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LIBERO ACCESSO A CHIUNQUE AL MANICOMIO DI BISCEGLIE

 

Il testo che segue è copia della sentenza del pretore di Bisceglie circa la controversia nata fra un’associazione di cittadini e familiari e i responsabili del manicomio locale, riguardo al diritto di accesso presso i reparti psichiatrici.

La sentenza chiarisce tutta una serie di questione riguardanti i diritti dei cittadini internati e il diritto di controllo che associazioni e singoli possono esercitare nei confronti delle strutture psichiatriche. Per un approfondimento normativo della questione vedi anche la sezione leggi.

Il testo è tratto dalla rivista Fogli di Informazione, Gennaio-Febbraio 1981, n. 71/72.

 

Il Pretore di Bisceglie letti gli atti, osserva, in fatto e diritto. Con ricorso depositato il 3 gennaio 1980 il "Comitato per l’attuazione della legge 180/78", in persona del segretario, Grazia Schingaro e Mario Celestino (assistiti dal dott. proc. Dino Simone e Donata Sacco) esponevano che il 19/12/1979 a numerosi componenti del suddetto comitato, a parenti dei ricoverati, come la Schingaro, e a comuni cittadini, come il Celestino, era stato impedito dal personale di servizio e, quindi dallo stesso vicepresidente dell’Ospedale Psichiatrico ‘Casa Divina Provvidenza’ di Bisceglie, l’accesso nei reparti dell’ospedale per visitare i degenti, parlare con essi e conoscere le condizioni di vita.

Ravvisando in tale comportamento una lesione, con pregiudizio irreparabile, del proprio diritto primario alla comunicazione, garantito dall’art. 15 della Costituzione e corrispondente, del resto, al diritto sancito dall’art. 1 comma 4, L. 180/78, degli stessi degenti in ospedale psichiatrico di comunicazione con chi ritengono opportuno, chiedevano che venisse ordinato alla Congregazione religiosa ‘Ancelle della Divina Provvidenza’, proprietaria dell’ospedale suindicato, "di consentire il libero ingresso degli istanti nei luoghi abituali di vita (reparti, sale di ricreazione etc.) dei degenti, ospiti della stessa Istituzione, al fine di realizzare una piena e libera comunicazione con gli stessi".

Resisteva la Congregazione convenuta (assistita dall’avv. Pastore) osservando che il 19/12/89 una delegazione del Comitato si era incontrata con il vice presidente della ‘Casa Divina Provvidenza’, Lorenza Leone, dal quale aveva ottenuto informazioni circa l’applicazione della L. 180/78 nell’ospedale.

In diritto eccepiva il difetto di legittimazione ad agire del Comitato, sia perchè non individuabile con certezza nelle persone dei singoli aderenti, non generalizzate, sia perché titolare non di un diritto ma di un mero interesse all’attuazione della legge 180/78, ‘sfornito di presidio giudiziario’; ne deduceva, perciò, l’inammissibilità della procedura ex art. 700, intesa a tutelare un diritto - e non l’interesse ‘generico di voler comunicare con i degenti dell’ospedale psichiatrico per accertarne le condizioni di vita’ -, per cui vi sia minaccia di un pregiudizio imminente ed irreparabile: del che, osservava, nessuna indicazione i ricorrenti avevano fornito.

Sentite le parti e assunte sommarie informazioni dalle persone da esse indicate, all’udienza del 12/2/80 questo pretore si riservava di decidere.

E’ pacifico che il 19/12/1979 ai ricorrenti è stato impedito dal personale di servizio all’ingresso dell’ospedale e dal vice presidente Leone l’accesso all’interno dei reparti ospedalieri per visitare i degenti: univoche sono in proposito le informazioni assunte, anche da parte dell’informatore indicato dalla congregazione resistente.

La circostanza, del resto, è stata ammessa dallo stesso Leone quando ha parlato della sua disponibilità ‘a valutare in futuro con serietà le richieste di autorizzazione eventualmente presentate’ e comfermata dalla direzione sanitaria dell’ospedale nel pare depositato, con il quale riconosce il diritto di ingresso solo a chi ne faccia richiesta, allegando un giustificato motivo ‘in ragione del suo ufficio’ o per avervi ‘familiari ricoverati’, e lo nega a chiunque (inteso come persona non appartenente alle precedenti categorie)’.

