NO ai LAGER per immigrati clandestini!
Il documento dell'Associazione ASGI
sui Centri di temporanea permanenza ed assistenza
OTTOBRE 1999
I centri di permanenza temporanea ed assistenza sono dei luoghi di detenzione previsti dalla legge 40/98 ed istituiti con decreto del Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri per la solidarietà sociale, del tesoro e del bilancio.
Essi servono a trattenere i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione Europea e gli apolidi nei cui confronti sia stata:
1. decretata l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera;
2. adottato il respingimento alla frontiera; sempre che tali misure non possano essere eseguite con immediatezza per uno o più dei seguenti motivi: 1. perché occorre procedere al soccorso dello straniero (è il caso, ad esempio, dello straniero ripescato in mare che non può essere immediatamente rimpatriato perché necessita di cure); 2. perché occorre procedere ad accertamenti supplementari in ordine alla identità o nazionalità dello straniero (è il caso, frequentissimo, di chi non ha documenti di identità ovvero che rifiuta di fornire indicazioni al riguardo); 3. perché occorre procedere all’acquisizione di documenti per il viaggio; 4. per l’indisponibilità immediata del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo.
Per meglio comprendere i presupposti del trattenimento nei centri di permanenza temporanea, occorre spendere qualche parola in tema di espulsioni. Limitando la nostra attenzione alla espulsione amministrativa (è quella che maggiormente interessa), occorre sapere che essa è disposta:
1. dal Ministero dell’Interno con decreto motivato per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato; 2. dal Prefetto, con decreto motivato, nei casi tassativamente previsti dalla legge.
Quanto poi all’esecuzione di detta espulsione amministrativa, questa può attuarsi con due distinte modalità:
1. accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica;
2. intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni dalla notificazione del provvedimento. In entrambi i casi l’espulsione è eseguita dal Questore.
Siccome il presupposto per il trattenimento nei centri di permanenza in questione è l’espulsione da attuarsi con la prima delle modalità sopra indicate (cioè espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica) e non anche l’espulsione con intimazione ad abbandonare il territorio nazionale, è utile avere un quadro completo dei casi, previsti tassativamente dalla legge, di espulsione con accompagnamento alla frontiera.
CASI DI ESPULSIONE CON ACCOMPAGNAMENTO ALLA FRONTIERA
A) Qualora l’espulsione sia disposta direttamente dal Ministro dell’Interno per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato;
B) qualora lo straniero espulso con intimazione non abbia ottemperato all’intimazione stessa e, quindi, non abbia abbandonato il territorio dello Stato entro 15 giorni dalla notificazione del decreto espulsivo (con il che si vede come anche l’espulsione con intimazione può tradursi in un caso di espulsione con accompagnamento);
C) espulsione per c.d. “pericolosità sociale” riguarda: 1) coloro che debba ritenersi siano abitualmente dediti a traffici illeciti; 2) coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; 3) coloro che, per il loro comportamento, debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica; 4) coloro che siano indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. In tutti questi casi, si procede all’espulsione con le forme dell’accompagnamento immediato, qualora il Prefetto rilevi, sulla base di circostanze oggettive, il concreto pericolo che lo straniero si sottragga all’esecuzione del provvedimento (qualora, beninteso, questo venisse adottato con le modalità esecutive dell’intimazione).
D) Espulsione per “ingresso clandestino”. Riguarda coloro che siano entrati nel territorio nazionale sottraendosi ai controlli di frontiera e (ovviamente) non siano stati respinti. In tale caso si procede all’esecuzione dell’espulsione con le forme dell’accompagnamento immediato qualora lo straniero sia privo di valido documento ed il Prefetto rilevi, tenuto conto dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo, un concreto pericolo che lo straniero si sottragga all’esecuzione del provvedimento espulsivo.
E) Espulsione per “mancanza del permesso di soggiorno”. Si verifica qualora lo straniero si sia trattenuto in Italia senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine di otto giorni lavorativi dal suo ingresso, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato, annullato, ovvero scaduto da più di 60 giorni e non è stato rinnovato ed il Prefetto rilevi un concreto pericolo che il soggetto si sottragga all’esecuzione dell’espulsione.
