ANDREA FUMAGALLI
afuma@eco.unipv.it
prima stesura
settembre 1998
0. INTRODUZIONE
Negli ultimi anni, il numero delle persone al di sotto della soglia di povertà é fortemente aumentato in tutta Europa. Parallelamente, la polarizazzione dei redditi é proseguita senza sosta in tutto il mondo, sia quello cd. più sviluppato che nei paesi emergenti e poveri del terzo e quarto mondo. Sono fatti noti, su cui ogni tanto i grandi quotidiani mostrano una certa indignazione (come per lo sfruttamento dei bambini in Asia e in Africa) ma che di fatto non entrano nell'agenda della politica economica nazionale e sovranazionalea(1).
La trasformazione delle economie occidentali negli ultimi anni, quella trasformazione che in modo rapido e grezzo possiamo indicare nel passaggio dal fordismo al post-fordismo, non ha solo modificato i processi reali che sottendono i meccanismi di accumulazione, di creazione di ricchezza e miseria, ma ha anche omogeneizzato e conformato in modo unilaterale buona parte del pensiero economico. Non sempre è stato così. Ad esempio, le trasformazione reali dell'economia e i sommovimenti sociali degli anni Settanta hanno creato le premesse per un rivolgimento della stessa teoria economica. Di più, negli anni del dopoguerra, lo sviluppo del modello fordista era stato accompagnato dal diffondersi della teoria economica keynesiana e delle diverse varianti in tema di programmazione economica, sino alla pianificazione centralizzata (creando in tal modo un distorto ponte tra Keynes e Marx nel tentativo di fornire un fondamento teorico ad un capitalismo monopolizzato dominante a Ovest e ad un capitalismo di Stato a Est): teorie diverse che comunque si fronteggiavano sempre alla teoria economica liberista in una pluralità di impostazioni anche sul piano metodologico. A partire dai primi anni Ottanta, contemporaneamente alla caduta del muro di Berlino, si assiste, invece, al trionfo senza rivali della teoria neoliberista. Viene a mancare qualunque contrapposizione teorica se non, in termini puramente formali, all'interno dell'impostazione neoclassica dominante. L'economia politica si trasforma in scienza oggettiva, la cui promulgazione é ad appannaggio di "specialisti" e di "tecnici", al di fuori delle diatribe teoriche tipiche delle scienze sociali. Indipendentemente dalla formula di governo al potere (destra o sinistra), la politica economica diventa una tecnica di sostegno dei meccanismi di accumulazione in modo che siano sempre più compatibili con le esigenze dell'impresa e della finanza anche nel brevissimo periodo. L'omogeneizzazione del pensiero economico, che permea oramai qualsiasi meandro dell'accademia e qualsiasi centro di ricerca di destra e di sinistra, rappresenta il pericolo maggiore che oggi ci troviamo ad affrontare. E può sembrare paradossale che proprio nel momento in cui vige il più alto livello di frammentazione delle prestazioni lavorative e in cui non é possibile individuare un unico modello di organizzazione produttiva dominante, siamo di fronte ad unico pensiero (e credo) economico, una vera e propria manipolazione delle coscienze.(2)
In un simile contesto di repressione delle idee e di conformismo
ideologico, non é più sufficiente analizzare l'attuale
situazione, denunciarne gli effetti criminali e ingiusti. Oramai,
soprattutto in Italia e in Francia, esiste una folta letteratura
alternativa sul processo di trasformazione dal fordismo al postfordismo,
sulla produzione immateriale, sulle ristrutturazioni, sulle nuove
povertà, ecc.,.(3) Ma al di fuori della denuncia e delle solite
polemiche sul tipo di analisi e di metodologia utilizzata, tra
chi é attaccato alla tradizione marxista più ortodossa
dell'indagine sociale e chi cerca di seguire nuove strade analitiche,
l'agire politico e sociale rischia di arenarsi sempre più.
Per questo diventa necessario passare alla proposta e all'azione,
sulla base anche delle indicazioni che provengono dal mondo reale
dei conflitti, che lungi dall'essere scomparsi, rifioriscono più
che mai però in contesti particolari e locali. La lotta
dei disoccupati francesi, ad esempio, ha avuto tra le sue parole
d'ordine, non solo la richiesta di un occupazione, ma soprattutto
di un reddito. La pretesa di un reddito indipendentemente dalla
disponibilità di lavoro ma in quanto cittadino appartenente
ad una comunità é una parola d'ordine che sempre
più viene urlata nelle vertenze conflittuali che animano
l'attuale scena europea. Essa deriva dalla coscienza più
o meno diffusa e più o meno consolidata che nel nuovo millennio
il disporre di un lavoro può non essere sufficiente a garantire
l'esistenza di una vita dignitosa. Anche in questo caso, come
é avvenuto in passato, la teoria nasce dalle lotte e dalle
istanze che faticosamente e gradualmente vengono alla luce.
Il reddito di cittadinanza é un concetto che esiste da molto tempo, da quando ha cominciato ad esistere il capitalismo.(4) E non può essere diversamente. Un sistema economico in grado di generare un sovrappiù di ricchezza, tramite la trasformazione materiale delle merci e non sulla semplice base delle ricchezze esistenti in natura, non può non affrontare anche il tema della distribuzione di tale sovrappiù prodotto. Una volta affermatosi, il capitalismo ha imposto la propria legge, secondo la quale l'emancipazione sociale e la possibilità di procacciarsi di che vivere (un reddito, per l'appunto) deve per forza passare attraverso la disponibilità al lavoro, in tutte le sue varianti di subordinazione gerarchica tra uomini e donne. Il lavoro é libero e retribuito - questa è la grande rivoluzione sociale del capitalismo - purché esso sottostia alle regole dell'accumulazione privata grazie al ricatto del bisogno, ovvero alla stratificazione sociale che deriva dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il rapporto capitale-lavoro - nelle diverse metamorfosi che ha subito nel corso degli ultimi due secoli - rappresenta l'ambito teorico e reale in cui la dinamica sociale si muove e si modifica conflittualmente. Il processo di accumulazione determina le condizioni di produzione, la distribuzione del reddito influenza le condizioni della domanda. Lo sviluppo capitalistico non può fare a meno di modificare sia l'una che l'altra. Intervenire sul lato dell'accumulazione, tramite interventi sull'organizzazione del lavoro, sulle scelte di investimento, sulle modalità del rapporto di sfruttamento, é ambito prioritario per intervenire nei destini del capitalismo, ma influenzare e dirottare la distribuzione del reddito é altrettanto essenziale. L'esperienza del cd. "socialismo realizzato" e soprattutto il suo fallimento sono lì a dimostrarlo.
In questo scritto, affrontiamo la tematica del reddito di cittadinanza attraverso la formulazione di dieci tesi, con l'intento di essere i più chiari possibili, ma anche per mettere in luce la parzialità dell'intervento, consci, tuttavia, che costituisca in questa fase storica un pilastro importante, in grado, unitamente ad altri, di sostenere un impianto di politica economica alternativa, più solidale e meno ingiusta. Un'ultima avvertenza: le dieci tesi proposte possono essere lette indipendentemente una dalle altre (con dei riferimenti al loro interno per eventuali approfondimenti specifici). Ciò significa che sarà facile incorrere in ripetizioni, che spero non tedino eccessivamente il lettore.
Tesi n. 1: Il reddito di cittadinanza é una proposta di intervento economico generalizzato e egualitario, ovvero non discriminante nei confronti di alcuno, che concorre a definire, al pari della cittadinanza giuridica, la piena cittadinanza economica e sociale.
Per reddito di cittadinanza si intende un'erogazione
monetaria, a intervallo di tempo regolare (ad esempio un mese),
distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza e di residenza
da almeno un certo periodo di tempo (ad esempio, un anno), in
grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con
altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita), indipendentemente
dall'attività lavorativa effettuata, dalla nazionalità,
dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale, in età
lavorativa, per il periodo che va dalla fine delle scuole dell'obbligo
all'età pensionabile o alla morte.(5)
Trattandosi di un intervento
omogeneo, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere distribuito
da un'entità statuale riconosciuta costituzionalmente con
eventuale delega alle autorità locali per le pratiche materiali
di redistribuzione. Trattandosi di un reddito indipendente dal
salario (vedi Tesi n. 7), esso sostituisce tutte le forme di indennizzo
derivanti dalla perdita del posto di lavoro (cassa integrazione,
sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, ecc.) ma non le altre
forme di reddito già esistenti (pensioni, crediti alle
famiglie, ecc.). Lo scopo del reddito di cittadinanza è
quello di fornire una liquidità monetaria spendibile sul
mercato finale delle merci così da consentire il pieno
godimento dei diritti di cittadinanza e di socialità senza
necessariamente essere inserite in un contesto gerarchizzato di
produzione materiale e immateriale: da questo punto di vista il
reddito di cittadinanza concorre a garantire la cittadinanza economica
e sociale.
Tesi n. 2: Il reddito di cittadinanza, lungi dall'essere una proposta utopistica, é una misura di intervento economico adeguata alla realtà sociale dell'accumulazione flessibile e quindi più realistica oggi di quanto non lo fosse nel periodo fordista.
Con il passaggio dal modello fordista a quello
che rozzamente possiamo definire "post-fordista" o,
meglio, dell'"accumulazione flessibile", il contesto
economico e sociale muta radicalmente. Ciò che 20 anni
fa poteva sembrare irrealistico, oggi non lo è più:
è il caso del reddito di cittadinanza. Per spiegare questa
affermazione, vale la pena ricordare alcune rotture economiche
e sociali (in particolare tre), che hanno caratterizzato la recente
fase economica nei paesi a capitalismo avanzato, con particolare
riferimento all'Europa:
1. invalidità del nesso produzione - occupazione, vale a dire il fatto che se ad una diminuzione della produzione corrisponde ancora una diminuzione dell'occupazione, non è più vero il contrario. La capacità tecnologica informatica e flessibile consente di aumentare la produzione senza che aumenti l'occupazione per gli alti livelli di produttività incorporati nelle nuove tecnologie. Le tecnologie informatiche oggi dominanti sono costituite per la quasi totalità da innovazioni di processo, vale a dire da innovazioni che tendono a modificare il ciclo di produzione, il "come produrre" e non il prodotto finale.(6) Le nuove tecnologie non consentono quindi la creazione di nuovi sbocchi di mercato. Al riguardo occorre considerare il fatto, più che banale, che nella storia del capitalismo, il progresso tecnologico ha sempre "liberato" lavoro e quindi, come processo intrinseco, ha sempre causato disoccupazione tecnologica. La capacità del sistema capitalistico di compensare questa disoccupazione dipende dalla capacità di creare nuovi prodotti e, quindi, nuovi mercati, nuova domanda e nuova produzione. Tutto ciò oggi sembra non accadere in seguito alle caratteristiche strutturali dell'odierno progresso tecnologico, costituito, non dalla scoperta di un nuovo prodotto (ad esempio, le fibre e la plastica negli anni '20 e '30 o un nuovo procedimento meccanico, quale il motore a scoppio) ma dall'introduzione di qualcosa di immateriale come il linguaggio informatico in grado di collegare e programmare l'uso di due macchinari. Il progresso tecnologico informatico non amplia la produzione ma la ristruttura e la modifica tramite un costante incremento di flessibilità e tutto ciò non crea occupazione, bensì la distrugge.
La disoccupazione non è più
quindi un fenomeno puramente congiunturale, bensì strutturale.
E come tale, necessita di interventi strutturali. La riduzione
dell'orario di lavoro rientra nel novero dei rimedi strutturali
e proprio per questo può essere utile.
2. invalidità del nesso salario - produttività.
