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Dal mondo degli affari, agli affari del mondo


di jacques decornoy

"La società di studi Dataquest Inc. stima che in Cina ci siano almeno 350.000 ingegneri informatici negli istituti di ricerca, nelle imprese di stato e nelle università. Lo stipendio medio mensile si aggira sui 105 dollari (...). Le multinazionali pescano in queste ricchissime acque (1)". Il rischio non lo corrono le aziende, ma le società nazionali: milioni di posti di lavoro sono a rischio, soprattutto negli Stati uniti. Le imprese dettano la propria legge che non conosce frontiere. E la legge (quella che vota l'eletto dal popolo) è pregata di mettersi al loro servizio. "L'investimento in risorse umane, nel loro efficiente impiego e gestione è (...) di importanza capitale per i governi e le imprese transnazionali (...). L'istruzione e i programmi di formazione devono rispondere ai bisogni del mondo degli affari e, nell'economia mondiale contemporanea, soprattutto alle esigenze degli affari di dimensioni internazionali (2)". In questo modo si crea, o si cerca di organizzare, il nuovo ordine planetario.
Nella cosiddetta era della mondializzazione, la diagnosi è chiara: "La globalizzazione, in ultima analisi, è il prodotto delle decisioni prese dalle aziende. Tuttavia, i potenziali guadagni derivanti da una più forte integrazione dipendono anche dalla cooperazione tra nazioni, che deve mirare ad abbassare le barriere e a organizzare una gestione equilibrata del processo di integrazione (3)". In questo modo la dottrina del capitalismo fin de siècle, forte dell'imprimatur delle organizzazioni internazionali, viene esposta come parte dell'ordine naturale delle cose, per essere meglio imposta e sacralizzata. In questa gabbia, il pensiero si vede rifiutare il piacere di immaginare diverse forme di rapporti sociali e viene definito arcaico, se non si piega a considerare come ineluttabili e imbattibili i modelli di interpretazione dominanti.
In questi tempi di ecumenismo libero-scambista, è di bon ton insistere sull'esplosione generalizzata del sapere, sui trasferimenti di tecnologia, sull'emergere di nuovi poteri che crescono come funghi dopo i monsoni asiatici; dei funghi chiamati imprese. "E' un miracolo", come assicura la Banca mondiale per meglio giustificare lo smantellamento degli stati e dei servizi pubblici? Oppure una parziale illusione avvolta in un miraggio?
Più del 90% delle 37.000 società transnazionali e delle loro circa 206.000 filiali straniere appartiene al cosiddetto primo mondo, in altre parole al nord. Di queste società, le prime 100 sono di decisiva importanza in tutti i campi: influenzano in ogni settore tutti i paesi, quelli di origine e quelli stranieri, hanno enormi capacità di investimento, dominano la tecnologia, possiedono brevetti, e tutto questo in settori di punta, quelli su cui si fonda la potenza nel mondo contemporaneo e si costruiscono i monopoli del domani. Sono questi i poteri in questione, quando le statistiche astratte riferiscono di flussi di investimento e di fenomeni di disinvestimento in questo o quel paese o regione. E' grazie a questi poteri se sull'intero pianeta si è imposto il dogma della privatizzazione, che spazza via le opposizioni certamente arcaiche dei meccanismi di tutela mercantile alle operazioni di conquista su scala mondiale.
Alla luce del sole e sotto gli occhi della pubblica opinione, l'ultimo quarto di secolo è stato impiegato per aggiustare e modellare economie, scambi, legislazioni nazionali e diritto internazionale. Tutto a vantaggio di queste potenze. Ma c'è una spiacevole coincidenza: lo stesso periodo ha conosciuto, oltre a una depressione profonda e interminabile, le crisi del debito (che non sono state affatto risolte e rischiano di moltiplicarsi), la crescente e generalizzata dipendenza del sud verso il nord, la distruzione di organizzazioni sociali e di strutture statali, la negazione delle capacità di autonomia legislativa delle nazioni, la repentina estensione nei paesi ricchi di fenomeni di esclusione, poi di non-inclusione, di decine di milioni di persone, la concentrazione sempre più forte di ricchezze sempre più abbondanti nelle mani di una minoranza di Terriani (4).
Una evoluzione ritenuta tutto sommato "normale", proprio mentre l'impresa diventa il cuore delle società, ne detta le scelte scientifiche, tecnologiche, i modelli di organizzazione, per arrivare a scandire i ritmi della vita. Salvo poi scaricare sulle stesse società i rischi delle decisioni irrazionali, delle speculazioni senza controllo e farsi pagare il conto degli innumerevoli fallimenti, delle "bolle" speculative che impiegano anni a sgonfiarsi. "Invece di creare un villaggio planetario, queste imprese [le transnazionali] danno vita a reti di produzione, di consumo, di flussi finanziari che recano profitto soltanto a una minoranza degli abitanti del pianeta. Tutti gli altri vengono marginalizzati, esclusi o feriti da queste reti di attività (5)". Gli ultimi sviluppi "i trattati di investimento bilaterali, gli accordi commerciali multilaterali, le decisioni di privatizzazione, l'erosione degli ordinamenti nazionali e l'imperante ideologia del libero mercato" portano a "minimizzare le responsabilità delle imprese transnazionali, proprio mentre ne aumentano i diritti (6)".
"Dalla Cina al Messico, il business di Clinton sembra essere il business": con questo titolo un giornalista americano ha ricordato come le oscillazioni della politica della Casa bianca riflettano il volere dei giganti dell'impresa privata, che hanno grossi interessi sul continente come dall'altra parte del Pacifico (7). E' un fenomeno antico, si dirà, vecchio quanto il capitalismo. Eppure ci sono grandi differenze col passato, anche quello prossimo: ormai si stanno trasferendo i poteri nazionali non nelle mani di istanze normative sovranazionali , ma in quelle di potenze private i cui interessi mondiali, necessariamente a breve termine, non possono che entrare in conflitto con le necessità di uno sviluppo duraturo, ripartito secondo criteri di equità, deciso per via democratica, accettabile dal punto di vista ecologico. E' una contraddizione carica di minacce, gravida di guerre.


note:

torna al testo (1) Business Week, 19 dicembre 1994.

torna al testo (2) World Investment Report. Transnational Corporations.
Employment and the Workplace, Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), New York, Ginevra, 1994, p.384.
Leggere anche, Transnational Corporations and Integrated International Production, pubblicata dalla stessa organizzazione, (1993).

torna al testo (3) Unctad, op. cit., 1994, p. 158.

torna al testo (4) Tra il 1960 e il 1989, la parte di reddito mondiale accaparrata dal "primo" quinto della popolazione è passata dal 70% all'83%, quella ottenuta dall"ultimo" quinto è caduta dal 2,3% all'1,4% (dati dell'Onu, 1994).

torna al testo (5) Eric Kolodner, Transnational Corporations: Impediments or Catalysts of Social Development?, Istituto di ricerca delle Nazioni unite per lo sviluppo sociale, Ginevra, dicembre 1994.

torna al testo (6) Ibid.

torna al testo (7) Jim Hoagland, "From China to Mexico, the Business of Clinton Seems to Be the Business", International Herald Tribune, 9 febbraio 1994.
(Traduzione di R.L.)
Articolo tratto da Le Monde Diplomatique del maggio-1995, inserto mensile de il manifesto