In tutti i cinque casi sopra indicati, il Questore dispone il trattenimento nei centri di permanenza temporanea qualora risultino le esigenze relative:
A) al soccorso dello straniero;
B) ad accertamenti circa l’identità e nazionalità;
C) all’acquisizione di documenti per il viaggio;
D) all’indisponibilità immediata del vettore.
Come si è detto, è un decreto motivato dalla autorità amministrativa il presupposto giuridico per la restrizione della libertà personale nei centri in questione. Poiché i casi sono predeterminati dalla legge, trattasi – quantomeno apparentemente – di una attività vincolata della pubblica amministrazione. E’ tuttavia evidente che l’adozione dei provvedimenti di espulsione, con le modalità dell’accompagnamento immediato, lascia alle Prefetture un ampio margine di discrezionalità. Valutazioni quali: l’essere abitualmente dediti a traffici delittuosi; il vivere abitualmente con proventi di attività delittuose; il pericolo che lo straniero si sottragga alla esecuzione del provvedimento di espulsione; il tener conto dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo … sono fisiologicamente discrezionali sia in ragione della genericità delle rispettive locuzioni, sia perché adottate in assenza di parametri certi di riferimento ai quali ancorare il giudizio prognostico. Ad esempio, sulla base di quali elementi un Prefetto potrà ritenere che Tizio sicuramente si sottrarrà all’intimazione a lasciare l’Italia, mentre invece, per Caio non sussiste alcun pericolo al riguardo? D’altro canto, è sufficiente leggere i provvedimenti prefettizi per verificare che si tratta di prestampati con tutta la casistica già indicata (ripetendo, dunque, il dettato legislativo), ove la valutazione del Prefetto si estrinseca mediante l’apposizione di una crocetta a fianco dell’ipotesi scelta. Sotto tale profilo, quindi, l’obbligo di motivazione – che pure la legge richiede – è più apparente che reale, concretizzandosi in apodittiche formule di stile. Il che è ancor più sconcertante se si considera che tali provvedimenti vengono assunti dalla autorità amministrativa “inaudita altera parte”, in assenza di contraddittorio. Né vale obiettare che l’adozione di provvedimenti siffatti è comune a quasi tutti i provvedimenti amministrativi: altro è ordinare la demolizione di un’opera edilizia abusiva, altro è porre il presupposto per una limitazione della libertà personale. A ciò si aggiunga che mentre contro un’ordinanza di demolizione il destinatario ha 60 giorni di tempo per far ricorso e può chiedere la sospensiva del provvedimento impugnato (e se l’amministrazione soccombe in giudizio viene condannata alle spese ed al risarcimento), diversamente lo straniero ha cinque giorni di tempo per ricorrere, senza che il suo ricorso giurisdizionale abbia efficacia sospensiva.
Se dunque il decreto che dispone l’espulsione con accompagnamento alla frontiera per il tramite della forza pubblica è un provvedimento prefettizio in parte discrezionale, il provvedimento con il quale si dispone il trattenimento nei centri in questione è un provvedimento del Questore che si pone in rapporto di consequenzialità rispetto all’antecedente decreto di espulsione. Quanto alle modalità di esecuzione del trattenimento, la legge prevede che: allo straniero trattenuto sia assicurata la necessaria assistenza ed il rispetto della sua dignità; egli è libero di corrispondere, anche telefonicamente, con l’esterno; non è tuttavia libero di allontanarsi e, a tal fine, il Questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta le misure di vigilanza opportune; in caso di allontanamento indebito, la forza pubblica deve provvedere a ripristinare la misura prima possibile.
Poiché la permanenza coatta nei centri in questione è pur sempre una forma di restrizione della libertà personale e, in quanto tale costituzionalmente possibile solo se disposta con atto motivato dall’autorità giudiziaria, per armonizzare il dettato legislativo con la normativa costituzionale si è previsto che: il questore del luogo in cui si trova il centro trasmette, al massimo entro 48 ore dalla adozione del provvedimento restrittivo, copia degli atti al giudice; il giudice, sentito l’interessato, deve convalidare il provvedimento del questore con atto motivato entro le 48 ore successive al ricevimento degli atti, pena la cessazione degli effetti del provvedimento questorile.
