Nella trasformazione urbana uno dei conflitti più importanti e decisivi è quello tra i valori d’uso del suolo ed i valori di scambio, in altre parole fra chi considera la città un luogo della vita quotidiana, all’interno del quale rispondere ai propri bisogni e desideri, e chi invece la interpreta come una proprietà privata da cui trarre una rendita e un settore di investimento di capitali da cui trarre profitto.
I processi di urbanizzazione
guidati dalle logiche di valorizzazione fondiaria ed immobiliare, sono
responsabili della produzione di gran parte dei problemi urbani che ci troviamo
ad affrontare: la segregazione funzionale, la perenne questione abitativa, la
progressiva scomparsa dello spazio pubblico, la mancanza di luoghi non
mercificati per la socializzazione, l’elaborazione culturale e l’espressione
artistica. Il mercato produce solo per chi può pagare, gli altri sono esclusi e
con loro tutte le attività difficilmente mercificabili. Se il profitto e la
rendita (rendita = ciò che un proprietario fondiario ottiene per il solo fatto
di possedere un terreno) sono il fine della trasformazione urbana non verranno
mai costruite case a canoni accessibili o luoghi di socializzazione esterni
alla logica di mercato o spazi pubblici per l’incontro e lo scambio sociale. Un
fondamento del mercato fondiario ed immobiliare sono le differenze di valore
fra aree pregiate ed aree marginali, che corrispondono alla divisione
gerarchica della società, perché solo avendo le qualità distribuite in modo
ineguale si possono raggiungere i prezzi massimi: le classi dominanti sono
disposte a pagare molto per disporre di aree in cui i soggetti e le funzioni
svalorizzanti (case popolari in primo luogo!) sono tenute lontane.
La nostra amministrazione non è un attore passivo in questo processo di urbanizzazione improntato alla valorizzazione fondiaria ed immobiliare: con il piano regolatore approvato nel 1995 ha scelto di localizzare nelle aree dismesse della Fiat, dell’IRI e delle Ferrovie dello Stato, tutte le funzioni che in potenza producono il maggior profitto: terziario direzionale, in altre parole uffici, e servizi per le imprese. Tutte queste aree si trovano lungo il passante ferroviario, (la linea ferroviaria che va da nord a sud che stanno coprendo con quello che chiamano il “boulevard”, in realtà un asse a scorrimento veloce), con cui formano “la spina centrale”. Un bel regalo ai poteri forti che si sono visti di botto rivalutare i loro terreni che senza il nuovo “boulevard”, senza cambio di destinazione da industriale a terziario e senza tutte quelle volumetrie costruibili (quasi 3 milioni di mq. di superficie territoriale, cioè comprese strade e aree a servizi, della Spina, in massima parte di proprietà FIAT, ex IRI, FS, producono 2 milioni di mq. di superficie lorda di pavimento) valevano ben poco e sui quali gravano ingenti costi di bonifica necessari per disinquinare suoli compromessi dalle attività industriali che vi si svolgevano, (bonifiche che ora sta pagando lo Stato). Le aree dismesse intorno alla Spina centrale sono state divise in 4 settori: Spina 1: fra corso Lione, corso Mediterraneo e Corso Tirreno; Spina 2: corso duca degli Abruzzi, corso Vittorio Emanuele, corso Ferrucci più l’area del Palazzo di Giustizia e quella fra corso Bolzano e corso Inghilterra fino a Porta Susa; Spina 3: Corso Umbria, corso Principe Oddone, corso Mortara più l’area fra via Borgaro, via Verolengo, corso Mortara; Spina 4, quella intorno al parco Sempione.
Il piano prevedeva erroneamente che Torino sarebbe diventata una città terziaria anche grazie alla grande offerta di aree per uffici che consentiva di edificare, solo che nessuno li ha costruiti. Amministratori e professionisti che hanno redatto il PRG erano convinti che la riduzione della città ad un oggetto da vendere sul mercato attraverso operazioni di “marketing urbano” avrebbe attratto capitali ed attività, cosa che non è successa.
Il piano per trattare in modo equo i proprietari fondiari, attribuisce a tutti i suoli destinati ad uso urbano, un eguale diritto edificatorio: concede le massime volumetrie costruibili e permette di edificare sostanzialmente tutto dappertutto (uffici, abitazioni, servizi alle imprese e alle persone), con l’effetto che se tutti quei diritti edificatori fossero effettivamente utilizzati raggiungeremmo densità insostenibili.
Il piano lega la realizzazione di servizi sociali ed aree pubbliche agli interventi immobiliari perché solo se i privati decidono di costruire quel che è loro concesso, devono cedere aree per realizzarli. La politica pubblica nel campo dei servizi diventa residuale, dipende completamente dalle scelte di trasformazione immobiliare ed è subordinata ai tempi delle scelte private.