Il salario del lavoro dipendente è oggi, alle soglie del
2000, sempre più sganciato dalla produttività, per
il semplice fatto che la produttività dipende in massima
parte non più dall'apporto lavorativo ma dal tipo di macchinario
esistente. Se per aumentare la produzione a parità di lavoro
e di tempo è sufficiente schiacciare un tasto o inviare
un comando via computer, è evidente come sia il lavoro
che la sua retribuzione siano elementi esterni al meccanismo di
accumulazione. Il fatto che salario e produttività siano
sganciati è la diretta conseguenza (l'altra faccia della
medaglia) della separazione post-fordista tra crescita della produzione
e crescita dell'occupazione.
3. ininfluenza della struttura dei consumi nazionali (fine dello stato nazione). Il fatto che salario e produttività non siano più collegati fra loro implica che la distribuzione del reddito a livello nazionale e di conseguenza la domanda nazionale di consumo non abbiano più rilevanza nel determinare il processo di accumulazione. La crescente internazionalizzazione prima dei flussi finanziari (con la totale e completa liberalizzazione dei capitali) e poi con l'ampliarsi del processo di deindustrializzazione dei paesi occidentali ha fatto sì che le condizioni economiche e le politiche economiche a livello di singolo stato (a meno che non si tratti della triade - Usa, Germania, Giappone) abbiano oggi scarsa influenza nell'incidere su meccanismi di accumulazione sempre più globali. Da questo punto di vista, infatti, il processo di internazionalizzazione dell'economia mondiale si fonda su una divisione del lavoro che vede i paesi occidentali detenere in modo sempre più concentrato il potere finanziario e tecnologico ed il controllo dei flussi commerciali e i paesi emergenti del terzo mondo oggetto della semplice trasformazione delle merci.
L'irrilevanza della struttura redistributiva
del reddito implica anche il venir meno del ruolo dello Stato
sia come agente economico che interviene direttamente nel sistema
economico a sostegno dell'accumulazione (politica keynesiana)
che come elemento "super partes" che indirizza e controlla,
tramite la politica fiscale, la stessa redistribuzione del reddito.
In un modello di accumulazione flessibile "il welfare State"
non ha più alcuna funzione specifica ma rappresenta solo
una rigidità e, come tale, deve essere abolito.
Questi tre aspetti sono fra loro estremamente correlati ed evidenziano un unica fenomeno: la separazione tra distribuzione del reddito da un lato e meccanismo di accumulazione dall'altro.
A livello sociale, al di là della sola sfera economica, tale separazione implica anche una modificazione del rapporto inclusione/esclusione. In modo alquanto sommario, possiamo dire che nel modello fordista-keynesiano l'esclusione e l'emarginazione sociale dipendevano dal grado di insubordinazione nei confronti delle condizioni e della disciplina del lavoro. In questo ambito, la presenza di una forte etica del lavoro rappresentava la via maestra per l'integrazione e l'inclusione sociale, che consentiva la partecipazione, pur se in posizione subalterna, alla distribuzione della ricchezza, che si contribuiva a produrre. L'obiettivo della piena occupazione aveva quindi una valenza non solo etica ma anche strategica, pur nell'ambito dei vincoli posti dalla necessità di mantenere comunque un certo livello di disoccupazione.(7) Oggi, nel modello flessibile post-fordista, l'esclusione e l'emarginazione sociale si caratterizzano come elemento esterno di "flessibilizzazione e pressione indiretta" sul sempre più ristretto nucleo di lavoratori garantiti (vedi Tesi n. 6 per ulteriori approfondimenti su questa tematica).
Ciò dipende proprio dallo sganciamento della retribuzione salariale dal meccanismo di accumulazione, che è la grande novità del modello di accumulazione flessibile post-fordista.
Sorge allora una domanda: se il salario non viene regolato all'interno della produzione, da chi o da che cosa viene regolato?
Vi sono due possibili risposte: la prima fotografa ciò che sta avvenendo, la seconda postula un'opzione futura.
Se è vero che il salario non viene regolato all'interno dei meccanismi dell'accumulazione e della produzione come ai tempi del modello fordista, allora una possibile risposta sta nel postulare una situazione pre-fordista, vale a dire una situazione ottocentesca in cui la dinamica salariale dipende dall'andamento demografico, cioè dai livelli di offerta di lavoro, della popolazione attiva e di quanti si affacciano sul mercato del lavoro, anche se non trovano un'occupazione. Non si tratta né di una provocazione, né di un paradosso, bensì di una dolorosa realtà. Oggi il salario varia al variare dei livelli di disoccupazione e per questo si può parlare di salario di sussistenza dal momento che siano in presenza di una disoccupazione strutturale. Sono queste semplici considerazioni che spiegano la presenza di una situazione anomala per la prima volta nel dopoguerra: cresce la produzione, cresce la produttività, diminuisce il salario reale a vantaggio dei profitti e delle rendite finanziarie.
Se questa è la tendenza che si è ormai instaurata - e si tratta di una tendenza pericolosa in quanto altamente regressiva e antistorica -, occorre tuttavia tenere conto che le condizioni di accumulazione, le caratteristiche di flessibilità degli odierni sistemi produttivi sono elementi difficilmente modificabili nel breve e medio termine, a meno che non si riesca ad raggiungere un potere contrattuale in grado di modificare strutturalmente tali modalità produttive, ipotesi, oggi, assai poco realistica.
La flessibilità tecnologica e la flessibilità salariale così come oggi sono gestite dalle imprese sono quindi fattori che possono essere considerati esogeni ad una politica economica alternativa, fuori dal controllo delle realtà sociali antagoniste. Da questo punto di vista, lo spazio per una politica riformista è totalmente nullo(8), tanto è vero che oggi noi vediamo.
Diventa allora necessario aprire una diversa
opzione alternativa, più realistica e praticabile. Questa
seconda opzione è quella che lancia la parola d'ordine
del reddito di cittadinanza, come esito di un processo di redistribuzione
sociale del reddito. La garanzia di un reddito di base
indipendente dall'impiego lavorativo è un'ipotesi che fuoriesce
dalla logica dell'accumulazione produttiva per operare sul più
vasto piano sociale. Per evitare che il salario si riduca a puro
e semplice elemento di sussistenza e non di affrancamento e strumento
di libertà individuale, occorre che la dinamica salariale
(sia diretta che eterodiretta) diventi una questione sociale e
che venga regolato sul piano della distribuzione sociale del reddito.
E oggi più che mai diventa un'opzione realistica e irrinunciabile
Sempre in merito al carattere utopistico del reddito di cittadinanza e dei possibili effetti negativi, spesso si sottolinea l'argomentazione che se fosse effettivamente disponibile un reddito indipendente dalla necessità di lavorare, ciò indurrebbe una diminuzione dell'offerta di lavoro, soprattutto per le mansioni più pesanti e dequalificanti, a scapito dei livelli di produzione e quindi della possibilità nel futuro di poter godere un uguale disponibilità di beni e servizi.(9) In altre parole, chi farebbe i lavori più umili ma altrettanto necessari per mantenere il livello di benessere oggi esistente? A tale obiezione, che a prima vista non appare priva di buon senso e che spesso sottintende una etica del lavoro molto forte, si può rispondere con tre ordini di considerazioni:
a. uno degli stimoli principali alla dinamica economica e tecnologica deriva dal porre continuamente vincoli e ostacoli al processo di accumulazione in corso. Tutte le volte che si sviluppa un conflitto tra le diverse componenti sociali ed in particolare tra capitale e lavoro (ma, in misura minore, anche tra le diverse forme di capitale), la risoluzione di tale conflitto passa attraverso una spinta innovativa del progresso tecnologico e sociale. Così é stato per l'introduzione agli inizi del secolo della giornata di 8 ore per sei giorni alla settimana. Se andiamo a rileggere i documenti dell'epoca, si possono scoprire argomentazioni molto simili a quelle che oggi, quasi un secolo dopo, vengono addotte riguardo la riduzione di orario o il reddito di cittadinanza a proposito del rischio di paralisi dell'attività produttiva. Troppo spesso, però, ci si dimentica che le conquiste sociali sono state il miglior antidoto alle crisi economiche, costringendo gli imprenditori a fuoriuscire da comportamenti routinari e a introdurre innovazioni tecnologiche in grado di contrastare e superare l'eventuale compressione dei profitti o il rischio di fallimento economico (si potrebbe, a tal fine, studiare il nesso tra la richiesta di normazione oraria del lavoro dei primi anni del secolo con lo sviluppo delle nuove tecnologie fordiste, così come negli anni '70 é possibile ravvedere un rapporto tra lo sviluppo dell'informatica e la precedente fase conflittuale dei tardi anni '60) . Al riguardo, potrebbe essere interessante ricordare che la competitività internazionale dell'industria italiana alla fine del decennio degli anni '70, "obbrobriosamente conflittuale" per molti, era maggiore, in termini reali, di quella esistente alla fine degli anni '80, decennio osannato come esempio di pace e repressione sociale. In altre parole, qualunque misura atta a migliorare la distribuzione del reddito in modo non compatibile con le esigenze di profittabilità delle imprese, impone allo stesso sistema produttivo la necessità di incentivare la produttività e accelerare il progresso tecnologico al fine di risolvere ed eliminare i vincoli all'accumulazione di volta in volta sorti. Da questo punto di vista, ben venga una misura come il reddito di cittadinanza, affinché costringa il sistema produttivo (imprese, banche, ecc.) a porre rimedi agli ostacoli che tale misura inevitabilmente é portata a introdurre. Altro che paralisi produttiva!
b. In secondo luogo, é necessario ricordare che la storia del progresso tecnologico mostra una tendenza secolare alla riduzione della fatica fisica e alla diminuzione dei cd. "lavori pesanti" (ovviamente facciamo riferimento alle aree dove il progresso tecnologico é maggiormente diffuso). Lo sviluppo tecnologico nel campo della meccanizzazione - come é noto - ha fatto passi da gigante. Una maggior difficoltà nel reperire forza-lavoro per lavori disagiati e pesanti, favorita dal disporre comunque un reddito base - lungi dal bloccare la produzione - indurrebbe uno stimolo innovativo per meccanizzare e robotizzare queste stesse mansioni pesanti, favorendo in tal senso un incremento di produttività. Inoltre, aspetto non secondario, che qui ci limitiamo semplicemente ad accennare, ciò potrebbe favorire una dinamica tecnologica più consona alle effettive esigenze di liberazione dell'uomo, elemento che non sempre é connaturato con lo sviluppo del progresso scientifico e tecnologico (basti pensare ad esempio allo sviluppo dell'industria delle armi).
c. Occorre, infine, ricordare che la natura dell'uomo é
orientata più all'attività che alla "pigrizia",
"vizio" che è assunto agli onori delle cronache
in concomitanza con lo sviluppo dell'etica protestante del lavoro.
Se l'uomo viene "liberato" dal lavoro più pesante
e alienante, ciò non significa che si dedicherà
esclusivamente al "dolce far niente". Il significato
della parola lavoro - così come viene normalmente accettato
nel mondo occidentale - é spesso sinonimo di fatica. Senza
dilungarsi eccessivamente su queste tematiche(10),
in quasi tutte
le lingue occidentali la parola "lavoro" è semanticamente
sinonimo di "dolore" o "fatica" (nelle lingue
neolatine, deriva dal sostantivo "travaglio", che indica
o il dolore del parto o uno strumento di tortura) e l'attività
lavorativa può essere indicata anche da una seconda parola,
"opera" o "messa in opera", che definisce
la prestazione liberamente svolta dalla mente umana (uomo o donna
che sia) utilizzando l'ingegno e la volontà: locuzione
che oggi, nel linguaggio corrente, viene utilizzata per indicare
l'attività artistica (non a caso un'attività slegata
dalla necessità di produrre valore di scambio e quindi
non immediatamente produttiva, nel senso capitalistico del termine).