il giudice adotta il provvedimento di convalida qualora ritenga sussistenti i presupposti relativi all’adozione del decreto di espulsione con accompagnamento immediato emesso dal Prefetto ed i presupposti relativi all’atto che dispone il trattenimento emanato dal Questore; la mancata convalida per insussistenza dei requisiti comporta la cessazione della permanenza; viceversa, la convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi 20 giorni. Tale termine può essere prorogato di ulteriori 10 giorni su richiesta del Questore, quando sia imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione con accompagnamento alla frontiera; il Questore esegue l’espulsione non appena possibile, anche prima della scadenza del termine di 20 giorni o di 30 giorni se questo è stato prorogato, dandone comunicazione al giudice, senza ritardo; contro i decreti di convalida o di proroga del termine emessi dal giudice, è ammesso ricorso in Cassazione solo per violazione di legge, senza, peraltro, effetto sospensivo.
Il decreto di espulsione, il provvedimento di adozione del trattenimento presso il centro di permanenza, nonché ogni altro atto concernente l’espulsione (intimazione, decreto di convalida, decreto di proroga) sono comunicati all’interessato – unitamente alle modalità di impugnazione – con una traduzione in una lingua da lui conosciuta ovvero, ove non sia possibile, in lingua inglese, francese o spagnola. Lo straniero espulso è rinviato allo stato di appartenenza, ovvero a quello di provenienza. Lo straniero espulso non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministero dell’Interno; in caso di trasgressione è punito con l’arresto da 2 a 6 mesi ed è nuovamente espulso con accompagnamento immediato. Durata: il divieto di rientrare in Italia opera per 5 anni, riducibili a tre da parte dell’autorità giudiziaria a seguito di ricorso avverso l’espulsione. In nessun caso può disporsi l’espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. Ad eccezione dell’espulsione disposta dal Ministero dell’Interno per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, non è consentita l’espulsione nei confronti: degli stranieri minori di anni 18, salvo il diritto di seguire il genitore o l’affidatario espulso; degli stranieri in possesso della carta di soggiorno; degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o il coniuge, di nazionalità italiana; delle donne in stato di gravidanza e nei 6 mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono. Lo straniero nei cui confronti sia stata eseguita un’espulsione, qualora sia sottoposto a procedimento penale è autorizzato dal Questore a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa. Tale possibilità è conseguente alla documentata richiesta avanzata al Questore dall’imputato, tramite rappresentanza diplomatica o consolare, o dal difensore. L’autorizzazione deve essere concessa al solo fine di partecipare al giudizio o ad atti processuali per i quali è necessaria la presenza dell’imputato (ricognizioni, confronti, interrogatori).
Infine, quanto ai rimedi giurisdizionali, contro il decreto di espulsione è data la possibilità di ricorrere al giudice ordinario del luogo in cui ha sede il Prefetto che l’ha disposta entro 5 giorni dalla comunicazione. Se il ricorso contro l’espulsione del Prefetto è stato proposto prima della convalida del provvedimento questorile che dispone il trattenimento nel centro, il giudice può decidere di valutare congiuntamente convalida e ricorso purché il tutto avvenga nel termine delle 48 ore successive al ricevimento degli atti. Contro il provvedimento del giudice che respinge il ricorso, così come contro quello che convalida il trattenimento è solo possibile il ricorso per Cassazione, senza efficacia sospensiva (il che vuol dire che l’espulsione viene comunque eseguita).