Il piano del 95 aveva lo scopo di offrire il massimo delle opportunità al mercato immobiliare soprattutto terziario, per favorirne l’intervento, ma la crisi del mercato degli uffici, determinato da un’assenza di domanda, ha fatto sì che i tanto agognati fondi privati non si mobilitassero affatto. Tanto che nel 1998 una variante del piano prevede una seppur parziale, riduzione delle volumetrie, non perché ritenute eccessive, visto che eccessive rimangono, ma perché non rispondevano alla domanda del mercato.
Poi la tanto decantata partnership pubblico privato in cui avrebbero dovuto essere mobilitati fondi pubblici e privati si è trasformata in una divisione dei compiti: il pubblico ci mette i soldi, il privato le decisioni. Tutte le operazioni che sono in corso lungo il passante ferroviario (chiamato pomposamente dal piano “Spina centrale”), e che avrebbero dovuto godere di un finanziamento misto pubblico – privato, sono tutte finanziate o dallo Stato o all’Unione Europea. In momenti di mercato stagnante è il pubblico che investe. Ma la cosa grave è che quei fondi pubblici sono utilizzati per realizzare funzioni che valorizzano le aree dei privati (in primo luogo, vale la pena di ricordare: FIAT, IRI, Ferrovie), che poi quando l’operazione di trasformazione è già avviata e i famosi “rischi d’impresa” sono aggirati, quando il mercato non è più depresso, quando i profitti sono certi, realizzeranno la loro parte di interventi.
I “Programmi di riqualificazione urbana” (che prevedono partnership pubblico privato: Spina 1, 3 e 4, Superga, piazza Madama Cristina, quartiere E27 e 29), i “programmi di recupero urbano” (che prevedono la riqualificazione di aree di edilizia popolare, quelli del Progetto Periferie per intenderci: corso Grosseto, via Ivrea, via Artom), il “contratto di quartiere” di via Arquata, i progetti come l’Environment park sulle aree Teksid (la Spina 3), il Progetto The Gate per Porta Palazzo (volto a farne un ennesimo centro commerciale all’aperto e ad eliminare le aree pubbliche di incontro e scambio informale), il “raddoppio del politecnico” intorno a via Pier Carlo Boggio (la Spina 2), sono TUTTI finanziati o dallo Stato o dall’Unione Europea. La parnership pubblico privato per grossi interventi di trasformazione come quelli sulle aree dismesse, diventa un’operazione in cui il pubblico si assume i rischi e investe capitali, mentre il privato e più in generale la logica esclusiva e segregante del mercato immobiliare decide cosa, dove e come costruire. Poco importa che nei documenti di piani e progetti si indichi quanti miliardi investe il privato e quanti il pubblico: l’unico che fino ad ora ha tirato fuori i soldi in una situazione di rischio per il mercato (rischio di non riuscire a vendere o affittare ciò che viene costruito), sono lo Stato e l’Unione Europea e lo fanno in una logica stretta fra il contenimento ed il controllo dei più esplosivi problemi sociali (recupero delle periferie, dei quartieri di edilizia popolare, delle aree marginali) e l’idea che il mercato si autoregoli automaticamente nel modo migliore (!!).
Intanto il mercato, dove l’intervento è privo di rischi e il più delle volte utilizzando finanziamenti pubblici, realizza centri commerciali e negozi, parcheggi a pagamento, case in vendita, propone megacentri commerciali e spazi per attività per il tempo libero in cui tutto è ridotto a merce da vendere a chi può comprarla.
Anche il Progetto Periferie, apparentemente più condivisibile, si limita a voler rendere più accettabili e vivibili aree segregate e segreganti. Le zone dove è sorta l’edilizia popolare (definita anche edilizia residenziale sovvenzionata) dopo la legge 167 del 1962, relativa ai Piani di edilizia economica e popolare, erano quelle più marginali, erano i buchi rimasti vuoti dopo l’urbanizzazione selvaggia operata dalle immobiliari nel dopoguerra. Erano e a maggior ragione sono oggi, le aree su cui il mercato non interverrebbe mai, perché i soggetti sociali e le funzioni che vi si trovano sono incompatibili con le funzioni che producono profitto: uffici e centri direzionali, servizi alle imprese, residenze di lusso, negozi di merci di lusso. Ecco allora delle aree dove intervenire senza doversi confrontare con i poteri forti. E’ importante dire, come fa il Progetto periferie, che nei quartieri popolari si sono determinate reti sociali di relazione e solidarietà, malgrado la segregazione funzionale, la carenza di servizi e di luoghi di socializzazione e creazione di cultura, lo squallore di certi edifici e tessuti edilizi, la mancanza di spazi pubblici adatti ad attrarre flussi di persone ed a facilitare gli incontri. E’ importante riconoscere la creatività dei soggetti che in quelle aree vivono, ma purtroppo la partecipazione degli abitanti alle scelte verte sempre su questioni del tutto irrilevanti (“volete l’albero qui o là?”, “Qui ci deve essere un supermercato, preferite questa forma o quest’alta?”).
