APPUNTI DA UN VIAGGIO IN KOSOVO, AGOSTO 1999


ottobre 1999, di Davide Volante, Andrea Speranza

martedì 3 Agosto 1999

ARRIVO A PRISHTINA

Alle 14, dopo oltre due ore di volo siamo atterrati all'aeroporto di Slatina (Prishtina). La prima cosa che vediamo scendendo dalla scaletta dell'aeroplano è una sventolante bandiera russa sbiadita dal sole cocente, ma gli unici soldati presenti sono quelli inglesi perchè il contingente russo non ha un'area di esclusivo controllo ma è disseminato nelle zone italiana, inglese, tedesca, francese ed americana. Nel corso del viaggio diventerà chiaro che un'immagine realistica dell'esercito russo lo danno i check point in cui i soldati chiedono sigarette o marchi ai kosovari. Prishtina è rimasta sostanzialmente intatta. I bombardamenti della NATO sono stati estremamente limitati e di una precisione impressionante: la centrale di polizia, l'ufficio postale e la stazione degli autobus (ove erano nascosti dei tank) sono state totalmente distrutte; gli edifici adiacenti hanno subito danni limitati, ad eccezione di alcune case a fianco della posta centrale, che sono state distrutte. Le milizie serbe si sono "limitate" a cacciare dalla città quanti più albanesi possibili senza saccheggiare e distruggere sistematicamente negozi e abitazioni, come invece è stato fatto nelle campagne e in città come Peja o Vushtrri . Questo per noi è una sorpresa: a parte una strada con decine di negozi di proprietà di albanesi che sono stati bruciati, le notizie che ci erano giunte durante il periodo dei bombardamenti Nato ci avevano preparato ad uno scenario ben peggiore. La città si anima verso il tramonto quando la via principale viene chiusa al traffico dai militari della KFOR, e in essa si riversano migliaia di ragazzi festanti. Le strade del centro brulicano di giovani fino a circa mezzanotte; nei nostri viaggi precedenti (nei mesi di Dicembre '98 e Marzo '99) avavamo constatato che dalle 18.00 scattava una sorta di coprifuoco non dichiarato. In un tripudio generale riecheggiano le canzoni (provenienti dagli impianti stereo dei numerosi venditori ambulanti) dei vari Arif Vladi, Ilir Shaqiri, Edona Llalloshi. Sicuramente la cantante più amata è Leonora Jakupi, una ragazza di Skenderaj, il cui padre è perito lo scorso anno durante la repressione serba. Non c'è persona in Kosova che non conosca a memoria il suo cavallo di battaglia: "Po vritet pafajesia" meglio nota come "Drenica", che ha ispirato un video, con la Jakupi che compare anche in divisa UCK.