La normativa, così come sommariamente delineata, presenta, ad avviso dello scrivente, alcuni profili di illegittimità costituzionale. Un primo profilo di illegittimità costituzionale riguarda la mancata previsione della obbligatoria assistenza di un difensore all’udienza di convalida del provvedimento di trattenimento presso il centro. Il che parrebbe in contrasto con l’art. 24, comma II, della Costituzione laddove è prescritto che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, con ciò intendendosi qualunque tipo di procedimento, sia penale, civile o amministrativo. Né dovrebbero sussistere dubbi circa l’applicabilità del precetto costituzionale ai cittadini di paesi non appartenenti all’Unione Europea ed agli apolidi per, quantomeno, due ordine di ragioni:
1) per consolidata giurisprudenza, l’art. 24 Cost. si applica in qualsiasi tipo di procedimento, indipendentemente dalla nazionalità della persona sottoposta;
2) la legge 40/98 prevede, all’art. 2 (diritti e doveri dello straniero) che “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato” (e dunque anche al clandestino) “sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno …” e non v’è dubbio alcuno che il diritto di difesa rientri nel novero dei diritti fondamentali delle persone. La stessa norma prevede inoltre che “allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione …”. Per tali motivi, mi pare che la mancata previsione della presenza obbligatoria di un difensore all’udienza di convalida di un provvedimento che limita la libertà personale, violi l’art. 24 Cost. Vero è che il regolamento di attuazione della Legge 40/98 sembrerebbe prevedere la presenza del difensore a tale udienza, tuttavia non solo a tutt’oggi il regolamento non è ancora stato emanato, ma, quand’anche lo fosse, è dubbio che una norma regolamentare, dunque di rango inferiore alla legge, possa supplire ad un deficit di costituzionalità proprio della legge.
Vi è poi un secondo profilo di possibile illegittimità costituzionale che merita attenzione e che riguarda il titolo in forza del quale viene disposta la restrizione della libertà personale. Punto di partenza del ragionamento deve essere l’art. 13 Cost. Tale norma, al II comma, prescrive che “non è ammessa forma alcuna di detenzione … né qualsiasi altra forma di restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Il che significa che, se manca un provvedimento motivato di un giudice, non si può restringere la libertà di alcuno. Il III comma dell’art. 13 Cost. prevede che “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48 ore, si intendono revocati e perdono di efficacia”. Dall’esame della normativa in questione dianzi esposta, emerge chiaramente come il provvedimento che determina la restrizione nel centro di permanenza temporanea sia un atto amministrativo del Questore che è consequenziale rispetto ad un altro atto amministrativo del Prefetto. Infatti, come abbiamo visto, il provvedimento del Questore non è che una modalità di attuazione di quella particolare forma di espulsione che va sotto il nome di “espulsione con accompagnamento alla frontiera”. Quindi, manca quel provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria che, a norma dell’art. 13, comma II, Cost. può consentire una corretta restrizione della libertà personale. In altre parole manca un titolo valido di detenzione. Tuttavia, è prevista la convalida del giudice che deve avere ad oggetto, secondo il dettato normativo, sia i presupposti dell’espulsione che quelli del trattenimento. Ma ciò, a ben vedere, non muta il quadro di sospetta incostituzionalità. Invero, convalidare significa attribuire validità ad una azione o ad un atto precedentemente compiuto. Convalidare è, pertanto, sinonimo di ratificare, sanare qualcosa che è già accaduto e che, senza, appunto, la “convalida” non potrebbe avere validità e tale accezione è quella recepita dall’art. 13, III comma, Cost. Nel caso di specie, pertanto, il provvedimento di convalida, serve ad attribuire validità alla restrizione della libertà personale avvenuta non più tardi delle precedenti 96 ore (48 + 48). Ma che accade per il tempo successivo alle 96 ore? Può, in altri termini, un provvedimento di convalida sanare l’attività precedentemente compiuta dalla pubblica sicurezza e, al tempo stesso, attribuire validità per la stessa attività per i successivi 16 giorni? (20 giorni – 96 ore = 16 giorni) Si noti, inoltre, che è la legge a prescrivere che “la convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi 20 giorni”. Il che significa che la permanenza (cioè la restrizione della libertà personale) non è autonoma conseguenza del provvedimento del giudice, ma è conseguenza prevista dalla legge. Se così è manca il titolo di detenzione costituzionalmente legittimo, cioè il provvedimento motivato del giudice, essendo il titolo di detenzione un effetto consequenziale della convalida secondo il dettato normativo. Quindi la restrizione della libertà personale non è altro che una conseguenza per legge (e non per atto motivato della autorità giudiziaria) della convalida dell’attività di P.S. compiuta nelle prime 96 ore. La cosa non è di poco conto sotto il profilo pratico. Infatti, supponiamo che Tizio, espulso con accompagnamento immediato, venga trattenuto nel centro con provvedimento del Questore perché manca il vettore, per tale motivo, la libertà personale di Tizio viene sacrificata per 20 giorni. Ma chi ci dice se l’indisponibilità del vettore perdura effettivamente per tutti i 20 giorni? E quindi che controllo giurisdizionale c’è sulla legittimità della corrispondente privazione della sua libertà?