Ciò che il reddito di cittadinanza può favorire
é la riduzione del concetto di lavoro come fatica, non
in generale della capacità lavorativa, di "prestatore
d'opera", dell'uomo, aumentando in tal modo il grado di autonomia
e la libertà di scelta degli individui. Anzi, con la diminuzione
del lavoro pesante e alienato, l'uomo avrebbe più risorse
e più tempo per dedicarsi alla costruzione di "opere"
e magari di organizzare in modo più liberatorio la produzione
di ciò che gli é utile. Il "diritto all'otium"(11)
non significa infatti assenza di attività, ma piuttosto
la scomparsa della costrizione al lavoro e al sudore a vantaggio
della liberazione della mente e della creatività umana.
Da questo punto di vista, la parola d'ordine del reddito di cittadinanza
rappresenta una sorta di contropotere alla disciplina del lavoro
e alla gerarchia sociale che ne viene generata e per questo é
ritenuto assai pericoloso. Infatti, se ci si muove lungo un processo
di liberazione non del lavoro ma dal lavoro (nel senso capitalistico
del termine), viene meno uno degli strumenti disciplinari di controllo
sociale in mano agli attuali assetti di potere.
Tesi n. 3: Il reddito di cittadinanza é una misura di politica economica riformista e radicale e non di modificazione strutturale dell'organizzazione capitalistica, intervenendo sul lato della distribuzione e non sul lato del conflitto capitale-lavoro.
L'evoluzione dell'organizzazione economica
capitalistica si basa sulla continua metamorfosi del rapporto
di sfruttamento tra capitale e lavoro. La natura conflittuale
di tale rapporto spinge continuamente verso una sua modificazione.
Agli albori dello sviluppo del capitalismo, ancora prima e poi
in contemporanea alla rivoluzione industriale di fine '700, la
creazione di una forza-lavoro metropolitana, slegata dalle condizioni
di sussistenza agricola esistenti nella campagna, rappresentò
la premessa della formazione di un ceto proletario, necessario
per lo sviluppo di un processo di accumulazione proto-capitalistico.
La regolazione del rapporto capitale-lavoro, allora in fase di
costituzione, si basò anche su forme di distribuzione del
reddito come puro sussidio contro la fame e la miseria(12). Nel secolo
successivo, il pieno dispiegarsi del processo di accumulazione
capitalistico portò all'abolizione di qualsiasi sussidio
contro la povertà e al prevalere di una regolazione salariale
unicamente fondata sulla spietata legge delle gerarchie di mercato.
Il salario si consolidò come variabile dipendente, senza
nessun limite inferiore se non quello di garantire la semplice
riproduzione della forza-lavoro. I livelli di disoccupazione,
la dinamica demografica e le esigenze di accumulazione delle imprese
determinavano il valore del salario di sussistenza. Il risparmio
era un'attività esclusivamente "borghese" e il
finanziamento della stessa attività di accumulazione avveniva
attraverso il reimpiego dei profitti maturati (per l'appunto,
il risparmio)(13). Con l'esplodere dell'organizzazione taylorista
e fordista del XX secolo, diventa neessario per lo sviluppo stesso
delle forze capitalistiche aumentare i livelli di consumo e della
domanda aggregata. Il salario non può più essere
considerato a livello macroeconomico nazionale una semplice variabile
di costo ma diventa una delle principali componenti della domanda
e quindi della realizzazione monetaria del sovrappiù prodotto
in quantità sempre più elevate; il salario diventa
così dipendente dalle stesse modalità di funzionamento
del processo di accumulazione(14).
Oggi, il superamento dei vincoli
spaziali che limitavano lo sviluppo del processo di accumulazione
all'interno di confini nazionali o di aree sempre più strette
grazie all'introduzione delle innovazioni informatiche e nel campo
dei trasporti porta a riproporre una regolazione salariale sempre
più individualistica (come effetto della frammentazione
del mercato del lavoro) e sempre più dipendente dalle condizioni
non più dell'accumulazione (come nella fase fordista) ma
piuttosto dello stesso mercato del lavoro (con analogie preoccupanti
con la fase prefordista). Nel corso del capitalismo, quindi la
relazione salariale ha dipeso sempre dalle condizioni di produzione,
cioè dal momento in cui il conflitto capitale-lavoro si
manifesta, ma nel corso del tempo ha influenzato in maniera crescente
la fase della realizzazione monetaria dei profitti e quindi il
livello della domanda aggregata. Il reddito di cittadinanza si
inserisce in questa tendenza: in quanto reddito (e non salario)
diventa strumento di ricomposizione della domanda, modificandone
la distribuzione tra i soggetti economici che vi partecipano.
E' quindi strumento salvifico per la dinamica del processo di
accumulazione capitalistico. E non potrebbe essere altrimenti,
se pensiamo che tutti gli interventi correttivi del processo economico
capitalistico, nati da conflitti anche violenti si sono poi rilevati
forieri di nuove spinte allo sviluppo dello stesso capitalistico.
Per questi motivi, il reddito di cittadinanza é una misura
riformatrice e non rivoluzionaria (nel senso che non va a modificare
la struttura stessa su cui si fonda l'organizzazione capitalistica).
Tesi n. 4: Il reddito di cittadinanza é una proposta di politica economica parziale, non esaustiva e non in contraddizione con altre proposte di riformismo radicale (quali riduzione di orario di lavoro, sviluppo dell'autorganizzazione sociale, attivazione di lavori concreti, ecc. ).
Proprio per la sua natura di misura di politica economica di sostegno sul lato della distribuzione del reddito, il reddito di cittadinanza é strumento di intervento parziale. Esso tuttavia non può essere in contraddizione con altre misure alternative che riguardano o l'organizzazione del lavoro in un sistema di accumulazione flessibile (riduzione d'orario) o lo sviluppo di forme produttive alternative, non basate sulla maturazione di un profitto (terzo settore e autogestione/organizzazione (15), lavori concreti(16)). Anzi, esiste un rapporto di stretta complementarietà tra le diverse misure alternative, che dovrebbe essere valorizzato piuttosto che eluso o mistificato per pure ragioni di strumentalizzazione. A titolo di esempio, proviamo ad analizzare il rapporto che potrebbe proficuamente intercorrere tra due proposte che troppo spesso sono state viste come contrapposte: riduzione d'orario e reddito di cittadinanza. Entrambe le proposte fanno riferimento alle due facce di una sola medaglia: la rottura del nesso produzione e occupazione da un lato, e tra produttività e salario reale dall'altro (vedi la Tesi n. 2 per approfondimenti).
Su questo aspetto, credo sia necessaria una breve riflessione. Perché la riduzione d'orario di lavoro abbia un effetto positivo sull'occupazione, è necessario, a mio avviso, che siano verificate almeno tre condizioni:
1. La riduzione dell'orario di lavoro deve essere repentina e drastica: già oggi 35 ore sono una richiesta insufficiente, perché con una crescita della produttività intorno al 4% (nel metalmeccanico, anche del 5-6%), nel giro di due anni, la riduzione a 35 ore di lavoro non produce nuova occupazione. E' necessario quindi scendere almeno a 30-32 ore settimanali, quindi un obiettivo molto diverso da quello implicito nei contratti di solidarietà o nel contratto Wolkswagen in Germania, che trattano di riduzioni di orario e riorganizzazioni dei turni esclusivamente finalizzati al mantenimento dell'occupazione attuale, non ad un suo incremento: una logica di intervento molto diversa.
2. Se la riduzione dell'orario deve essere drastica e repentina, ne consegue che comporta dei costi. Questi costi non possono essere sopportati dal lavoratori (nel senso, minor orario, minor salario), altrimenti invece di aumentare l'occupazione si tende ad un aumento della precarizzazione del lavoro esistente a vantaggio dei profitti e della flessibilità produttiva. In secondo luogo, un'eccessiva perdita del potere d'acquisto del monte salari potrebbe ritorcersi contro lo stesso meccanismo di accumulazione. Perché se è vero che la struttura dei consumi interni non è più così vincolante come nell'epoca fordista, tuttavia è possibile ipotizzare un vincolo minimo sotto il quale la domanda interna è preferibile non cada per non compromettere i meccanismi di sviluppo dell'economia. Il potere d'acquisto dei lavoratori non può quindi diminuire infinitamente.
3. E' chiaro altrettanto, per motivi di realismo politico ed economico, che tutto il costo associabile ad una drastica riduzione dell'orario di lavoro non possa essere imputato inizialmente al sistema delle imprese; inizialmente, perché solo progressivamente, i guadagni di produttività e gli incrementi che scaturiscono da una più razionale organizzazione dei turni di lavoro che la riduzione di orario necessariamente comporta possono ragionevolmente finanziare il costo iniziale della riduzione d'orario.
Ne consegue che se la riduzione d'orario deve essere immediata, drastica e repentina, occorre che ci sua un costo iniziale. Tale costo dovrebbe essere sobbarcato dalla fiscalità sociale, cioè sul piano dei rapporti sociali e della distribuzione sociale del reddito. Al riguardo, diventa imprescindibile l'avvio di un processo di riforma fiscale, che, sulla base dell'assunto della pari trattamento dei cespiti di reddito (sia esso di lavoro, di impresa o di capitale finanziario), consenta a ciascun individuo di disporre di un assegno sociale di cittadinanza che, sommandosi, a quello percepito all'interno del meccanismo produttivo, gli permetta di godere di un reddito decente e dignitoso (vedi Tesi n. 9 per approfondimenti). In quest'ottica il reddito di cittadinanza è l'ovvio complemento, necessario per rendere praticabile la riduzione dell'orario di lavoro.
La necessità dell'introduzione di un reddito di cittadinanza non è limitata solo alla questione della riduzione dell'orario di lavoro, ma va oltre a questa problematica. Infatti, se la riduzione dell'orario di lavoro è un aspetto tutto all'interno della categoria degli occupati, il reddito di cittadinanza riveste una funzione sociale, più allargata, riferita a tutta la popolazione.
Da questo punto di vista, la prospettiva del reddito di cittadinanza risulta sicuramente la più idonea per far fronte alle modificazioni strutturali dell'accumulazione capitalistica.
Sempre in relazione all'aspetto della riduzione d'orario, troppo spesso ci si dimentica che da ormai una decina d'anni è ben presente all'interno del mercato del lavoro post-fordista la tendenza all'allungamento della giornata lavorativa, non solo all'interno del segmento degli occupati (in seguito al massiccio ricorso degli straordinari), ma soprattutto all'interno di quella nuova categoria di lavoratori autonomi o eterodiretti, figlia delle trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi anni. Tali lavoratori, essendo all'interno dei complessi rapporti di subfornitura degli attuali cicli produttivi, sono anch'essi soggetti a forme di subordinazione e gerarchie di varia intensità a seconda del grado di libertà che la propria attività professionale e/o il grado di specializzazione consente. Tuttavia, per definizione, in quanto autonomi e imprenditori di se stesso, non sono soggetti ad una regolazione dei tempi di lavoro. Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro rischia di diventare elemento di dualismo tra lavoratori formalmente con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno del medesimo modello di produzione. La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro passa proprio tramite la segmentazione e la scomposizione del mercato del lavoro.
