell'Accordo generale su tariffe doganali e commercio (Gatt), diventato, nel 1995,
Organizzazione mondiale del commercio (Omc) , fa sì che "ciò che può essere
protetto non è più solo l'organismo modificato o il processo che ha permesso di
ottenerlo, ma anche l'informazione genetica contenuta e tutte le applicazioni permesse
(10) ".
Questa situazione crea una doppia linea di frattura. La prima oppone le multinazionali del
Nord ai paesi del Sud. Le grandi industrie del complesso genetico-industriale affermano
che la protezione offerta dai brevetti costituisce una premessa indispensabile per
l'investimento nella ricerca-sviluppo, mentre i secondi che possiedono la maggior parte
della diversità biologica del pianeta sostengono che la ricchezza di varietà che
interessa tanto le industrie occidentali è spesso opera di molti secoli di agricoltura
tradizionale. Ma se il Nord e il Sud si scontrano sul possesso delle ricadute della
rivoluzione biotecnologica, su un punto sono comunque d'accordo: il patrimonio genetico
mondiale è da considerare merce.
Diametralmente opposta la posizione di un numero crescente di organizzazioni non
governative (Ong) e di alcuni stati ed è questa la seconda linea di frattura , i quali
sostengono che il patrimonio genetico deve rimanere (o tornare ad essere) patrimonio
comune dell'umanità.
L'unico testo internazionale sulla biodiversità in quanto tale è la Convenzione
internazionale sulla diversità biologica firmata nel giugno 1992 a conclusione del Summit
della Terra a Rio ed entrata in vigore il 24 dicembre dell'anno successivo. I suoi
obiettivi, enunciati nel primo articolo, sono: "la conservazione della diversità
biologica, la costante utilizzazione dei suoi elementi e la corretta ed equa suddivisione
dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche, soprattutto grazie a
una soddisfacente possibilità di accesso alle risorse genetiche e ad un adeguato
trasferimento delle tecniche relative, nel rispetto di tutti i diritti sulle risorse
stesse e sulle tecniche, e grazie ad un adeguato finanziamento".
Chi non sottoscriverebbe un programma in apparenza così ragionevole? Probabilmente tutti
coloro la cui curiosità non si spingesse fino a leggere l'articolo 3 in cui si dice:
"gli stati hanno il sovrano diritto di sfruttare le risorse secondo la propria
politica ambientale" o ancora l'articolo 15, paragrafo 1&oord, il quale
stabilisce che "il potere di decidere l'accesso alle risorse genetiche appartiene ai
governi ed è regolato dalla legislazione nazionale". E' evidente che con queste
disposizioni la convenzione del 1992 rifiuta di applicare alle risorse genetiche lo
statuto di patrimonio comune dell'umanità. Prevede anzi, all'articolo 15, paragrafo
7&oord, un principio di compensazione.
Certo, volendo seguire gli esperti di Grain (Genetic Resources Action International) e
della Fondazione Gaia si potrebbe leggere in questa convenzione un "impegno con
valore legale per porre fine (alla) distruzione [della biodiversità] e garantire la
conservazione e l'utilizzazione nel tempo della diversità biologica (11)". Un
impegno che i suddetti esperti contrappongono all'Accordo sugli aspetti dei diritti di
proprietà intellettuale relativi al commercio (Adpic, in inglese Trips) dell'Omc. Benché
l'analisi sia particolarmente accurata e meriti attenzione (12), essa sembra delineare
ciò che sarebbe auspicabile, più che prefigurare ciò che sarà deciso nel concreto.
Perfettamente coscienti dell'esistenza di una possibile deriva mercantile, gli estensori
del rapporto di Grain e della Fondazione Gaia, d'altra parte, non scartano affatto la
possibilità che la convenzione di Rio degeneri "in una semplice dichiarazione legale
che regola il trasferimento dei geni dal Sud verso il Nord grazie a contratti di mutuo
accordo (13)". In altre parole, che ufficializzi la corsa all'appropriazione del
vivente.