Venendo poi a trattare della gestione pratica della convalida, con riferimento a quanto accade al Centro di permanenza temporanea di Torino, la situazione è a dir poco allarmante. Non solo, come si è detto, essa non avviene alla presenza di un difensore (perché non è prevista dalla legge), ma avviene altresì quasi sempre in assenza di un interprete. Se a ciò si aggiunge che il recluso normalmente non viene informato da nessuno circa il tipo di udienza cui viene condotto e che il giudice spesso nulla conosce della sua situazione, perché gli atti gli vengono forniti sul momento dalla polizia, è evidente che il giudice si troverà a decidere unicamente sul materiale cartaceo fornitogli dalla Questura dopo aver sentito, sommariamente senza interprete e senza difensore, lo straniero ristretto. Va da sé che, in tale contesto normativo e fattuale, la convalida rischia di tradursi in un atto di mero avallo acritico dell’operato della Questura. Quindi, il controllo di legittimità e di merito che il giudice è chiamato ad operare rischia, nei fatti, di essere più virtuale che reale.
Alla luce di quanto sinora esposto, pare evidente che, tra le tante novità previste dalla legge n. 40/98 (talune pure di segno positivo) vi sia l’introduzione surrettizia della detenzione amministrativa mascherata da un simulacro di provvedimento giurisdizionale. E siccome, una volta convalidato il trattenimento, l’espulsione può avvenire in qualsiasi istante, è evidente come l’udienza di convalida del trattenimento sia l’unico momento in cui è utilmente possibile far valere eventuali ragioni che siano di ostacolo all’allontanamento coattivo dal nostro paese. C’è da domandarsi che senso abbia prevedere, sulla carta, delle categorie protette di soggetti inespellibili, se poi questi difficilmente possono far valere le loro condizioni. Si pensi, ad esempio, ad una donna in stato di iniziale gravidanza (per legge inespellibile): o questa per puro caso ha con sé, al momento del “fermo”, documentazione medica attestante la sua condizione, ovvero difficilmente riuscirà a provarla nel breve termine entro il quale avverrà la convalida. Si pensi ancora, ai tanti che, in forza della recente “sanatoria”, hanno presentato domanda di regolarizzazione magari presso una Questura diversa rispetto al luogo in cui ha sede il Prefetto che dispone l’espulsione e non abbiano con sé la “ricevuta” al momento del fermo e del loro trattenimento: anche per costoro sarà arduo riuscire a dimostrare di aver richiesto un permesso di soggiorno in sanatoria. Certo, con l’ausilio di un avvocato, dopo la convalida (e prima della partenza) potranno sempre fare un ricorso … tardivo, perché privo di efficacia sospensiva. In alternativa, la legge consentirà loro di presentare ricorso – entro il comodo termine di 30 giorni – direttamente presso le rappresentanze consolari o diplomatiche italiane all’estero.
Qualora lo straniero da espellere sia sottoposto a procedimento penale, la legge richiede il nulla osta della autorità giudiziaria, che deve essere concesso, salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali. Tale norma risponde ad un criterio di garanzia e ragionevolezza: prima di espellere un imputato, è utile sentire il suo giudice per verificare se non vi siano esigenze processuale che ostino al suo allontanamento. Ma, come spesso accade, la prassi riesce a stravolgere anche le migliori intenzioni del legislatore. Infatti, se inizialmente il nulla osta è stato richiesto al Pubblico Ministero, spesse volte addirittura al P.M. di “turno” per gli arrestati e, quindi, nemmeno al P.M. titolare delle indagini (che, presumibilmente, dovrebbe avere una certa conoscenza del fascicolo processuale dell’imputato) invece che ad un giudice terzo, che meglio garantirebbe una obiettiva valutazione circa la sussistenza di eventuali ostacoli di natura processuale, dell’accusa così come della difesa, all’esecuzione dell’espulsione di un imputato, da ultimo, invece, sulla scorta di una isolata pronuncia di un giudice di merito (Pretura di Bolgona 3.7.1998), è invalsa la prassi – non prevista dalla legge – del c.d. “nulla osta tacito”. Con ciò intendendosi che, ogniqualvolta l’autorità giudiziaria (cioè la Procura della Repubblica) dimentica di comunicare il nulla osta all’espulsione di un imputato, lo stesso si considera virtualmente acquisito a meno che l’autorità giudiziaria non comunichi l’esistenza di cause ostative. E così, sull’altare dell’efficienza – intesa come sbrigativa e superficiale celerità – si sacrifica lo spirito di una norma volta a tutelare il corretto andamento del processo penale, salvaguardando le inderogabili esigenze processuali dell’accusa, della difesa e, perché no, anche della parte offesa.