Mercoledì, 4 Agosto

ALBIN KURTI

In prima mattinata contattiamo il fratello di Albin Kurti, Arianit, e fissiamo un appuntamento per il pomeriggio. Albin 24 anni, studente di ingegneria, in qualità di membro della UPSUP (Indipendent Student Union, sindacato studentesco dell'università di Prishtina) a partire dal 1997 è tra gli organizzatori di una serie di proteste nonviolente (duramente represse dalle autorità serbe) per riconquistare il diritto all'uso delle aule dell'università di Prishtina, interdette agli studenti e ai docenti albanesi dal 1991. In questo decennio gli albanesi hanno risposto a questo autentico regime di apertheid creando un grandioso sistema di istituzioni parallele di cui scuole e università (per la quasi totalità semplicemente case private o polverosi retrobottega) sono state la spina dorsale. Negli ultimi mesi del 1998 Albin diviene il segretario del portavoce politico dell'UCK, Adem Demaci (in seguito dimessosi da tale carica in dissenso con la firma da parte albanese degli accordi di Rambouillet). Albin lascia la UPSUP e ogni attività politica nel febbraio del 1999. Il 27 Aprile 1999, Albin, suo padre e il fratello Arianit (22 anni) sono stati incarcerati e duramente picchiati durante l'arresto (e per tutto il periodo di detenzione). Restano a Prishtina fino al 9 aprile, in seguito vengono spostati nel carcere di Lipjan ove rimangono per un mese. Una volta firmati gli accordi di Kumanovo, Albin e un numero imprecisato, tra 2000 e 7000, di prigionieri politici sono stati trasferiti in Serbia nonostante le vibrate proteste (e il colpevole silenzio dei governi occidentali che negli accordi di Kumanovo non hanno menzionato la questione prigionieri albanesi) di numerose associazioni di tutto il mondo comprese le donne in nero di Belgrado. Arianit ed il padre vengono invece liberati. Arianit ci informa che il fratello attualmente è detenuto a Pozarevac (città natale di Milosevic nei pressi di Belgrado) ma, fino ad ora, non sono riusciti a fargli visita per timore che in territorio serbo possano subire ulteriori violenze, e si sono rivolti (come decine di parenti di altri detenuti politici) alla Croce Rossa Internazionale (inutilmente) per essere "scortati" a Pozarevac. Lo lasciamo con l'impegno di ritrovarci venerdì di fronte al teatro "Adem Jashari" (denominato "Nazionale" sotto in regime di Tito e divenuto "Serbia" con Milosevic) da dove partirà la manifestazione tesa a sollecitare la liberazione dei prigionieri politici o per meglio dire ostaggi, dato che il regime di Belgrado adesso pretende 10000 dollari per la restituzione di ogni persona. Gli albanesi che attualmente si trovano nelle prigioni serbe sono studenti, intellettuali, insegnanti, semplici contadini, rastrellati illegalmente (e detenuti senza regolare processo e alcuna prova a loro carico) prima e durante la campagna aerea della Nato ed accusati di attività terrorista o di attentato all'integrità della FRY.


giovedì 5 Agosto

UPSUP

Il giorno seguente ci rechiamo nella bella sede, nuova di zecca, della UPSUP. Incontriamo il presidente Driton Lacaj e il direttore del quotidiano studentesco "Bota e Re" (Il Nuovo Mondo). Questa organizzazione con le eroiche lotte condotte nel 1997 ha sfidato il regime serbo e allo stesso tempo ha messo in difficoltà la politica di resistenza passiva della LDK (Lega Democratica del Kosova) totalmente inadeguata a contrastare il regime di Milosevic. Però gli studenti kosovari in questi anni hanno pagato duramente il loro impegno, ad esempio: quando il primo Ottobre del 1997 Albin Kurti, Bujar Dugolli (all'epoca presidente della UPSUP e adesso ministro dello sport e della gioventù), Driton Lacaj (all'epoca vicepresidente) e numerosi altri studenti vengono brutalmente picchiati e arrestati a seguito di una manifestazione assolutamente pacifica; oppure quando Ardian Haxhaj e Sadik Zegiri che a causa dei loro scritti su "Bota e Re" sono stati arrestati e deportati in Serbia, ove si trovano tuttora; senza parlare delle migliaia di ragazzi (e ragazze) che durante il conflitto si sono arruolati nell'UCK perdendo la vita. Diversi studenti, conosciuti in seguito, pur riconoscendo i meriti di questo sindacato ne chiedono una profonda riforma. Non lesinano critiche alla "degenerazione" burocratica e la progressiva perdita di autonomia di questa organizzazione (si cita il fatto che B. Bugolli è rimasto presidente in carica nonostante avesse trenta anni compiuti, oppure che alcuni vogliono sfruttare il loro ruolo all'interno della organizzazione come trampolino di lancio per una futura carriera politica). In tal senso alcuni studenti tentano di far passare un principio di rotazione degli incarichi (con dei precisi limiti di età). L'accoglienza riservataci dai ragazzi della UPSUP è stata decisamente buona. Nonostante alcune divergenze, hanno ascoltato attentamente e con grande rispetto le nostre posizioni. Durante la discussione i rappresentanti della UPSUP ci dicono che siamo la prima Associazione/organizzazione italiana dichiaratamente di sinistra e a favore dell'autodeterminazione del Kosova che incontrano. La cosa è stupefacente perchè la sinistra nostrana ha scritto di tutto (spesso in maniera molto dura e perentoria) sul Kosova ma non ha mai cercato un reale confronto e conoscenza delle varie realtà presenti sul campo, lasciando che fossero i pacifisti o addirittura i radicali a riempire questo vuoto. Ben diverso è il discorso per gli altri paesi europei; nel corso degli ultimi anni gli studenti e i lavoratori albanesi (ad esempio i minatori di Trepca) hanno collaborato/dialogato con numerose organizzazioni dell'estrema sinistra francese, scozzese, inglese e spagnola.