Il problema è in base a quale logica viene deciso cosa, dove e come costruire o recuperare all’interno della città. Se la logica è quella del mercato sappiamo cosa ci aspetta: pochissima edilizia popolare e tutta in zone marginali, niente case in affitto a prezzi accessibili a sottoccupati e disoccupati, spazi pubblici trasformati in centri commerciali all’aperto, videocamere e militarizzazione dello spazio per proteggere i privilegiati, quelli che ci vorrebbero sottrarre tutte le risorse e le possibilità di azione in nome del diritto di proprietà.
L’amministrazione e lo Stato potrebbero requisire le case e gli edifici sfitti, tassare le grandi proprietà fondiarie ed immobiliari, costruire edilizia popolare che risponda ai bisogni ed ai desideri di chi vi andrà ad abitare, invece assumono il mercato come parametro per tutte le operazioni, vendono le poche case di edilizia popolare esistenti, senza costruirne di nuove. Quasi tutta l’edilizia residenziale pubblica, cioè finanziata dallo Stato, realizzata o in progetto a Torino, e non solo, è convenzionata o agevolata, cioè si tratta di alloggi realizzati da imprese o cooperative e destinate alla vendita a prezzi un po’ inferiori a quelli di mercato. Lo Stato investe molti capitali per favorire la proprietà della casa, ma così facendo finanzia la fascia alta della domanda abitativa, e lascia scoperto un vasto settore sociale che non ha accesso ai mutui e agli affitti stratosferici del dopo “equo canone”.
Nessuno nell’amministrazione ha il coraggio di toccare gli interessi forti, quelli delle grandi imprese come la FIAT, da tempo impegnate in attività finanziarie ed immobiliari, o quelli dei proprietari fondiari, anzi li favoriscono apertamente.
L’unico modo per iniziare a risolvere i problemi causati a Torino dall’assunzione della logica del mercato immobiliare e fondiario è agire adottando un’altra logica, contrapposta, quella fondata sulla risposta ai bisogni sociali e sulla costruzione di luoghi in cui sia possibile la libera espressione e realizzazione di sogni e desideri da parte di tutti quei soggetti e gruppi sociali a cui il mercato non risponde perché non hanno reddito sufficiente, ma non solo, che chiedono qualcosa che non può trovare risposta attraverso le merci.
L’occupazione di immobili dismessi, lasciati vuoti in attesa di futuri nuovi interventi o semplicemente perché tanto il valore del suolo (la rendita) si incrementa senza che sia necessario far nulla, è una pratica sociale che agisce concretamente contro il mercato capitalistico che è la causa ed il motore generatore principale di un modo di produzione della città che ci esclude, segrega, impedisce, limita.
E se molto c’è da dire sull’uso delle proprietà private, è ancora più scandaloso che anche quelle pubbliche restino inutilizzate o vengano privatizzate o valorizzate dal punto di vista economico mentre potrebbero risolvere almeno una parte dei bisogni sociali.
Abbiamo occupato l’immobile dell’Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza (IPAB) “Istituto Nido Giardino Principessa Letizia” in corso Racconigi 143, vuoto dal 1982, perché vogliamo iniziare a prendere ciò di cui abbiamo diritto ma che ci viene negato dalle leggi del mercato, dalla privatizzazione dei beni pubblici, dal clientelismo a favore di supposti benefattori. Vogliamo realizzare abitazioni per una decina di noi, un’area per l’emergenza abitativa, un ostello per studenti, spazi sociali aperti al quartiere ed alla città. E’ il Laboratorio metropolitano Plaza Hostel in cui c’è anche la sede del “Movimento per il diritto alla casa”.
Il problema della casa e degli spazi sociali è risolvibile se si iniziano ad utilizzare gli spazi vuoti appartenenti allo Stato, alle amministrazioni, ai vari enti ed istituzioni e se si bloccano le privatizzazioni, tanto lucrose e appetibili per i gruppi immobiliari. Le case occupate in immobili prima vuoti, sia quelli residenziali, sia quelli prima destinati ad altri usi, possono così essere autorecuperate attraverso la progettazione diretta dei futuri fruitori degli spazi, sia privati che collettivi.
Con l’idea che si possa andare oltre e
contro una città che esclude, controlla, segrega, e non è in grado di garantire
l’essenziale, iniziando a realizzare piccole schegge di un mondo possibile, da
costruire pezzo per pezzo.
Movimento per
il diritto alla casa
Laboratorio
metropolitano Plaza Hostel