Da questo punto di vista, la tematica del reddito di cittadinanza svolge un importante funzione strategica di elemento unificatore e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione di lavoro, proprio perché tematica non interna alla logica dell'accumulazione (vedi Tesi n. 10). Più in particolare, il reddito di cittadinanza può diventare l'obiettivo politico ed economico che non solo consente la riduzione dell'orario di lavoro ma diventa strumento di omogeneizzazione delle seguenti tre categorie di lavoro: la categoria dei disoccupati, perché con il reddito di cittadinanza, oltre a garantire loro un potere d'acquisto immediato senza necessariamente ricorrere a redditività illegali, sanno che può essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno sbocco professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari, in parte espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite un salario di cittadinanza, possono attuare una riduzione della loro attività lavorativa senza che ciò comporti necessariamente una riduzione del proprio reddito, oltre ad offrire loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta al ricatto della necessità di lavoro; quelli degli occupati dipendenti, che grazie al reddito di cittadinanza, possono ottenere una riduzione dell'orario di lavoro che comporti un miglioramento della qualità della propria vita.
Considerazioni analoghe a quelle svolte a proposito della riduzione dell'orario di lavoro, possono essere anche svolte per quanto riguarda l'attivazione di lavori concreti oppure lo sviluppo di pratiche di autorganizzazione o del terzo settore. In questo caso, infatti, la maggior libertà individuale derivante dalla disponibilità di reddito consentirebbe a più persone di poter svolgere attività non strettamente mercantile, senza essere sottoposte al vincolo selettivo imposto dalle gerarchie di mercato.
Come si vede, la tematica del reddito di cittadinanza
rappresenta un grimaldello rilevante per scardinare alcuni luoghi
comuni, presenti anche all'interno della sinistra, che hanno portato
e tuttora portano ad una supina accettazione del pensiero unico
oggi dominante. Non è poco.
Tesi n. 5: Il reddito di cittadinanza é una misura di contropotere al potere della moneta di discriminare tra proprietà dei mezzi di produzione e semplice erogazione di forza lavoro.
La trasformazione materiale delle merci ovvero la produzione manifatturiera come momento unico dell'origine del sovrappiù (a differenza della società feudale - basata sull'espropriazione agricola - e mercantile - basata sulla gerarchia degli scambi), presuppone la separazione tra capitale (mezzi di produzione) e lavoro (erogazione di lavoro) e quindi implica per sua natura uno scambio monetario di ricomposizione tra le due parti, differentemente definite (e pure su piani diversi); in altre parole, la produzione capitalistica é produzione di denaro a mezzo di merci (D-M-D') e necessita pertanto di un'anticipazione monetaria per poter avviare l'attività di trasformazione materiale delle merci (D-M) che sia in grado, successivamente nella fase di circolazione e realizzazione, di trasformarsi in un profitto monetario (M-D'). Alla funzioni di unità di conto, di scambio e di misura della ricchezza (equivalente generale), la moneta assume, per la prima volta nella storia umana, anche la funzione di moneta-credito. La disponibilità di moneta-credito, vale a dire di un finanziamento iniziale, è condizione propedeutica non per produrre sulla base di un comportamento routinario, ma per ampliare ed estendere il livello di produzione e di generazione di sovrappiù. In altre parole è moneta di nuova creazione che entra nel processo economico dinamicizzandolo e procedendo alla sua metamorfosi continua (unitamente al progresso tecnologico: da questo punto di vista, il "denaro" e le" macchine" sono i motori dello sviluppo capitalistico e della continua ridefinizione della gerarchia capitale - lavoro). La disponibilità di moneta-credito é dunque riservata a chi, detenendo privatamente i mezzi di produzione, può in modo autonomo e unilaterale (nel prezzo, nelle quantità e nelle tecniche) organizzare la produzione. La possibilità di disporre di moneta-credito segna, così, il discrimine economico (ma con tutte le implicazioni sociali che ne derivano) tra chi detiene i mezzi di produzione (gli imprenditori) e chi solo la propria forza-lavoro (i salariati).
Da un altro punto di vista - complementare - si potrebbe osservare che la moneta-credito é moneta-segno e virtuale perché il rapporto di debito e credito che comanda é scambio non solvibile (immateriale), non mediato da una merce e quindi non assimilabile allo scambio mercantile (da qui l'equivoco e la mistificazione dell'economia politica neoclassica); il rapporto di debito-credito ha come oggetto il tempo (il ponte tra presente e futuro, nelle parole di Keynes) ed una promessa di restituzione (da cui ha origine il tasso d'interesse, che, infatti, varia in funzione della rischiosità e della durata del prestito). Da qui deriva il ruolo discriminante della moneta-credito, il cui accesso é selezionato sulla base, capitalisticamente determinata, della funzione economica svolta, riducibile, direttamente o indirettamente, al fatto se si ha la proprietà dei mezzi di produzione (garanzia) oppure no.
Ne consegue che la sostanza del potere capitalistico della moneta sta nella suo essere fonte di discrimine tra capitale e lavoro, quindi nella sua funzione sociale di divisione in classi (17). Tale funzione tocca il suo apogeo nel compromesso fordista: la disponibilità di moneta-credito di nuova creazione definisce la proprietà dei mezzi di produzione, la disponibilità al lavoro garantisce la cittadinanza e il godimento dei diritti civili dei salariati. Per i salariati (dipendenti) e per i prestatori di lavoro (indipendenti), la disponibilità di moneta é comunque residuo, esito del processo lavorativo, é reddito (l'ultimo anello di trasformazione della moneta). Alla luce di queste considerazioni, diventa necessario slegare la disponibilità di moneta, cioè reddito, dalla disponibilità di lavoro. Separare reddito da lavoro significa, da questo punto di vista, disinnescare uno degli elementi portanti del potere della moneta: essere aprioristicamente disponibile solo per chi detiene la proprietà dei mezzi di produzioni, cioè per gli imprenditori. Ciò ovviamente non modifica le modalità del rapporto capitale-lavoro, in quanto non viene intaccata il potere degli imprenditore di gestire in modo unilaterale l'attività produttiva e la tecnologia, ma favorisce quel processo di liberazione degli individui dalla schiavitù del lavoro e dal ricatto del bisogno.
Il reddito di cittadinanza è, pertanto,
strumento di contropotere monetario.
Tesi n. 6: Il reddito di cittadinanza é una misura di contropotere alle odierne forme di esclusione sociale, che mira all'autonomia soggettiva fondata sulla liberazione dalla coercizione al lavoro precario, coatto e predeterminato.
Negli anni '50 e '60, il lavoro rappresentava
il passaporto principale per essere riconosciuti a tutti gli effetti
cittadini e degni di godere dei diritti civili, era cioè
la forma di inclusione sociale per eccellenza. Lo status sociale
del fordismo era mediato dal tipo di lavoro svolto e dalla mansione
attribuita. Se si accettavano le regole del potere disciplinare
a livello economico, sociale e politico, allora veniva garantita
la partecipazione al benessere economico, sulla cui base ne derivava
il posizionamento sociale. Solo coloro che non si sottoponevano
al regime disciplinare della famiglia, della scuola, della caserma
e della fabbrica, rischiavano l'esclusione sociale. Il compromesso
fordista tra capitale e lavoro, tramite il ruolo e lo sviluppo
del "welfare state", garantiva così il soddisfacimento
dei bisogni materiali primari in modo collettivo. Se l'inclusione
sociale era un fenomeno collettivo, l'esclusione era invece una
scelta individuale. La crisi dell'organizzazione fordista ed il
venire meno del compromesso sociale che ne era sotteso porta allo
svuotamento del "welfare state", al suo ridimensionamento
e alla scomparsa dei meccanismi sociali (quindi collettivi e generali)
di ammortizzamento delle disparità economiche. Il sopravvento
dell'ideologia liberista implica la sovranità dell'individuo
come unico agente in grado di provvedere alla propria inclusione
e riconoscimento sociale, indipendentemente dalle condizioni date
e di partenza. Se nel fordismo l'inclusione sociale era l'esito
compromissorio di un conflitto collettivo economico di tipo redistributivo,
nell'era dell'accumulazione flessibile essa è il frutto
di una spietata competizione individuale. La differenza sostanziale
è che oggi anche chi anela all'inclusione sociale, pur
predisponendosi a sopportare ogni livello di subordinazione gerarchica,
non sempre é in grado di raggiungere tale obiettivo. La
stessa disponibilità al lavoro non garantisce più
l'inclusione sociale: il fenomeno dei "working poor",
ovvero di coloro, che pur lavorando, rimangono al di sotto della
soglia di povertà, é un fenomeno dei nostri giorni
che sarebbe stato inconcepibile e incompatibile con le forme della
regolazione sociale dei tempi del fordismo (18). In questo contesto,
il reddito di cittadinanza rappresenta una decisa inversione di
rotta rispetto alle tendenze oggi dominanti. Si discuterà
più oltre il grado di complementarietà e/o di sostituibilità
con i servizi sociali del "welfare state" (cfr. tesi
n. 8). Qui ci preme rammentare che il reddito di cittadinanza
é strumento di inclusione sociale (e quindi di progresso
civile) per due ragioni principali: da un lato garantisce nell'immediato
le risorse materiale per consentire una vita dignitosa a tutti
e quindi risolvere, pur limitatamente, l'aspetto della sopravvivenza
primaria - non più oggetto di un intervento esterno -,
dall'altro, risolvendo, per lo meno in parte, l'aspetto della
sopravvivenza materiale (non della dipendenza culturale, economica,
religiosa, ecc.), aumenta i gradi di autonomia dal ricatto del
bisogno e quindi dalla necessità di sottostare a condizioni
lavorative e/o di procacciamento di reddito al limite della schiavitù
o illegali. Da questo punto di vista, il reddito di cittadinanza
rappresenta un'arma potenziale (non effettiva) per lo sviluppo
di conflittualità sociale e rivendicazioni economiche (vedi
Tesi n. 10).
Tesi n. 7: Il reddito di cittadinanza non ha nulla a che vedere con il salario e con le caratteristiche del processo di accumulazione (da cui il salario dipende).