Venerdì 6 Agosto

LKCK

La manifestazione per i prigionieri politici ha un discreto successo, circa mille persone, considerando che viene fatta simultaneamente anche negli altri principali centri del paese. L'unica pubblicazione distribuita durante il corteo è la rivista CLIRIMI (Liberazione), organo dellí LKCK (Levizja Kombetare per Clirimin e Kosoves), Movimento Nazionale per la Liberazione del Kosovo, che va letteralmente a ruba. La LKCK è una presenza discreta ma costante nelle città kosovare infatti, non è raro trovare scritte che ad un tempo inneggiano alla LKCK e all'UCK. Il nostro interesse circa questo movimento è dovuta al fatto che sapevamo che questa era un'organizzazione di sinistra e l'interesse aumenta quando veniamo a sapere che nella zona sotto il controllo delle truppe USA (Gjilan) è stata vietata la distribuzione ed è stato arrestato un giornalista di "CLIRIMI" a causa un articolo in cui si criticava la KFOR. Grazie ad un amico fissiamo un incontro con Sabit Gashi, giovane leader della LKCK e ministro della cultura nel governo Thaci. Il nostro interlocutore nonostante il ruolo istituzionale parla con una certa franchezza anche in merito a questioni piuttosto spinose, molto in sintesi: Questo movimento politico nasce (in clandestinità) nel 1992 dalla constatazione che liberazione del Kosova dall'oppressione esercitata del regime di Belgrado poteva avvenire solo tramite la lotta armata; negli anni successivi iniziano un lavoro di preparazione politica in tal senso, dato che i tempi per un'insurrezione di massa vengono giudicati prematuri. Sono stati contro la firma degli accordi di Rabouillet perchè (nel momento di massima mobilitazione del popolazione kosovara) non veniva fissata una data certa per il referendum per l'indipendenza. I membri della LKCK hanno combattuto nelle file dell'UCK, organizzazione con la quale in passato avevano avuto alcune divergenze tattiche sulla pratica della lotta di liberazione nazionale. La LKCK sosteneva la necessità di formare una struttura militare come precondizione per iniziare la lotta armata, e criticò i primi attentati ai danni di poliziotti serbi da parte dell'ancora clandestino UCK, giudicandoli prematuri. Non ripongono molta fiducia nei governi occidentali e nella KFOR (chiaramente percepita come una potenziale forza di occupazione) infatti hanno sempre sostenuto che la liberazione del Kosova è da realizzarsi con le SOLE forze dei kosovari. Si battono affinchè venga fissato il prima possibile un referendum per l'indipendenza. Il loro principale obiettivo é l'indipendenza e nel loro movimento sono rappresentate varie tendenze politiche con l'esclusione di fascisti e razzisti.


sabato 7 Agosto

BIRRA E LIBERTA'