Tali limitazioni o impedimenti all’esercizio del diritto fondamentale di comunicazione con chiunque (art. 15 Cost.) è illegittimo e ne va ordinata, pertanto, la rimozione. Ciò è evidente, e pacifico, perchè neppure minimamente contestato dalla resistente, per i ricorrenti Schingaro (addirittura sorella di un ricoverato)e Celestino, che agiscono personalmente, ma va affermato amche per il Comitato, sul cui difetto di leggittimazione ad agire in giudizio, a ad agirvi per procura d’urgenza, si sono incentrate particolarmente le eccezioni della difesa della resistente: eccezioni da disattendere, siccome ancorate ad inammissibili impostazioni di tipo formalistico sulla esistenza delle associazioni e di tipo privatistico e patrimonialistico sui diritti e la loro azionabilità.

Una corretta impostazione dei problemi, che si annidano nelle eccezioni sollevate, non può che partire dalla considerazione che ‘comitati’ e ‘associazioni non riconosciute’, rientrano nel fenomeno, estremamente diffuso nelle società occidentali, e nel nostro ordinamento, delle formazioni sociali, garantite dalla Costituzione (art.2) per il solo fatto che esse, consentendo lo svolgimento della personalità dell’uomo (art.2), sviluppano un rapporto potenzialmente indispensabile all’ordine politico, a prescindere dalle loro dimensioni, dal numero degli aderenti, dal ricorso all’una o all’altra forma giuridica.

Perciò, ‘l’esistenza di una associazione non è condizionata ad alcuna formalità. Alla sua costituzione, pertanto, non è necessario nè l’atto pubblico - prescritto soltanto per il conseguimento della personalità giuridica - e neppure, salvo i casi specificatamente disciplinati, l’atto scritto.

L’atto scritto è bensì necessario ai fini della prova (art. 2721 c.c.), ma, in quanto sia consentito dall’art. 27244, la prova della costituzione e dell’esistenza di una associazione non riconosciuta può essere data anche in via indiretta e presuntiva’. (Cass. 10/12/65, in Foro It., 1966, I, 1327; conf. Cass. 30/10/1975, ibid. Rep. 1975, voce Ass. non ricon., I).

Nella specie, è sufficiente a provare l’esistenza del Comitato ricorrente l’esibito ‘verbale di assemblea costituitiva’, di cui non vale ‘disconoscere’ il valore, come asserito dalla difesa della resistente, per il solo fatto che i sottoscritti del verbale non sono individuati nelle loro generalità.

Intanto, alcuni di essi, deponendo come informatori nel processo, hanno riconosciuto come propria la sottoscrizione, di guisa che - nella misura in cui ‘la prova (...) può essere data anche in via indiretta e presuntiva’ - è ragionevole presumere che anche le altre sottoscrizioni sono vere.

Inoltre i ricorrenti hanno esibito ritagli del giornale ‘La Gazzetta del Mezzogiorno’ del 16/11/79 e del 14/12/79, non disconosciuti dalla resistente, sui quali compaiono informazioni sulla costituzione e sull’attività del Comitato; anche per tal via, indiretta, e presuntiva, risulta provata la costituzione e l’esistenza del Comitato ricorrente. Il quale, secondo la difesa della resistente, sarebbe, tuttavia, privo di capacità di agire processualmente in quanto portatore non di un diritto ma, per definizione, di un semplice interesse, sfornito di tutela giudiziaria, all’attuazione della legge 180/78. Ora, posto che la legge indica intende tutelare la salute mentale dell’individuo, disponendo che i trattamenti sanitari, eventualmente necessari all’uopo, siano svolti ‘nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione (art. 1 cpv L.180/78), è da ritenere che, nella specie, anche alla stregua del contenuto dell’esibito ‘verbale di assemblea costituitiva’ l’interesse del Comitato all’attuazione della legge si risolva nell’interesse della salute (mentale), che, in quanto ‘interesse della collettività’, è espressamente tutelata dalla Repubblica (art. 32 Cost.).

Se, - ancorchè ‘diffuso’, e cioè riferibile contemporaneamente ed indifferentemente ad un numero indefinito di soggetti, alla ‘collettività’- un tale interesse è ugualmente tutelato, è conseguente ritenere che la tutela, per operare realmente e non risolversi in un mero orpello retorico, dev’essere di tipo garantistico, proprio dei diritti fondamentali e ‘inviolabili’ della persona umana, azionabili da chiunque e da qualunque formazione sociale, che, come nella specie, esista, partecipi all’interesse della collettività (nel caso, alla salute mentale dei cittadini) e persegua come proprio fine appunto la realizzazione di tale interesse, che, in quanto diffuso, è perseguibile non esclusivamente da particolari soggetti privati o dalla pubblica autorità ed è, quindi, suscettibile di ‘appropriazione’ anche da parte di formazioni sociali.