Altra questione di notevole rilevanza riguarda la possibilità di reiterare la permanenza nel centro qualora, nonostante la proroga a 30 giorni del “soggiorno”, non si riescano a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla esecuzione dell’espulsione (perché, ad esempio, non si riesce ad identificare lo straniero per scarsa collaborazione delle rappresentanze consolari estere). In tal caso, alla scadenza del 30° giorno, l’espellendo dovrà essere sicuramente rilasciato. Tuttavia continuerà a gravare nei suoi confronti il decreto di espulsione del Prefetto con accompagnamento immediato: occorre tenere ben presente, infatti, che, decorso il termine massimo del trattenimento, è solo questo a venir meno, non certo l’espulsione che continua la sua efficacia. Pertanto, qualora lo straniero non ottemperi spontaneamente all’espulsione, si pone il problema della possibilità di reiterare la permanenza coatta, dopo averlo temporaneamente liberato. E siccome la legge nulla dice al riguardo, sarà la prassi di ogni singola questura a dettare legge. Con un duplice rischio: la disomogeneità di trattamento per situazioni analoghe (vi saranno infatti delle questure che riterranno di poter ripristinare la misura non appena lo straniero avrà varcato la soglia del cancello del centro, ed altre che potrebbero optare per il ripristino solo dopo un congruo lasso di tempo, dando così la possibilità allo straniero di ottemperare di sua volontà al provvedimento espulsivo); la reiterabilità “a catena” della restrizione, intervallata da brevi sospensioni ogni 30 giorni. E così potrebbe darsi il caso di un soggetto cui sarà data la entusiasmante possibilità di saggiare le condizioni di ospitalità in tutti i centri di permanenza italiani. In tal caso, però, i dubbi di incostituzionalità sopra esposti aumenterebbero a dismisura, perché non sarebbero temperati da una restrizione tutto sommato breve e predeterminata per legge anche in ordine alla sua durata. Con l’ulteriore corollario di una macroscopica ed irrazionale disparità di trattamento tra chi si trova in custodia cautelare in carcere perché sospettato di aver commesso un illecito penale per cui la legge determina i termini massimi della custodia cautelare stessa e chi, invece, non avendo commesso alcun reato, ma “solo” una violazione amministrativa è teoricamente passibile di una restrizione della libertà personale, intervallata ogni 30 giorni, che può ripristinarsi finché non si riesce ad eseguire la sua espulsione.
L’esistenza ed il concreto funzionamento dei centri di permanenza italiani è argomento di cui poco si conosce e si parla. Assai di rado ne riferiscono le cronache, ditalchè l’opinione pubblica non ne è informata, né la materia è oggetto di discussione da parte di chi, per competenza professionale ovvero per interesse culturale o politico, a vario titolo si occupa di immigrazione, sicurezza urbana, garanzie, certezza della pena e quant’altro. Nemmeno l’avvocatura associata che, a torto od a ragione non importa, rivendica da anni una soggettività politica asseritamente derivantegli dal suo ruolo di mediazione e garanzia nel conflitto tra individuo ed istituzione, ha sinora mostrato un qualche interesse per la questione che ci occupa. Tant’è che il risultato di questa generale disattenzione comporta la collocazione dei centri di permanenza in una sorta di limbo, non certo dorato, dimenticato dai più ed avvolto da una cortina di riservatezza che ne fa un luogo “separato”. Separato dal carcere, separato dalla società civile, separato dalle garanzie, separato – ovviamente – per via della diversa e spesso ignota cittadinanza di chi lo occupa. Non a caso luogo prodromico a quella separazione definitiva dall’occidente europeo che va sotto il nome di espulsione. Separatezza significa mancanza di trasparenza, e quindi di controllo e di informazione ove la discrezionalità può diventare arbitrio senza che nessuno se ne accorga, tranne chi lo subisce. L’informazione è dunque un grimaldello essenziale per infrangere la separatezza. L’informazione ha due facce: riguarda l’esterno e l’interno e presuppone una condizione: il diritto di accesso. Saputo dell’esistenza di un regolamento interno del centro di permanenza di Torino, il Presidente dell’ASGI chiedeva, in forza della c.d. legge sulla “trasparenza amministrativa”, di accedere al regolamento. Significativa è la risposta della locale Prefettura: “… si comunica che il Ministero dell’Interno, interpellato da questa Prefettura, ha ritenuto non sussistere nel caso in esame, il diritto di accesso in quanto non emerge l’interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che costituisce il diritto in parola …”. Né ovviamente, per le stesse ragioni il regolamento è reso noto mediante affissione in bacheca o altrove agli “ospiti” del Centro di Torino. Dunque esso è segreto.