Il viaggio da Prishtina a Peja lo facciamo a bordo di uno sgarruppatissimo pullman, zeppo di gente, con una temperatura torrida; nel corso dell'ora e mezza di viaggio dobbiamo fare una deviazione su una strada sterrata, perchè quella principale, bombardata con precisione dalla Nato in corrispondenza di alcuni ponti, è ancora interrotta. Il vanto di Peja è una birra con la sua etichetta nuova di zecca: "EXTRA birre e Pejes" (EXTRA la birra di peja) "made in Kosova". Prima della guerra si chiamava PECKO (in serbo). Ci dicono che sono tanto orgogliosi di quella birra perchè oltre che essere il primo prodotto "made in Kosova", dopo gli anni di attività forzatamente clandestine finalmente hanno la possibilità di produrre qualcosa in piena autonomia e alla luce del sole! Se un osservatore straniero vuole farsi un'idea di cosa è stata la guerra in Kosova, e delle motivazioni dell'odio di oggi, questo è uno dei luoghi che deve visitare. Peja è una città spettrale, uno degli spettacoli più desolanti che una persona possa immaginarsi. L'esercito serbo, ampiamente supportato da diversi gruppi paramilitari e con la collaborazione di molti civili, per oltre un mese ha spadroneggiato per la città. Il loro scopo era cancellare ogni traccia della presenza albanese, infatti solo così si può spiegare lo spettacolo dell'oramai inesistente grande centro storico totalmente raso al suolo dalle ruspe e la sistematica distruzione di tutto ciò che era albanese; le case nell'ordine delle decine di migliaia sono state sistematicamente saccheggiate e poi incendiate. Adesso ne rimangono unicamente gli scheletri scoperchiati e i cumuli di oggetti resi indecifrabili dal fuoco che gli aguzzini al soldo di Milosevic non hanno ritenuto degni di essere portati via. Grandi responsabilità ha anche la KFOR italiana, che il 12 giugno ha atteso 24 ore a Gjakova che i bulldozer serbi completassero l'opera, prima di entrare nella città ancora fumante. La debolezza dell'UCK in questa area (praticamente assente nella città) ha impedito un'efficace resistenza. Ma questa è stata una costante durante il conflitto (nonostante le cose che spesso si leggono sui giornali), l'UCK disponeva infatti quasi esclusivamente di armamento leggero (infatti nonostante le loro pressanti richieste, durante il conflitto, la NATO non ha mai paracadutato massicciamente armi moderne e viveri per i combattenti) valido per la guerriglia ma decisamente poco utile in uno scontro frontale con i tank e l'artiglieria dell'esercito serbo. Inoltre si deve aggiungere che i combattenti dell'UCK erano per lo più contadini, studenti e gente con una preparazione militare molto approssimativa (gli analisti affermano che l'UCK in un anno è passato dalle poche centinaia di effettivi iniziali ad oltre 30000 alla fine della guerra). Il principale luogo di ritrovo dei giovani di Peja è un locale chiamato "La dolce vita". Gran parte del personale è costituito da giovanissimi ex combattenti, che si divertono tra un mare di giovani e musica a tutto volume: oltre alle immancabili canzoni patriottiche, molta pop-turca (Tarkan) e motivi tradizionali riarrangiati. Il giorno in cui siamo arrivati il comando della KFOR italiana aveva intimato agli albanesi di rimuovere le loro (tante) bandiere nazionali (l'aquila nera su sfondo rosso) poste su tutti gli edifici pubblici e sui balconi degli appartamenti. Chiediamo a Mohammed, un leader della UPSUP, un giudizio sulla situazione nella sua città (Istog) controllata dalle forze spagnole, la risposta perentoria è "spanisch non democratic! fascists! but.....but UCK bumbumbubmbubum!" accompagnando il rombo con un secco movimento dell'avambraccio. Chiediamo anche qui dei rom e dei serbi scappati. Il coro è unanime: la gran parte se ne è andata via perché aveva la coscienza sporca: i capifamiglia si sono resi troppo spesso complici della pulizia etnica. E i pochi rimasti hanno dovuto subire la rabbia di chi tornando non ha trovato più nulla.