Opinare diversamente, nel senso che l’interesse della attuazione della L. 180/78 e, cioè, alla salute (come si potrebbe aggiungere, quello alla preservazione dell’ambiente naturale, alla sicurezza sociale, all’ordinato sviluppo urbanistico), sicoome diffuso, è ‘sfornito di presidio giudiziario’, significa vanificare la tutela prevista dalla Costituzione, ponendosi in una ‘prospettiva secondo la quale vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclusivo tra un bene (o una frazione di esso) ed un solo individuo o un gruppo personificato - e quindi assimilato allo individuo -’, che ‘è condizionata ad una impostazione di tipo patrimoniale della giuridicità e rischia di modificare in ragione del condizionamento, l’irresistibile tendenza all’azionabilità delle pretese che è cardine della nostra Costituzione (art. 24)’ (così, proprio in fattispecie di diritto alla salute, Cass. Sez. Un. 6/10/79, N. 5172, in Foro It. 1979, I, 2302 S.S., in particolare 2305).

Ma nel caso in esame, vi è di più: non tale pretesa (interesse collettivo alla salute mentale) è stata azionata ma, per realizzare quell’interesse, il diritto di comunicare con i degenti dell’ospedale psichiatrico.

Si tratta non, come asserito dalla difesa della resistente, di un ‘interesse generico’ ma di un diritto specifico, soggettivo ed assoluto, quale quello di comunicazione, di cui l’art.15 della Costituzione garantisce la libertà e la segretezza, che diachiara inviolabili.

Nessun dubbio può esservi per i ricorrenti che siano titolari del diritto fondamentale di comunicare (anche) con i degenti dell’ospedale psichiatrico.

E, se nel vigore di una legge come quella del 1904 (n.36), che si preoccupava solo della ‘pericolosità a sé e agli altri’ e del ‘pubblico scandalo’ dei malati mentali, e ne disponeva conseguentemente, la ‘custodia’ in manicomio (art.1) - poteva dubitarsi della compressione del diritto costituzionale di chiunque di comunicare con un ricoverato in ospedale psichiatrico, non v’è dubbio che tale diritto si sia nuovamente espanso in tutta la sua potenzialità in conseguenza della legge 180/78 nella misura in cui corrisponde al reciproco diritto dell’infermo di ‘comunicare con chi ritenga opportuno’ (art. 1 co. 4, L. 180).

Al diritto costituzionale del ricoverato di comunicare con chiunque e, reciprocamente, di chiunque di comunicare con il ricoverato non può che corrispondere l’obbligo dell’amministrazione e della direzione sanitaria dell’ospedale psichiatrico di consentire l’esercizio effettivo di questo diritto, rimuovendo ostacoli e limitazioni come quelli che selezionando tutti i potenziali visitatori in ragione del loro ufficio o del vincolo di parentela impediscono al ricoverato di comunicare con chiunque non sia parente o operatore psichiatrico e a chiunque non versi in tali condizioni di comunicare con il ricoverato.

Chè, affrontando le obiezioni sollevate dalla direzione sanitaria dell’ospedale psichiatrico nell’esibito parere e recepito dalla difesa della resistente - se non pare dubbio che l’ospedale abbia il potere di regolamentare, per renderlo compatibile con le finalità terapeutiche e assistenziali perseguite, l’esercizio del diritto di ingresso di chiunque in ospedale per comunicare con i degenti (es. fissando un orario per le visite, destinando ai colloqui apposite sale nell’ambito dei reparti e, in genere, seguendo le prassi di ogni altro comune ospedale), è altrettanto indubbio che l’ospedale ha l’obbligo di consentire l’esercizio di tale diritto, che è fondamentakle e assoluto, a chiunque e non il potere di consentirlo solo ad alcuni, autorizzandoli in base a criteri limitativi, arbitrari e incompatibili con l’assolutezza del diritto.

Il potere di escludere alcuno dalla comunicazione, di selezionare i visitatori, inerisce, infatti, allo stesso diritto di comunicazione e spetta, quindi, all’altro titolare di tale diritto, cioè il ricoverato, il quale comunicherà con chi, dei visitatori, ‘ritenga opportuno’ (art. 1 co. 4, L.180/78).