Questa tesi ripropone in parte alcune considerazioni già svolte nella presentazione della tesi n. 3. Tali osservazioni si basano sulle modalità con le quali avviene la distribuzione del reddito in un'economia capitalistica. Una breve premessa é al riguardo necessaria. Già si é avuto modo di ricordare che il processo economico capitalistico può essere efficacemente descritto da una sequenza di fasi economiche che definiscono un'economia monetaria di produzione: la separazione sul mercato del lavoro tra capitale, ovvero mezzi di produzione, e lavoro, ovvero forza-lavoro, necessita di uno scambio
propedeutico tra imprese e sistema bancario che anticipi la liquidità monetaria necessaria per acquistare forza-lavoro e avviare l'attività di produzione secondo le strategie di investimento unilateralmente decise dagli imprenditori. Il prezzo della forza-lavoro, cioè il salario, viene così determinato in termini nominali prima ancora che l'attività di produzione venga svolta e prima ancora che la stessa produzione venga valorizzata nella fase finale di circolazione e realizzazione del sovrappiù. Il profitto monetario è l'esito (residuale) del processo di valorizzazione della produzione, a cui viene sottratto una quota, destinata al pagamento degli interessi maturati dal sistema creditizio sull'anticipazione monetaria che ha dato avvio a tutto il processo. Ne consegue che il salario nominale viene fissato nella fase di apertura del processo economico mentre profitto e rendita si determinano nella fase di chiusura. La logica sequenziale, intrinsecamente dinamica, della produzione capitalistica non consente quindi una remunerazione simultanea dei fattori produttivi (come invece postulano le teorie neoliberiste) . In secondo luogo, occorre considerare che tale struttura sequenziale genera asimmetrie e gerarchie tra gli stessi fattori produttivi. Chi decide le modalità della produzione (quanto, come e il prezzo a cui produrre), ovvero gli imprenditori, determina anche il valore reale della distribuzione: in altre parole, il potere d'acquisto effettivo dei fattori produttivi che concorrono alla produzione. Tale esito è frutto dei rapporti conflittuali che si generano nel mercato creditizio e del lavoro, allorché si determina il prezzo della moneta-credito (interesse monetario) e il prezzo della forza-lavoro (salario monetario), con l'aggiunta che gli imprenditori, decidendo le tecniche di produzione, determinano anche i livelli di produttività e il valore della produzione. Il prezzo finale delle merci, infatti, non é altro che il risultato composito del livello di scambio sul mercato del lavoro e della moneta e del livello di produttività esistente, sulla base del grado di concorrenza esistente nel settore in cui si opera. Il compromesso fordista tra capitale industriale e lavoro si basava essenzialmente da un lato sulla determinazione di un salario monetario che tenesse conto anche dei guadagni di produttività in cambio di quella disciplina del lavoro che consentiva per l'appunto alla produttività di crescere a saggi costanti o crescenti e dall'altro da una garanzia di un livello di domanda aggregata, tramite il sostegno del settore pubblico, tale da garantire una ripartizione del surplus monetario tra profitti e interessi da soddisfare sia gli imprenditori che i banchieri (19). Con la crisi del fordismo, tale compromesso viene meno, non solo perché viene meno il ruolo del welfare state (che del patto fordista rappresentava il garante, attutendo gli eventuali "attriti") ma soprattutto perché i guadagni di produttività non vengono più ripartiti tra i fattori della produzione. Ciò dipende in buona parte dalle trasformazioni tecnologiche (resesi necessarie per recuperare la profittabilità del sistema produttivo e terziario alla fine degli anni '70) e dal peso crescente della cd. produzione immateriale: con la messa in opera dell'"intellettualità di massa" e il diffondersi delle tecnologie di linguaggio che ridefiniscono i rapporti tra progettazione, esecuzione e commercializzazione della produzione (potremmo dire tra lavoro manuale e lavoro intellettuale), la produttività del lavoro, sganciata dalla materialità della produzione, diventa sempre più difficile da misurare, diventa cioè "produttività sociale" (20). In tale contesto, la separazione tra salario e produttività é un dato di fatto. Se non é possibile determinare il salario sulla base della crescita di una produttività misurabile in termini individuali, si fa sempre più pressante l'esigenza che la distribuzione dei guadagni della produttività sociale avvenga per l'appunto a livello sociale. Parlare di distribuzione sociale del reddito significa allora ridistribuire il prodotto sociale simultaneamente tra i fattori produttivi, nella fase logica di chiusura del processo economico, indipendentemente dal livello del salario monetario. Reddito socialmente distribuito, ovvero reddito di cittadinanza, é quindi logicamente incompatibile con la nozione di salario.
Proprio sulla base della rettifica o meno
di questa differenza, sono oggi sul tappeto tre
idee di distribuzione sociale del reddito.
In primo luogo, occorre considerare le idee
di reddito di cittadinanza che si presentano funzionali alla flessibilità
del neo-modello di accumulazione. Esse nascono dalla necessità
di dare una sorta di indennizzo - limitato e temporaneo - perché
la struttura economica non garantisce un lavoro a tutti. Tale
esigenza - a partire dagli anni '50 - ha trovato due modalità
di esplicazione fra loro molto diverse seppur omogenee nel comprendere
le esigenze di accumulazione a seconda della fase economica di
riferimento: fordista o post-fordista.
La prima fa riferimento all'introduzione di
un salario minimo garantito tramite la proposta di un'"imposizione
negativa sul reddito": essa è funzionale al contenimento
dello sviluppo del Welfare State ma nello stesso tempo contempla
il perseguimento di un consumo di massa compatibile con la produzione
in serie all'interno del modello fordista di accumulazione. Il
salario minimo (che possiamo assimilare ad una sorta di indennità
di disoccupazione), essendo in questo caso complementare all'attività
lavorativa e di consumo, non può essere universale né
illimitato nel tempo, ma esclusivamente rivolto a chi non ha un
reddito minimo da lavoro, ovvero ai disoccupati. E' sulla discordanza
relativa a questo aspetto che la versione neo-keynesiana del reddito
di cittadinanza degli anni Novanta si differenzia dai precedenti
storici (si veda la proposta della Commissione Onofri sulla riforma
dello Stato Sociale e, in parte fatta propria, dal governo Prodi) (21).
Sulla base del riconoscimento della fine del modello fordista
e del fatto che la flessibilità e la precarizzazione dell'attività
lavorativa non sempre consentono un reddito stabile e continuo
per tutti, si propone un sostegno monetario, indipendentemente
dalla condizione professionale vigente, come palliativo alla carenze
strutturali del nuovo modello di accumulazione flessibile. In
questo caso è più pertinente parlare di reddito
minimo garantito piuttosto che di salario minimo garantito,
perché le nuove e future condizioni del mercato del lavoro
sanciscono maggiormente la differenza tra reddito da un lato e
lavoro dall'altro. Tale reddito minimo verrebbe, non a caso, devoluto
solo a chi è in età lavorativa e con un ammontare
che varia in funzione dell'età stessa, con la clausola
che il reddito di cui si disponga sia inferiore ad una determinata
soglia ritenuta di povertà (22). In questo caso, la condizione
professionale (in particolare se si è disoccupati o no)
non è rilevante (23).
Con la nozione di reddito di cittadinanza, invece, si intende
un intervento universale e illimitato nel tempo. Si tratta quindi
di una nozione più allargata che interessata la società
nel suo insieme e non solo coloro che si trovano in una situazione
economicamente sfavorevole (vedi Tesi n. 1). A tale riguardo,
si può parlare di "dividendo sociale" (24), intendendo
con questo che esso è il frutto di una produzione sociale,
che a livello macroeconomico, non prevede trattamenti differenziati.
Tesi n. 8: Il reddito di cittadinanza non
é sostitutivo allo stato sociale, ma ne é complementare.
Un'obiezione molto comune al reddito di cittadinanza
(anche all'interno delle forze della sinistra radicale) consiste
nel ritenere che esista sostituibilità perfetta o quasi
tra lo stesso reddito di cittadinanza ed erogazione di servizi
sociali, favorendo in tal modo un approccio di tipo individualista
a scapito di istanze di solidarietà collettiva e, implicitamente,
uno smantellamento del "welfare state" tramite la monetizzazione
dei servizi sociali di base.
La risposta può essere articolata su
due livelli: teorico e pratico.
A livello teorico, é necessario osservare
che, nel paradigma fordista, i servizi sociali venivano e vengono
erogati sulla base di una contribuzione corrispondente alla prestazione
lavorativa lungo tutto l'arco della vita lavorativa. I servizi
sociali sono quindi una componente del salario dei lavoratori,
é salario differito o di vita, oggetto dello scambio tra
mondo del lavoro e l'organizzazione sociale (stato). In altri
termini, i servizi sociali non sono reddito, cioè potere
d'acquisto di merci reali e/o potenzialità di risparmio,
bensì parte integrante della remunerazione del lavoro.
Al contrario, quando si parla di reddito di cittadinanza si intende
far riferimento al potere d'acquisto e alla domanda di beni e
servizi solvibili ad esso associabili. Come già
ampiamente ricordato (cfr. Tesi n. 3 e Tesi n. 7), esiste una
differenza "stellare" tra reddito di cittadinanza e
salario di cittadinanza nelle sue diverse forme (minimo, garantito,
temporaneo, ecc.). Il primo è indipendente da qualsiasi
prestazione lavorativa e relativa contribuzione sociale e/o fiscale
e quindi non é assimilabile al concetto di "lavoro";
il secondo, invece, dipende in modo subordinata dall'esistenza
in qualche modo di una prestazione lavorativa nel corso della
durata complessiva dell'arco di vita.
Sulla base di queste osservazioni, l'erogazione
dei servizi sociali e il reddito di cittadinanza non possono essere
sostituti tra loro, bensì complementari. I primi hanno
a che fare con la remunerazione del lavoro, il secondo con il
potere d'acquisto di beni e servizi solvibili (cioè mercificabili,
dotati di un prezzo e contrattati sulla base della proprietà
privata).
Occorre tuttavia essere realisti e ricordare
che sicuramente nel momento stesso in cui si propone il reddito
di cittadinanza si chiederà come contropartita la monetizzazione
dei servizi sociali e quindi la loro solvibilità all'interno
del mercato privato. Tuttavia, il processo di privatizzazione
dei servizi sociali si sta realizzando indipendentemente da qualsiasi
richiesta di reddito di cittadinanza. La possibilità di
opporsi a tale dinamica dipende dal potenziale di resistenza e
di conflittualità che le forze antagoniste sono in grado
di mettere in campo e non dalla messa sul tappeto della problematica
di una redistribuzione sociale del reddito (intendendo con ciò
il reddito di cittadinanza). Le politiche sociali della commissione
Onofri vanno proprio in questa direzione: privatizzazione dei
servizi sociali e, come contropartita, introduzione di una sorta
di salario minimo a scalare nel tempo, limitato per fasce di età
e solo per coloro che non arrivano a disporre di un certo livello
di reddito pur essendo parte integrante della forza-lavoro (una
sorta di sussidio di disoccupazione più che un salario
minimo). Se esiste una capacità di resistenza contro la
proposta di riforma della commissione Onofri, allora esisterà
anche per impedire che la proposta del reddito di cittadinanza
sia sostitutiva all'erogazione dei servizi sociali primari (istruzione,
salute, casa, giustizia, ecc.). Purtroppo, il problema sta molto
più a monte del reddito di cittadinanza.
Infatti, la capacità di organizzare
capacità conflittuale si scontra la tendenza oggi in atto
del predominio della contrattazione individuale sulla contrattazione
collettiva. Si tratta di un processo di individualizzazione dei
rapporti sociali ed economici (americanizzazione della società)
che può avvenire grazie a:
* flessibilizzazione dei rapporti di produzione;
* scomposizione e frammentazione del mondo
del lavoro e delle tipologie del lavoro;
* perdita di rilevanza del lavoro salariato
e, parimenti, intensificazione della subordinazione del lavoro
al capitale anche nelle mansioni più propriamente definite
intellettuali nel fordismo (taylorizzazione del "general
intellect").
Si possono sviluppare diversi momenti di conflittualità,
ma nessuno di questi é in grado di inceppare il meccanismo
di accumulazione. E' necessario un processo di ricomposizione
delle diverse soggettività del lavoro, oggi scomposte e
frammentate e troppo spesso in lotta fra loro. Tale ricomposizione
non può basarsi solo sulle singole condizioni di lavoro,
perché troppo diverse e non riconducibili ad un modello
di organizzazione produttiva unico con una figura (soggettività)
lavorativa dominante. In secondo luogo, il ricatto del bisogno
e la subalternità diretta del lavoro che non viene mediata
da forme di rappresentatività intermedia (crisi del sindacato)
soprattutto in un ambito di contrattazione individuale, non consente
che generici e demagogici richiami alla solidarietà di
classe (quale classe, o meglio quale segmento di classe?) possano
essere ascoltati. Un processo di ricomposizione sociale in questa
fase così magmatica può avvenire lungo coordinate
esterne alle modalità del processo produttivo ma che comunque
lo delimitano e ne sono conseguenti: il reddito ed il tempo. Permettere
una maggior disponibilità di reddito in un ambito di contrattazione
individuale porta ad un maggior potere contrattuale perché
meno dipendenti dal ricatto del bisogno e quindi più possibilità
di incidere almeno parzialmente sulle proprie condizioni di lavoro
(in primo luogo, il tempo di lavoro).