Domenica 8 agosto

PEJA

Trascorriamo la mattinata in giro per Peja, tra scenari di devastazione impressionanti. Una cosa che salta all'occhio è il grande lavoro della gente, impegnata a sgomberare le macerie sul luogo nel quale si trovava la loro casa, oppure alla riparazone degli edifici (privilegio per i più fortunati). Peja era conosciuta come una tra le città più belle e ricche della ex-Jugoslavia, con i suoi negozi, le antiche moschee, centri commerciali e gioiellerie nella strada principale, che ora è ridotta ad un cumulo di macerie. Nella zona di Peja, assegnata alla KFOR italiana, supportata dagli spagnoli e dai portoghesi, ai soldati è vietata la libera uscita, a differenza dei contingenti dislocati nelle altre aree del Kosova. La situazione è ancora di tensione, con frequenti episodi di violenza. La presenza della KFOR italiana è decisamente visibile; vi sono numerosi posti di blocco e ogni macchina "sospetta" viene fermata e controllata da cima a fondo. Gli albanesi giudicano la presenza italiana generalmente in maniera positiva, ma a denti stretti; tutti si dichiarano contrari al disarmo dell'UCK

Quattro ragazzi albanesi, conosciuti in un bar, ci portano a visitare le gole di Rogovo, appena fuori Peja, sulla strade che collega al Montenegro. Sono una specie di canyon, che segue il corso di un fiume: dall'alto delle rocce i guerriglieri hanno teso imboscate alle milizie serbe durante tutto il conflitto. Per arrivarci bisogna passare due check-point della KFOR italiana, situato a due passi dal famoso Patriarcato della Chiesa Serba Ortodossa; veniamo fermati per una ventina di minuti, i militari trattano gli albanesi con tono arrogante e scortese. Come a Prishtina, anche a Peja la sera si assiste allo "struscio" nelle strade del centro, con migliaia di giovani che rimangono in giro fino circa alle 23.00. Tra i ragazzi in festa si notano alcuni ex-guerriglieri, ai quali mancano degli arti; in questa zona sono frequenti gli incidenti provocati dalle mine. Qui tutti coloro con cui abbiamo parlato hanno detto di avere sostenuto attivamente la lotta armata oppure di avere combattuto con l'UCK nelle campagne o sui monti che circondano la vallata di Peja.


Lunedì 9 agosto

JUNIK

Al seguito di una ONG italiana, ci rechiamo nella zona a sud di Peja, per visitare alcuni villaggi e per monitorare le condizioni della popolazione. La strada che porta a Decani è disseminata di case distrutte e circondata da campi minati.

La prima sosta è a Prilep, un villaggio tra Decani e Gjakova, bombardato dall'aviazione serba nell'offensiva dell'estate 1998. I pochissimi abitanti che sono tornati (200 circa su una popolazione di circa 2.000 abitanti prima della guerra), vivono in condizioni molto difficili; il loro problema principale è la casa, della quale spesso non sono rimaste in piedi nemmeno le mura. Alcuni di loro vivono in alcune tende fornite dall'UNHCR: sono dei forni d'estate, ma saranno sicuramente insufficienti per il durissimo inverno del Kosova.

Da Prilep ci spostiamo nella zona di Junik, a pochi chilometri dal confine con l'Albania; è la zona dove gli scontri tra l'UCK e le forze serbe sono stati più intensi. Junik e i villaggi circostanti sono totalmente distrutti ma, a differenza di gran parte delle zone del Kosova, la gente non è ancora tornata. Ci sono tracce di combattimenti casa per casa, trincee ancora ben visibili ai lati della strada (Junik è stata controllata per un breve periodo dall'UCK nell'estate 1998), ovunque vi sono campi minati. In un villaggio sopra Junik vive soltanto un vecchio: la sua casa è stata bruciata e gravemente danneggiata, ma è rimasta in piedi, per comprare da mangiare deve scendere a Junik, ci chiediamo come farà a sopravvivere all'inverno incombente. Visitiamo altri villaggi, o meglio quanto rimane di altri villaggi, e la gente si lamenta con le ONG straniere, che non forniscono ciò di cui hanno realmente bisogno. Sulla strada del ritorno per Peja sono visibili un paio di caserme bombardate dalla Nato.