Né a leggittimare questa sorta di potere sostitutorio dell’ospedale - amministrazione e/o direzione sanitaria - all’infermo nell’esercizio di un diritto personalissimo, come quello della comunicazione, valgono le considerazioni svolte sulla ‘peculiare caratteristica delle forme morbose esistenti in ospedale’, sui ‘motivi di riservatezza’, sul ‘disagio morale’, in cui potrebbero venire a trovarsi i pazienti, sulla ‘morbosa curiosità’: considerazioni, queste, che evocano principi forse formulabili nel vigore della legislazione abrogata ma certamente incompatibili con la L. 180/78, che ha assimilato la malattia mentale a qualsivoglia altra malattia, disponendo che essa venga curata negli stessi ospedali, in cui si curano altre malattie, con esclusione di ospedali psichiatrici o reparti o divisioni separate: ciò non toglie che, il medico curante possa vietare (come del resto avviene in ogni ospedale) in un determinato momento il colloquio con il ricoverato per speciali e obiettive esigenze, derivanti dallo stato attuale della malattia; ma per il resto, e cioè per i motivi soggettivi, giudice della propria riservatezza, del proprio disagio, è lo stesso ricoverato quale titolare del diritto di comunicazione.

Tale principio che la legge 180/78 sancisce finanche per i ricoverati sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio, a più forte ragione vale per i ricoverati della ‘Casa Divina Provvidenza’, che, come ricordato dagli stessi direttori sanitari nel parere esibito, sono ‘tutti (...) dimissibili’.

Nessuna ‘peculiare caratteristica delle forme morbose esistenti in ospedale’ può essere pertanto invocata per persone dichiaratamente ‘dimissibili’ che possono lasciare l’ospedale, quando lo vogliono e, se finora in gran parte non l’hanno fatto, è perché non sanno dove ricrearsi un’esistenza libera e dignitosa né, come è detto nel parere, gli ‘Organi provinciali e regionali vi hanno provveduto, comunicando dove, come e quando essi avrebbero potuto essere collocati’.

L’ultima eccezione riguarda il preteso ‘annullamento del segreto professionale’: i ricorrenti non hanno chiesto di conoscere la diagnosi della malattia o altra attività sanitaria coperta dal segreto professionale, nel quale non rientra certamente la identificazione del ricoverato, che sarà lo stesso ricoverato, ove lo ritenga opportuno, a fornire.

Nessuna valida ragione, in conclusione, giustifica, dopo la legge 180/78, un trattamento differenziato e deteriore, quanto all’effettività del godimento dei diritti civili, e in particolare di quello di comunicazione, degli infermi di mente rispetto agli altri infermi, quasi che essi debbano continuare ad essere oggetti da ‘custodire’ o ‘sorvegliare’, come previsto dall’abrogata legge 36/1904.

Conseguentemante, appare più che lambito dal fumus boni juris il diritto dei ricorrenti - non solo della Schingari e del Celestino, per cui nessuna contestazione precisa è stata formulata, ma anche del ‘Comitato per l’attuazione della legge 180/78’ - di comunicare con i ricoverati nei luoghi abituali di vita all’interno dell’ospedale e, quindi, di accedervi liberamente, come liberamente, ancorché nel rispetto del regolamento, si accede in qualsiasi ospedale e, salvo che non vi osti momentaneamente lo stato della loro malattia, si comunica con i degenti se questi lo ritengono opportuno.

L’esistenza di un pregiudizio può considerarsi in re ipsa per il fatto che dall’impedimento denunciato, può derivare una contrazione dei diritti civili dei ricoverati con negativi riflessi sull’interesse collettivo, e per la Schingaro anche individuale, alla tutela della salute mentale che essi perseguono.

L’irreparabilità del danno consegue alla natura dello stesso, che, incidendo, come si è detto, sui diritti civili, inerenti al ‘pieno sviluppo della persona umana’ (art. 3 Cost.), appare insuscettibile di valutazione economica e, quindi, - nel giudizio di merito - di risarcimento.

Nulla sulle spese in questa fase cautelare.

P.Q.M.

ORDINA ALLA CONGREGAZIONE RELIGIOSA DELLE SUORE ANCELLE DELLA DIVINA PROVVIDENZA, OSPEDALE PSICHIATRICO DI BISCEGLIE, IN PERSONA DEL LEGALE RAPPRESENTANTE DI NON IMPEDIRE AI RICORRENTI IL LIBERO INGRESSO NEI LUOGHI ABITUALI DI VITA DEI DEGENTI ALL’INTERNO DELL’OSPEDALE E LA COMUNICAZIONE DEGLI ISTANTI CON ESSI.

Fissa ai ricorrenti il termine perentorio di giorni 60 dalla ratificazione della presente ordinanza per l’inizio del giudizio di merito dinanzi al Giudice competente.

Bisceglie 8 marzo 1980.