La questione viene dunque rovesciata. Non
é il reddito di cittadinanza a favorire il processo di
"individualizzazione" dei rapporti sociali e di produzione,
bensì l'opposto. La possibilità di disporre di un
reddito maturato al di fuori dei rapporti di lavoro e quindi sganciato
dal "ricatto del bisogno" potrebbe, almeno da un punto
di vista teorico, favorire lo sviluppo di forme di resistenza
di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento
di ricomposizione sociale delle diverse soggettività oggi
sparpagliate e impossibilitate a tradurre in lotta e conflitto
sociale le proprie frustrazioni e alienazioni lavorative (si veda
la Tesi n. 10 per ulteriori approfondimenti).
Infine occorre ricordare, che il reddito di
cittadinanza può assumere diverse forme. Infatti, può
essere erogato in modo esclusivamente monetario, se ciò
non implica l'eliminazione dei servizi sociali primari (casa,
salute, istruzione, trasporto, energia, ecc.), oppure, in parte,
sotto forma di servizi reali supplementari (escludendo quelli
primari), che consentono l'ottenimento in modo gratuito degli
stessi servizi primari. In tal propositi, sarebbe auspicabile
la possibilità di scelta in modo da rendere il reddito
di cittadinanza più consone a esigenze individuali fra
loro diverse.
A livello pratico, l'obiezione fondamentale
riguarda le forme di finanziamento di un processo di redistribuzione
sociale del reddito che sia complementare e parallelo al mantenimento
del principio del "welfare state". Su questo aspetto
si rimanda alla Tesi n. 9.
L'attuale organizzazione sociale post-fordista,
ovvero di accumulazione flessibile, é incentrata da un
lato su un paradigma tecno-lavorativo che privilegia l'individualizzazione
dei rapporti di lavoro, lo sviluppo di produzione immateriale
come componente sempre più essenziale di generazione del
sovrappiù tramite forti guadagni di produttività
sociale non ridistribuiti (o meglio trattenuti dai soli profitti
e rendite), dall'altro su livelli di incertezza crescenti con
orizzonti temporali di decisione molto brevi e mutevoli nonché
di strumenti di valorizzazione che si muovono su scala mondiale,
al di fuori degli stretti ambiti nazionali. In altre parole, sul
piano dei rapporti di lavoro si assiste ad una frammentazione
e scomposizione crescente che porta ad una precarizzazione dell'attvità
lavorativa stessa e a ridefinire i rapporti tra lavoro salariato,
lavoro a prestazione e lavoro coatto, mentre sul piano della produzione
e del suo finanziamento si assiste a processi di concentrazione
e di omogeneizzazione all'interno di macroaree sovranazionali
strategiche, grazie ai nuovi strumenti finanziari e allo sviluppo
del mercato internazionale dei capitali.
In un simile contesto, la possibilità
di attivare politiche economiche nazionali, soprattutto dal lato
fiscale (dal momento che dal lato monetario si é già
verificata un'espropriazione dell'autonomia delle singole banche
centrali, sempre più subordinate o ad accordi sovranazionali
- come quello di Maastricht - o agli organismi internazionali
che incidono sui mercati finanziari), risulta molto ridotta. Ciò
non toglie che proprio l'esigenza di armonizzare realtà
fiscali differenti in un contesto come quello disegnato dall'Unione
Monetaria Europea possa risultare particolarmente utile per la
specifica realtà italiana.
In primo luogo è necessario fare alcune
analisi quantitative per aver ben in chiaro l'entità della
massa monetaria necessaria per avviare una politica di reddito
di cittadinanza.. A tal fine immaginiamo di trovarci di fronte
a tre scenari, supponendo (punto tutto da discutere ancora e che
richiederebbe un'analisi a parte) che l'entità del reddito
di cittadinanza corrisponda a L. 1.000.000 al mese (per un totale
di 12 milioni all'anno). Il primo è quello che fa riferimento
all'analisi teorica di queste note, ovvero l'idea di un reddito
di cittadinanza uguale per tutti, dato a tutti coloro che hanno
più di 15 anni di età, e la cui introduzione è
immediata e non graduale nel tempo.(vedi Tesi n. 1). In questa
prospettiva, gli ultimi dati statistici, relativi alla fine del
1997, ci dicono che la popolazione italiana con un'età
superiore ai 15 anni ammonta a circa 48 milioni di persone. Per
garantire a tutti costoro un reddito garantito di un milione di
lire al mese, lo stato dovrebbe avere a disposizione 576.000 miliardi
di lire, vale a dire il 29,5% del Pil prodotto nello stesso anno
oppure il 60,5% del totale delle entrate dell'Amministrazione
pubblica. Il secondo scenario che ipotizziamo è un'idea
di reddito di cittadinanza, che all'inizio, non contempla tutto
coloro che già usufruiscono un reddito pensionistico superiore
a due milioni mensili. Secondo i dati del Ministero del Tesoro,
il numero delle pensioni al 31.12.1996 era di 9.962.072 (sono
circa 9.839.000 coloro che hanno più di 65 anni di età)
per una spesa totale di L.105.000 miliardi circa, per un'erogazione
media di circa L. 1.054.000 al mese. Secondo i dati Inps, il
36,8% delle pensioni è superiore al milione di lire mensili,
per un totale di circa 3,670 milioni di persone. Se escludiamo
tale quota, il reddito di cittadinanza dovrebbe riguardare 45,1
milioni di individui per un ammontare di spesa pari a L. 541.000
miliardi. Infine, sempre come scenario ipotetico, possiamo immaginare
un'introduzione graduale del reddito di cittadinanza inizialmente
riservata per tutti coloro che hanno un reddito annuo inferiore
ai 50 milioni di lire lordi, per poi estenderlo negli seguenti
a tutti. Si tratta di una quota di popolazione intorno al 70%
(dato ancora da verificare), il che ridurrebbe il numero dei beneficiari
del reddito di cittadinanza a 34,1 milioni di persone, per una
spesa complessiva di L. 409.000 miliardi.
Tre sono infatti gli aspetti che ci interessano
analizzare ai fini della questione del finanziamento del reddito
di cittadinanza.
1. La proposta di reddito di cittadinanza
si inserisce in un processo di riforma fiscale dello stato, basato
sui seguenti punti principali:
Sul lato delle spese é necessario procedere
ad una semplificazione del bilancio pubblico: mantenimento ed
allargamento delle spese sociali, riduzione delle spese militari
e di difesa e di ordine pubblico (l'unica voce in forte crescita
negli ultimi anni), eliminazione dei sostegni ed agevolazioni
economiche alle imprese. Occorre tenere presente che una seria
politica di riduzione della disoccupazione (tramite riduzione
d'orario) e una politica di sostegno della domanda (reddito di
cittadinanza), pur rivelandosi strumenti di riformismo radicale,
hanno un duplice effetto sul bilancio pubblico: riduzione degli
oneri della disoccupazione (soprattutto indiretti, in termini
di cassa integrazione, lista di mobilità, prepensionamenti,
agevolazioni alle imprese - cfr. rottamazione - ecc.), oggi ammontanti
a circa 24.000 miliardi all'anno in modo diretto e a circa 40.000
miliardi in modo indiretto (prepensionamenti calcolati sull'arco
della durata media di vita, ecc.) e quindi riduzione dei costi
del settore pubblico (gli unici costi che i padroni si guardano
bene dal citare), da un lato, e incremento delle entrate fiscali,
in seguito all'accresciuta domanda interna, dall'altro (un aumento
di un punto percentuale di domanda, significa un aumento dell'1,3%
del Pil - a parità di condizioni - e un incremento fiscale
dello 0,6%, pari a circa 15.000 miliardi all'anno). Infine, occorre
ricordare che la spesa assistenziale pubblica in Italia alla fine
del 1996 ammontava a 30.857 miliardi di lire, costituita per il
61,8% da trasferimenti a nuclei meritevoli (invalidi, cechi, mutilati,
ecc.), per il 20% da trasferimenti in denaro e natura per la generalità
dei poveri.
2. E' necessario riprendere la questione della
redistribuzione dei guadagni di produttività, indotti dalle
trasformazioni tecnologiche e oggi ad esclusivo appannaggio del
profitto e della rendita e non del lavoro. Al riguardo occorre
considerare che i tassi di crescita della produttività
sono oggi di gran lunga molto più elevati di quanto le
statistiche non dicano. Infatti, le statistiche ufficiali misurano
i guadagni di produttività in termini necessariamente materiali
(numero di pezzi, ore lavorate, ecc.) senza tenere conto che a
tale produttività occorre aggiungere un'altra produttività
- di tipo immateriale - indotta dall'attività intellettuale
applicata alla produzione. E' tale produttività altra che
in molte produzione costituisce una quota rilevante del valore
aggiunto, che spesso non viene presa in considerazione. Ed é
tale valore aggiunto che deve costituire la base imponibile dal
quale detrarre i fondi per il finanziamento del reddito di cittadinanza..
Se la quota dell'1% sulla produzione dei beni e servizi destinabili
alla vendita venisse devoluta per finanziare il reddito di cittadinanza,
verrebbe messa a disposizione una cifra. pari, a fine 1997, a
circa 20.000 miliardi di lire.
TAB. 1: COSTI E FINANZIAMENTO DI UNA POLITICA
DI REDDITO DI CITTADINANZA (IN MILIARDI DI LIRE)
Nota: Scenario 1: R.C. di L. 12 milioni annui a tutti
coloro con più di 15 anni;
Scenario n. 2: R.C. di L. 12 milioni annui
a tutti coloro con più di 15 anni, escluso coloro che godono
di pensioni superiori ai 2 milioni;
Scenario n. 3: R.C. di L. 12 milioni annui
a tutti coloro con più di 15 anni ma con reddito individuale
inferiore ai 50 milioni lordi annui.
3. Infine occorre ricordare che in un contesto di accresciuta
incertezza e instabilità economica e finanziaria l'esistenza
di un reddito di cittadinanza garantisce maggior stabilità
dal lato della domanda, favorendo una continuità nell'attività
di consumo privato,
permettendo così una programmazione a più lungo
termine delle scelte di investimento delle imprese e, in ultima
analisi, un aumento delle entrate fiscali.
Sommando, in conclusione, tutte le fonti di finanziamento (al
netto di qualunque modifica delle aliquote della tassazione ma
con l'aggiunto della Tobin-tax con aliquote che vanno dallo 0.01%
allo 0,05% e la tassazione dell'1% della produttività),
si avrebbe a disposizione una cifra che può variare dai
237.000 ai 610.000 miliardi (vedi Tab. 1). Credo che rappresenti
nella pratica una base più che consistente per ragionare
di reddito di cittadinanza.
Tesi n. 10: Il reddito di cittadinanza
é strumento di ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale
in presenza di contrattazione individuale.
Se nel processo di produzione fordista, l'omogeneizzazione
della forza-lavoro era una necessità per lo sfruttamento
delle economie statiche di scala e un effetto dell'adozione di
tecnologie ripetitive meccaniche, le forme della rappresentanza
nascevano direttamente dall'analisi delle condizioni soggettive
di lavoro. La soggettività operaia del fordismo
- così come è stata analizzata dai Quaderni Rossi
- era tutta contenuta all'interno del rapporto uomo-macchina,
esemplificato dalla linea di montaggio. Tale rapporto determinava
in subordine le condizioni di vita e di riproduzione della forza-lavoro.
Nel paradigma dell'accumulazione flessibile, non è possibile
individuare un'unica soggettività operaia, bensì
una pluralità di soggettività, a cui
corrispondono stilemi e modelli di comportamento non massificabili.