Martedì 10 agosto

BARDHYL MAHMUTI

Tornati a Pristina, grazie ad un amico abbiamo la possibilità di incontrare Bardhyl Mahmuti, nella sede in costruzione del partito di cui è presidente, il Partito Democratico per l'Unità (PDB, Partia e Bashkimit Demokratik), fondato il 4 luglio 1999 (ultimamente confluito nel nuovo partito di Hashim Thaci) . Mahmuti (ministro degli esteri del governo Thaci), imprigionato dal 1981 al 1988 a seguito delle proteste studentesche contro il regime Belgrado, dal 1990 si trasferì in Svizzera, da dove si attivò nella LPK (Levizja Popullore e Kosoves, Movimento Popolare del Kosova), un'organizzazione di orientamento marxista-leninista che operava prevalentemente all'estero, Questa organizzazione costiturà il nucleo attorno a cui negli anni novanta sorgerà l'UCK. Mahmuti durante la guerra fu il portavoce all'estero dell'UCK e criticò apertamente la NATO per la mancata fornitura di armi pesanti e viveri durante il conflitto armato. Ci riceve con molta cordialità presentando il suo nuovo partito come pronto a battersi contro ogni discriminazione presente nella società, citando il razzismo e l'oppressione della donna albanese come due fenomeni da contrastare. Anche la PDB ha come obiettivo finale l'indipendenza del Kosova. Mahmuti si è definito un uomo di sinistra; verso la NATO il suo è un atteggiamento di appoggio critico; riconosce la mancanza di ruoli di responsabilità per gli albanesi nell'amministrazione del Kosova. Si dichiara assolutamente contrario ad una spartizione del Kosova e della città di Mitrovica, si è mostrato interessato alle nostre iniziative in Italia in supporto dei prigionieri politici albanesi detenuti in Serbia. Si è espresso a favore degli accordi di Rambouillet, accettati "pragmaticamente" come occasione per liberarsi del dominio serbo con l'aiuto della NATO.


Mercoledì, 11 agosto         

MITROVICA

A Mitrovica ci accompagna Agim (conosciuto la sera prima in un chiosco) un immigrato Kosovaro che risiede nella provincia di Bergamo dove lavora in una grossa fabbrica di trattori. Ci racconta che è tornato in Kosova dopo diversi anni perchè il padre è stato ucciso dai militari serbi nei primi giorni di aprile quando è stato cacciato dalla sua abitazione di Prishtina. Mitrovica è divisa in due: la parte nord della città è in mano ai serbi, che prima della guerra costituivano il 30% della popolazione; qui si trova la maggior parte degli edifici pubblici pubblici (tra i quali l'ospedale e l'università). La parte meridionale, quella albanese, è in gran parte distrutta. Il ponte sul fiume Ibar, che taglia in due la città, è presidiato dalla Kfor francese, che permette di passare da una parte all'altra della città soltanto a donne o a persone anziane Gli studenti albanesi della facoltà di Metallurgia (unica facoltà presente a Mitrovica) e i rappresentanti dei minatori (licenziati in massa, come tutti gli albanesi che lavoravano nel settore pubblico, nel 1990-91) ci dicono (a noi e agli amici di Workers Aid provenienti dalla Catalogna) chiaramente che non vogliono e non accetteranno mai una nuova Berlino nel loro paese, inoltre rigettano qualsiasi idea di spartizione o cantonizzazione del loro paese e per evitare ciò sono pronti a scontri con la KFOR che viene avvertita sempre di più come una presenza non amica. Agim ci porta a visitare dei suoi conoscenti, tra i quali vi è un vecchio minatore, che ha lavorato per venti anni alle miniere di Trepca. Il grande complesso minerario si estende per alcuni chilometri appena fuori Mitrovica; dei due ingressi principali, quello sud è nella zona albanese, quello nord in quella serba. Ora la produzione è bloccata, con l'UNMIK che ha preso in totale controllo le miniere. Il vecchio minatore, che è stato anche un membro del sindacato dei minatori negli anni '80, ci ha raccontato le lotte dei lavoratori albanesi di quegli anni, la marcia di protesta su Prishtina del novembre 1988, le lotte del febbraio 1989 quando centinaia di loro scioperarono per otto giorni, chiusi nelle gallerie della miniera di Stari Trg (Trepca) per protestare contro la politica criminale di Milosevic e per difendere la Costituzione del 1974. Licenziati in massa nel 1990, ora il desiderio dei minatori è quello di potere al più presto ricominciare a scendere a 800 metri sotto terra per lavorare.