Purtroppo tutto porta a credere che ci sia connivenza più che antagonismo tra le Adpic
dell'Omc e la convenzione del 1992 che autorizza, in una certa misura, a ricondurre la
biodiversità ad una semplice questione di risorse genetiche da cui trarre i maggiori
benefici possibili.
Come affermano Catherine Aubertin e Franck-Dominique Vivien, "firmando la
Convenzione, ottenendo di poter monetizzare le loro risorse, i paesi del Sud riconoscono,
di fatto, i diritti di proprietà intellettuale sul vivente definiti dal Nord . Il
brevetto è lo scotto dei debiti. Le risorse genetiche vengono così inserite nel novero
delle materie prime e trattate come prodotti commerciali (14)". Per valutare appieno
l'asimmetria che si crea in termini di rapporti di forze con il sistema dei brevetti, vale
la pena di ricordare che, secondo l'Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale
(Ompi), a metà degli anni '90 i paesi industrializzati detenevano, in tutti i settori,
sia tramite i singoli che le industrie, il 95% dei brevetti in Africa, praticamente l'85%
di quelli dell'America latina e il 70% di quelli asiatici (15). In questo modo, un
patrimonio naturale e culturale costruito attraverso milioni di anni di evoluzione
biologica e millenarie pratiche agricole è ormai sotto il giogo della proprietà privata,
vale a dire di un modo aggressivo di gestire la biosfera. La "libertà del commercio
e dell'industria", ossia l'estendersi del regno della merce, si contrappone in modo
radicale, una volta di più, alle esigenze di un sano e costante sviluppo.
note:
* Professore incaricato all'università Rennes II, Haute Bretagne, autore di Le rationnel
et le raisonnable. L'economie, l'emploi et l'environnement, Presses universitaires de
Rennes, 1997
torna al testo (1) Il numero delle specie viventi è calcolato tra i 5 e i 50 milioni.
Fino ad oggi, sono state censite solo 1,4 milioni
di specie: 990.000 invertebrati, 45.000 vertebrati, 36.000 piante e microrganismi. Leggere
Alain Zecchini, "Biodiversità: la
natura appesa a un filo", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1998.
torna al testo (2) Jean-Marc Lavieille, Droit international de l'environnement, Ellipses,
Parigi, 1998.
torna al testo (3) Robert Barbault, Biodiversité, Hachette, Parigi, 1997.
torna al testo (4) Jacques Robin, Changer d'ère, Parigi, Seuil, Parigi, 1989.
torna al testo (5) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, Baldini&Castoldi 1998.
torna al testo (6) Pierre Douzou, Gilbert Durand, Philippe Kourilsky e Gerard Siclet, Les
Biotechnologies, PUF, Parigi, 1983.
torna al testo (7) Maurice Daumas, Histoire générale des techniques, PUF, vol.
4, PUF, Parigi, 1979.
torna al testo (8) Leggere "Assalto ai prodotti biologici", Le Monde
diplomatique/il manifesto, marzo 1999.
torna al testo (9) Catherine Aubertin e Franck-Dominique Vivien, Les Enjeux de la
biodiversité, Economica, Parigi, 1998.
torna al testo (10) Ibid.
torna al testo (11) Grain e Fondazione Gaia, "Commerce mondial et biodiversité en
conflit", nr 1, aprile 1998. (Grain, Girona 25, 08010 Barcellona, Spagna; The Gaia
Fondation, 18 Well Walk, Hampstead, Londra NW3 1LD, Regno unito).
torna al testo (12) La Convenzione sulla diversità biologica non esclude alcuna modalità
di appropriazione, sia essa privata, pubblica o collettiva, con la sola eccezione, certo
significativa, del patrimonio comune dell'umanità.
torna al testo (13) Grain e Fondazione Gaia, op. cit.
torna al testo (14) Catherine Aubertin e Franck-Dominique Vivien, op. cit.
torna al testo (15) Ompi, insieme di dati IP/STAT/1994/B, pubblicato nel novembre 1996.
(Traduzione di G.P.) |