Il processo di ricomposizione sociale non può quindi basarsi
esclusivamente sulle condizioni di lavoro soggettive. Paradossalmente,
nel paradigma dell'accumulazione flessibile, i livelli di subordinazione
e di intensificazione dello sfruttamento (sia in termini di tempo
di lavoro che in termini di remunerazione del lavoro) sono maggiori
e più pervasivi di quelli che operavano nella logica fordista,
ma nello stesso tempo più diversificati e indiretti (28). In
un simile contesto un processo di ricomposizione di queste diverse
soggettività può quindi verificarsi solo partendo
da aspetti che non siano direttamente riconducibili alle diverse
esperienze di lavoro. In alte parole, il comune denominatore che
possa legare insieme realtà soggettive di lavoro fra loro
divergenti e spesso in contrapposizione deve far riferimento a
situazioni soggettive esterne all'ambito lavorativo e non riducibili
ad un momento puramente corporativo.
Nel paradigma dell'accumulazione flessibile,
due sono i gli aspetti che esulano dalle condizioni soggettive
della propria attività lavorativa ma che ne dipendono in
modo diretto: il reddito, da un lato e il controllo sul
proprio tempo di lavoro, dall'altro. Questi due aspetti
sono trasversali alle diverse tipologie di lavoro oggi esistenti
(si tratti di lavoro autonomo o lavoro dipendente) in quanto figlie
del processo di flessibilizzazione del meccanismo di accumulazione:
lo sganciamento della remunerazione del lavoro dai guadagni di
produttività e la rottura del nesso produzione-occupazione
(con conseguente incremento dei livelli di disoccupazione). Questi
due aspetti si traducono nella pratica politica quotidiana nella
richiesta di una distribuzione sociale del reddito e di
una riduzione dell'orario di lavoro. Si tratta di due aspetti
fra loro complementari e imprescindibili l'uno dall'altro, nel
senso che l'esistenza di una distribuzione sociale del reddito
(reddito di cittadinanza) può consentire una riduzione
dell'orario di lavoro a parità di remunerazione senza che
i costi ad essa associati ricadendo sulla fiscalità generale
siano imputabili ad unico soggetto economico (imprese, lavoratori,
ecc.) (29). In particolare il reddito di cittadinanza appare come uno
strumento trasversale di ricomposizione sociale del lavoro assai
più generale di quanto non appaia la riduzione dell'orario
di lavoro come forma di controllo del proprio tempo di vita. Infatti,
se la riduzione dell'orario di lavoro è un aspetto tutto
all'interno della categoria degli occupati, il reddito di cittadinanza
riveste una funzione sociale, più allargata, riferita a
tutta la popolazione. Al riguardo occorre notare che da ormai
una decina d'anni è ben presente all'interno del mercato
del lavoro flessibile la tendenza all'allungamento della giornata
lavorativa, non solo all'interno del segmento degli occupati dipendenti
(in seguito al massiccio ricorso degli straordinari), ma soprattutto
all'interno di della categoria dei lavoratori autonomi eterodiretti (30).
Tali lavoratori, per definizione, in quanto autonomi e imprenditori
di se stessi, non sono soggetti ad una regolazione dei tempi di
lavoro. Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro
rischia di diventare elemento di dualismo tra lavoratori formalmente
con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno
del medesimo modello di produzione. La flessibilizzazione e la
precarizzazione del lavoro passa proprio tramite la segmentazione
e la scomposizione del mercato del lavoro. Da questo punto di
vista, la tematica del reddito di cittadinanza può
svolgere un importante funzione strategica di elemento unificatore
e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione
di lavoro, proprio perchè tematica non interna alla logica
dell'accumulazione. Più in particolare, il reddito di cittadinanza
può diventare l'obiettivo politico ed economico che non
solo consente la riduzione dell'orario di lavoro ma diventa strumento
di omogeneizzazione delle seguenti tre categorie di lavoro: la
categoria dei disoccupati, perché con il reddito di cittadinanza,
oltre a garantire loro un potere d'acquisto immediato senza necessariamente
ricorrere a redditività illegali, sanno che può
essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno sbocco
professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari,
in parte espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite
un reddito di cittadinanza, possono attuare una riduzione della
loro attività lavorativa senza che ciò comporti
necessariamente una riduzione del proprio reddito, oltre ad offrire
loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta al
ricatto della necessità di lavoro; quella degli occupati
dipendenti, che possono ottenere una riduzione dell'orario di
lavoro che comporti un miglioramento della qualità della
propria vita. Come si vede, la tematica del reddito di cittadinanza
rappresenta un potente fattore di ricomposizione sociale assimilabile
al fattore dell'identità territoriale per
alcune tipologie di lavoro del Nord-Italia.
Il diffondersi del linguaggio come strumento
di produzione e la diffusione di elementi immateriali nel processo
lavorativo ridefinisce totalmente i tradizionali rapporti tra
lavoro manuale e lavoro intellettuale, svuotando questi concetti
di molta parte del loro significato storico, indipendentemente
dalla forma di erogazione della prestazione lavorativa (autonoma
o dipendente). La meccanizzazione dell'attività intellettuale,
che si manifesta tramite una sua crescente precarizzazione da
un lato e nuove forme di elitismo corporativo (vedi istruzione
universitaria) dall'altro, pone come imprescindibile (altra condizione
preliminare per discutere di trasformazioni sociali) la questione
culturale come problema sociale. Il decrescente livello culturale
medio è infatti un utile strumento per la costituzione
di una sorta di dittatura dell'informazione e dello stereotipo.
Senza entrare nel merito dell'argomento, che richiederebbe ben
altro spazio, è sufficiente notare che le condizioni di
flessibilità e precariato lavorativo imposte nella maggior
parte dei casi impedisce qualsiasi processo di presa di coscienza
e di analisi delle proprie condizioni soggettive individuali.
Lo sviluppo della contrattazione individuale al posto della contrattazione
collettiva non consente all'interno di una produzione diffusa
sul territorio e non in unico luogo la percezione della propria
condizione soggettiva. Il reddito di cittadinanza può svolgere
anche su questo versamento un ruolo decisivo di collettore di
coscienze.
Da un punto di vista teorico, dunque, è
possibile pensare a strumenti di ricomposizione sociale che si
esplichino anche sul piano dei diversi conflitti individuali o
settoriali. Tuttavia ciò non scioglie la contraddizione
delle modalità politiche attraverso cui il conflitto (se
di ciò si tratta) si possa esplicare sul piano pratico
ed effettivo. Ad esempio, nel contesto del paradigma dell'accumulazione
flessibile, forme di conflitto uniformi ed omogenee come quelle
rappresentate dallo sciopero, vedono diminuire la propria incisività,
se non sono strettamente riferite ad unica tipologia di lavoro,
sia a livello settoriale che di mansione. Appena lo sciopero diventa
uno strumento di conflitto più generale, tende a perdere
di efficacia, tanto più il contesto economico è
frammentato e scomposto (31). Ammesso (ma non concesso) che fattori
di ricomposizione trasversale delle soggettività e delle
mentalità dei diversi segmenti del lavoro (soprattutto
autonomo) possano avere luogo sulla base delle parole d'ordine
del reddito e del controllo del tempo, rimane del tutto irrisolto
il problema della definizione sia del soggetto politico che fa
pone le richieste che del soggetto politico che dovrebbe accoglierle.
Nella logica della rappresentanza fordista, si tratterebbe da
un lato di individuare una forma di sindacato e/o di associazione
e dall'altro di ripristinare il ruolo dello stato come luogo di
attuazione autonoma delle politiche fiscali necessarie per l'introduzione
dell'eventuale reddito di cittadinanza (32). Tuttavia, riproporre
forme di rappresentanza superate dalla dinamica strutturale dei
processi produttivi sarebbe, oltre che contraddittorio, foriero
di illusioni e di confusione. Di deve però riconoscere
che al momento non si intravedono nuovi modelli di rappresentanza
in grado di cogliere i molteplici aspetti del mondo del lavoro
e di farsi portavoce delle diverse istanze oggi presenti. Un aiuto
in tal senso potrebbe essere fornito non dalla creazione di nuove
forme di rappresentanza, bensì dalla costituzione di luoghi
fisici e liberati di incontro delle diversificate esperienze lavorative.
Dai Centri Sociali Autogestiti alle associazioni negli ultimi
anni si è assistito ad un fiorire di iniziative e di di
strutture aggreganti fondate sul volontariato o su forme di mutuo
soccorso (33). E' questa la sfida che rimane ancora aperta, nella quale
sono riposte le sempre più incessanti domanda di cambiamento
e alla quale non siamo finora in grado di offrire una risposta
soddisfacente.
Note
1. Per una veloce carrellata di dati, si rimanda all'articolo
di J.Vincour, su International Herald Tribune del 15 e 16 ottobre 1997.
La fonte, insospettabile, afferma che "a proposito di realtà scomode, in maggio
(del 1997) l'Eurostat ha reso noto che (al 1993 ndr.) 57 milioni di europei, il 17%
della popolazione dell'Unione Europea, vive in condizioni di povertà.
Negli Stati Uniti i poveri sono il 13,7%. In Francia le famiglie povere sono
il 16% e in Germania il 13%, il 29% in Portogallo e il 24% in Grecia (in Italia, il dato
è del 18%, ndr.). All'agosto 1997, secondo le stime ufficiali, i disoccupati dell'Ue
erano 17,9 milioni. Forse perché i dati Eurostat si riferiscono al 1993 (…), o perché
i governi si sentono poco responsabili per cifre di quattro anni fa, fatto sta che
la pubblicazione delle statistiche dell'Eurostat ha prodotto pochissima indignazione
e scarse reazioni politiche. Oggi l'orgoglio con cui i paesi europei sono convinti
di aver smussato per sempre le spigolosità del capitalismo, e di essere veramente
riusciti a distribuire la ricchezza nazionale, sembra più che mai un'illusione" (tratto
dall'articolo: Poverty grows Quietly Along With Wealth, trad. di B.Tortorella).
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2. Contro il pensiero unico, si veda i periodici scritti
di I. Ramonet su "Le Monde Diplomatique". Back
3. Si ricordano qui solo i principali testi: in Francia, tra i molti, si vedano,
oltre agli articoli su Futur Anterieur, gli ultimi testi di A.Gorz, Misere du present, richesse du
possible, Galilee, 1997 e di R. Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris,
1996; in Italia, gli scritti sul General Intellect (fra i tanti, M.Lazzarato, Lavoro immateriale,
OmbreCorte, Verona, 1997 e M.Hardt-T.Negri, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, Roma, 1996),
sul lavoro autonomo di II° generazione (S.Bologna-A.Fumagalli, Il lavoro autonomo di II°
generazione, Feltrinelli, Milano, 1997), sulle mutazioni sociali e finanziarie (C.Marazzi, Il posto
dei Calzini, Casagrande, Bellinzona, 1994 e Il denaro va, Bollati Boringhieri, Torino, 1998).
Occorre infine ricordare le riviste che maggiormente trattano di questi argomenti nell'area
dell'antagonismo sociale, (Altreragioni, Derive&Approdi, Futuro Anteriore, Intermarx, ecc.)
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4. Su questo tema, mi permetto di rimandare a A. Fumagalli,
Pensiero economico, accumulazione flessibile e reddito di cittadinanza, in Aa.Vv.,
La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma 1997.
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5. Al fine di essere il più possibile espliciti, è necessario precisare
che anche la famiglia Agnelli dovrebbe godere del reddito di cittadinanza.
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6. Per un'analisi più approfondita, si rimanda a B. Coriat,
L'atelier et le robot, Christian Bourgois, Paris, 1994.