Tornando a Prishtina, ci fermiamo a Vushtri, dove Agim ha ancora la casa (per meglio dire soltanto una parte) e dei parenti. La città, di medie dimensioni, ha subito la stessa sorte di Peja, con le strade e gli edifici del centro spianati dai bulldozer e dai tank serbi, mentre la maggior parte delle abitazioni è stata bruciata.


giovedì 12 agosto

DRENICA

Con un taxi collettivo raggiungiamo Suhareka, passando per Ljpian, Shtimlje e per una zona collinare teatro di violenti scontri durante l'estate 1998. Sulla strada notiamo uno dei rari errori della Nato: una bomba ha creato un cratere a pochi metri dalla strada, che è percorribile senza difficoltà. Da Suhareka, dove notiamo molte case bruciate, Andrea raggiunge Recane, un villaggio dove aveva vissuto per dieci giorni, ospite di una famiglia albanese, nel marzo scorso. Già gravemente danneggiata dall'offensiva dell'estate 1998, Recane ora è completamente distrutta, poche case sono rimaste in piedi. Le strade del villaggio sono deserte, pochi sono tornati. Durante i bombardamenti della Nato, gli abitanti del villaggio si sono rifugiati nei boschi circostanti per sfuggire alla deportazione in Albania, riuscendo a sopravvivere per oltre due mesi. Andrea incontra i suoi amici, che ora vivono in alcune tende dell'UNHCR accanto alle rovine delle loro case, e sono impegnati nella ricostruzione. La cosa che colpisce maggiormente è la condizione dei bambini che Andrea (uno degli autori di questo testo) conosceva e coi quali giocava a marzo: sono chiaramente ancora traumatizzati, hanno paura, lo choc subito durante i terribili giorni della guerra è ancora molto evidente. Gli abitanti del villaggio sottolineano come i civili serbi di Recane abbiano collaborato con l'esercito e la polizia di Belgrado, indossandone addirittura le divise, esercitando un ruolo attivo nella deportazione degli albanesi.

Nel pomeriggio, un amico ci accompagna nella Drenica, la zona del Kosova centrale, cuore della resistenza albanese. I villaggi che attraversiamo sono distrutti; passiamo da Malishevo e Gllogovc, città che hanno subito grossi danni. Questa zona è stata teatro di scontri armati tra UCK e serbi già a partire dalla primavera 1998. Un altro ponte bombardato dalla Nato ci costringe ad un fuoristrada imprevisto. Ci fermiamo a Prekaz i Epirm, il villaggio dove nel febbraio 1998 si consumò il primo massacro di massa, con 61 vittime albanesi, tra cui l'intera famiglia Jashari. Adem Jashari, comandante dell'UCK del villaggio, è diventato il personaggio simbolo della resistenza albanese ed un martire per la libertà. Su di lui circolano le leggende più disparate. Ora quello che rimane della sua casa-fortino (che sorgeva a pochi metri da un deposito di munizioni dell'esercito serbo!), insieme al cimitero dove è sepolto, è diventato una sorta di luogo di pellegrinaggio per gli albanesi. Questo massacro, che non risparmiò donne e bambini, ha un'importanza storica fondamentale, poichè segnò l'avvio dell'appoggio di massa della popolazione albanese all'UCK.

Anche Skenderaj, maggiore centro urbano della Drenica, ha subito notevoli danni. Con Valon, il ragazzo albanese che ci ospita a Prishtina e che è originario di questa città, camminiamo per il centro, dove si possono vedere anche alcune giovani donne in divisa UCK; la presenza femminile nella guerriglia in questa zona è stata elevata.