Infine, sempre in tema di informazione, è opportuno ricordare che la legge impone la notificazione agli interessati degli atti concernenti l’espulsione, il trattenimento e l’eventuale proroga tradotti “in una lingua da lui (cioè dallo straniero) conosciuta ovvero, ove ciò non sia possibile in lingua inglese, francese o spagnola”. Ebbene, tutti gli atti in questione sono esclusivamente tradotti in una delle lingue europee indicate dalla legge solo in via subordinata. Nonostante Torino sia sede di istituti universitari e nonostante che interpreti giudiziari frequentino quotidianamente le aule di giustizia, l’amministrazione non è in grado di provvedere alla traduzione ed alla stampa di moduli tradotti in lingua araba, albanese o rumena. Ed allora la disinformazione riguarda anche il versante interno al centro, riguarda gli utenti che non sono messi in condizione di esercitare i loro peraltro già esigui diritti. Se all’ingresso nel centro non viene comunicato all’”ospite” che può contattare un avvocato, che entro 96 ore sarà sentito da un magistrato e che, nelle more, può ricorrere al giudice il quale valuterà il suo ricorso unitamente alla convalida del suo trattenimento, è ovvio che la tutela giurisdizionale resterà una facoltà inespressa, con l’unico vantaggio di non creare ulteriori intoppi alla esecuzione della sua espulsione.
La separatezza determina incomunicabilità e, questa è necessariamente bilaterale. Se vi è un deficit di informazione da parte dell’istituzione, analogo sarà il comportamento dell’utente che non solo ometterà di fornire i documenti o declinare le sue esatte generalità, ma potrebbe pure non comunicare eventuali patologie. Vero è che, all’ingresso, l”’ospite” viene sottoposto ad una visita medica, ma è ben possibile che da un superficiale esame obiettivo non specificamente mirato non emergano patologie (TBC, AIDS, ecc…) che potrebbero essere incompatibili con la detenzione e, d’altro canto, pericolose per gli altri internatiati.
Queste brevi considerazioni, lungi dal voler essere esaustive, sono un contributo di riflessione sui centri di permanenza temporanea rivolte a tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di migranti. Con una avvertenza: può apparire, forse, più utile fare ricerca sul campo, predisporre progetti di formazione e di inserimento o di accoglienza per gli extracomunitari “buoni”, quelli che lavorano, quelli che in qualche misura accettano la legalità e non mettono a repentaglio più di tanto la sicurezza dei nostri quartieri. Sappiate, però, che il confine tra regolarità ed irregolarità è assai labile: mentre è difficile diventare regolari da clandestini (se non tramite le periodiche sanatorie che costituiscono, al di là delle ipocrisie, l’unico vero strumento di controllo del fenomeno migratorio), è molto facile il percorso inverso. E l’espulsione potrebbe sempre essere una alternativa non voluta ma possibile. Per questo, la soglia di attenzione per l’effettività delle garanzie e dei diritti di tutti non deve scendere fino all’accettazione della separatezza, neppure se questa pare necessitata dalle sinistre sirene emergenziali che, quotidianamente, ci assordano.
Torino, 29 settembre 1999 Guido Savio zip@ecn.org