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7.
Su questo tema, credo che sia ancora illuminante il saggio scritto quasi 60 anni fa, da M.Kalecki,
Gli aspetti politici della piena occupazione, 1939.
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8.
In effetti, in Italia, l'attuale politica economica perseguita dal governo di centro-sinistra
con l'appoggio del sindacato confederale, denominata "riformista", non porta altro che alla totale
subordinazione alle esigenze di compatibilità economiche del capitale stesso
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9.
E' questa ad esempio la critica fatta da G.Mazzetti, Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri,
Torino, 1996.
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10.
Al riguardo, si rimanda alle pagine introduttive dell'ultimo saggio di A.Gorz, Misères du prèsent, richesse du possible, cit.
Back
11.
Il riferimento immediato è al genero di Marx, P.Lafargue,
Il diritto all'ozio, 1887.
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12.
Un esempio, in tal senso, è rappresentato dalle cd. "poor laws"
inglesi della seconda metà del ‘700. Per un approfondimento, si rimanda a
A. Fumagalli, Pensiero economico, accumulazione flessibile ...., cit.
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13.
La destinazione dei profitti a attività di investimento piuttosto che
all’acquisto di beni di lusso o di consumo ha avuto un ruolo molto
importante nel secolo scorso per finanziare il processo di accumulazione,
sino al punto di far ritenere a livello teorico che è il risparmio a
generare l’investimento. Tale credenza, ancora oggi al centro
dell’insegnamento accademico in quasi tutte le università occidentali, era
stata in modo definitivo confutata da Keynes nella Teoria Generale.
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14.
Il riferimento è alla regola d’oro della distribuzione fordista che
lega la dinamica del salario reale a quella della produttività, ovvero
tecnologia e domanda di beni.
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15.
Su questa opzione alternativa, si veda M.Revelli, La sinistra
sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Back
16.
Su questo punto e sulla definizione di lavori concreti, si rimanda a
G.Lunghini, L’economia dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
Back
17.
Su questa tematica, si veda K.Marx, Lineamenti di critica
all’economia politica (Grundrisse), in particolare quaderno 2.
Back
18.
Il fenomeno dei working poor nasce negli Usa di Reagan nel corso
degli anni ‘80. Oggi si sta diffondendo anche in Europa. In Italia, le
ultime statistiche ci dicono che le famiglie al di sotto della soglia di
povertà (600.000 lire pro capite, meno della metà del reddito medio)
ammontano a 2.245.000. L’aumento della povertà è particolarmente elevato
tra i lavoratori dipendenti che da una quota dell’8,4% del 1996 sono
passati al 9,7% del 1997. Nella stessa direzione va l’aumento della povertà
tra i giovani capofamiglia fino a 35 anni: dal 10,1% del 1996 all’11% del
1997. Al riguardo si veda G.Procacci, La cittadinanza sociale di fronte
alla crisi del welfare, mimeo e Commissione Povertà, Rapporto 1997.
Back
19.
Sull’evoluzione dei rapporti tra sistema bancario e capitale
industriale agli albori del fordismo, ancora illuminante è il contributo di
Hilferding.
Back
20.
Su tali argomenti, vedi C. Marazzi, E il denaro va, cit., pagg.
98-103
Back
21.
Per una critica alla proposta Onofri e all’attuale momento di
sperimentazione di un reddito minimo ad alcune famiglie "povere" di alcuni
comuni italiani, si rimanda a G. Procacci, La cittadinanza sociale di
fronte alla crisi del welfare, mimeo. Scrive G. Procacci: "La
sperimentazione che la ministra della solidarietà sociale ha presentato
alle Regioni il 30 luglio 1998 riguarda 42 comuni, di cui solo 13 sono
capoluoghi di provincia: .... a cinquantamila famiglie verrà corrisposto
un reddito mensile di L. 500.000 (6 milioni annui), contro l’impegno in
precisi programmi di lavoro sociale, che i comuni dovranno presentare al
ministero entro il 30 ottobre 1998". Ricordiamo che la soglia di povertà
definita dall’Istat è di L. 600.000 pro capite. Si tratta quindi di un
reddito non minimo, ma infimo e che va a coprire per due anni solo il 2%
delle famiglie povere (stimate in 2.245.000)!
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22.
In tale direzione si muove anche la proposta di legge presentata in
Parlamento dall’onorevole P. Cento il 12 febbraio 1998. Rispetto alla
proposta Onofri, la proposta Cento riguarda in particolare gli iscritti al
collocamento e quindi è di fatto una sorta di indennità di
disoccupazionee/o di precariato.
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23.
Si osservi che i vari tentativi di introdurre un reddito minimo
comunque richiede la clausola dell’impegno da parte dei beneficiari di
avviare un progetto di ricerca per il reinserimento attivo tramite una
prestazione lavorativa. Si pensi a quella figura ibrida del "Contrat
d’insertion social" richiesto dalla legge del 19888 sul reddito minimo
(Rmi) in Francia. Al riguardo, I.Astier, Revenu minimum et souci
d’insertion, Paris, Desclée de Brower, 1997.
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24.
E’ questa ad esempio la denominazione usata da J.Meade, sostenitore
del reddito di cittadinanza (pur in una visione neokeynesiana, funzionale
all’attuale meccanismo di accumulazione). Cfr. J.Meade, Agathopia,
Feltrinelli, Milano, 1994.
Back
25.
Attualmente al 31.12.1997, le entrate fiscali dello Stato ammontano a
182.608 miliardi di Irpef, 44.231 di Irpeg, 24.308 di Ilor (oggi sostituita
dall’Irap), a 36.548 di imposta sostitutiva sugli interessi (al momento
dell’acquisto dei titoli di stato) e di soli 3.467 sugli utili distribuiti
per un totale di imposte dirette pari a 315.792. A livello di imposte
indirette, 117.933 miliardi provengono dall’Iva e quasi 116.000 da varie
imposte (affari, bollo, Rai-Tv, tabacchi, imposte di fabbricazione varie,
ecc.) per un totale di 234.387 miliardi. Si tratta di un volume di entrate
che potrebbe essere modificato, ampliando l’imponibile delle rendite e dei
profitti tramite una riduzione delle aliquote sugli utili ed equiparando
l’Irpeg all’Irpef, auspicabilmente con un carico fiscale inferiore. Il
guadagno in termini fiscali dei possessori di titoli e degli imprenditori
finanziari e industriali verrebbbe compensato dall’inserimento
nell’imponibile delle rendite finanziarie e dall’introduzione di una sorta
di Tobin-tax (vedi nota seguente).
Back
26.
La Tobin-tax consisterebbe nell’introduzione di un aliquota molto
bassa, nell’ordine dello 0,02% - 0,05%, sui flussi finanziari destinati
alla speculazione, che transitano nelle mani delle società di
intermediazione mobiliare, dei fondi di investimento e delle aziende di
credito per essere comprati e venduti. Si tratterebbe, in altri termini, di
una lievissima tassazioni sugli scambi finanziari, quindi una sorta di
imposizione indiretta di tipo finanziario. Secondo i dati Banca d’Italia,
nel corso del 1997 sono stati scambiati titoli, prodotti derivati
("futures" e "hedge") e fondi comuni nazionali ed esteri in Italia per un
totale di 11.708.000 miliardi (quasi sei volte il Pil italiano) (dati Banca
d’Italia). Con un calcolo molto approssimativo, l’applicazione di una
aliquota dello 0,02%, calcolata sull’80% del valore di scambio porterebbe
un’entrata annuale più o meno pari a 186.720 miliardi. Se si applicasse
un’aliquota dello 0,05%, l’introito fiscale ammonterebbe a 466.800 miliardi
di lire. Si noti che si tratta di transazioni registrate interamente dalle
società di intermediazioni e dalle banche e quindi difficilmente eludibili.
E’ evidente che una misura di questo deve essere presa a livello
comunitario e con riferimento anche ai mercati anglosassoni. Ed è proprio
in questa direzione che ad esempio si stanno muovendo realtà autorganizzate
in Europa a partire dalla Francia (ad esempio, AC! (Action contre le
chomage!)) incominciando dall’ultimo marcia europea su Bruxelles.
Back
27.
Per movimenti lordi di capitale finanziario si intende la somma degli
acquisti e delle vendite di titoli, fondi comuni e strumenti derivati, pari
nel 1997 a circa 11.708.000 miliardi di lire. L’80% corrisponde a L.
9.336.000 miliardi (dati Banca d’Italia).
Back
28.
Con una battuta, si potrebbe affermare che se negli anni Sessanta e
Settanta, il peso del lavoro era concentrato nella maggior parte dei casi
all’interno dell’orario di lavoro (dalle 8 alle 17), oggi tale peso rimane
presente per tutto l’arco della giornata, anche nei cosidetti periodi di
riposo o nel mentre si beve un bicchiere di vino all’osteria.
Back
29.
In proposito si veda la Tesi n. 6. Si tratta di costi che derivano
dalla necessità che la riduzione di orario sia drastica, immediata e
repentina affinchè possa avere effetti positivi sull’occupazione. Cfr.
A.Fumagalli, Per una dibattito serio sulla disoccupazione e sulla riduzione
dell’orario di lavoro, in Economia e Politica Industriale, n. 85, 1995, pp.
249-267. Per un’esame della tematica della riduzione dell’orario di lavoro,
si rimanda a Aa. Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore
alla qualità del tempo di vita, Edizioni Punto Rosso, Milano 1995.
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30.
Cfr. S.Bologna, Orari di lavoro e postfordismo, in Aa. Vv., Il giusto
lavoro per un mondo giusto.
Back
31.
Su queste tematiche, che dovrebbero essere affrontare in altra sede
per lo spessore teorico che comportano, si può rimandare, a livello
esemplificativo, al settore editoriale, nel quale l’arma dello sciopero
risulta più che mai spuntata ed inefficace. Cfr. C.Morini, Lavoro autonomo
e settore editoriale, in Altreragioni n. 4, 1995 e Lavoro autonomo e
settore editoriale: parabola di una professione, in S.Bologna-A.Fumagalli,
Il lavoro autonomo di II° generazione, cit. Per un’interpretazione del
ruolo dello sciopero nell’era telematica (lo sciopero telematico), cfr.
Aa.Vv, Net Strike, No Copyright, ecc. Pratiche antagoniste nell’era
telematica, AAA Edizioni, Bertiolo 1996.
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32.
Una visione ottimistica che tende a intravvedere una sorta di
neo-compromesso socialdemocratico in una logica politica ancora pervasa
dalla tradizionale dinamica fordista, pur con l’inserimento di modalità
organizzative della rappresentanza di stampo nuovo (es.: i nuclei di
autoorganizzazione), è ravvisabile nella parte conclusiva del bel saggio di
A. Bihr, Dall’assalto al cielo all’alternativa: la crisi del movimento
operaio europeo, Biblioteca F. Serantini, Pisa 1995.
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33.
Per una discussione abbozzata su questi temi, con riferimento anche
all’espereienza maturati in altri periodi storici, cfr. S.Bologna,
B.Cartosio, A.Fumagalli, Il sapere delle lotte, Spray Edizioni, Milano
1996.
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Tesi n. 9: Il reddito di cittadinanza
crea le basi per il suo stesso finanziamento
Scenario 1 1. Risparmi su assistenza poveri
2. Risparmi su spese CIG
Scenario 2 3. Tobin Tax (con 20% di elusione) su movimenti lordi di capitale finanziario (27)
Scenario 3 4. Interventi sull'Irpef e sull'Irpeg e patrimoniale
5. Risparmi su spese previdenziali
6. Tassa dell'1% sulla produttività
7. Totale entrate