LA GERMANIA, LA GRAN BRETAGNA E LA DISGREGAZIONE DELLA JUGOSLAVIA
DUE RECENSIONI



novembre 1999, di Andrea Ferrario

 


* Daniele Conversi, "German Bashing and the Breakup of Yugoslavia", The Donald W. Treadgold Papers In Russian, East European and Central Asian Studies, No. 16, marzo 1998.

* Predrag Avramovic, "Germany, Britain and the Recognition of the Former Yugoslav Republics: a Liberal Intergovernmentalist Approach", Transitions, n. 1, 1998.



Negli ultimi mesi, in occasione del conflitto in Kosovo, è tornata in primo piano, su organi di stampa delle tendenze più svariate, la tesi secondo cui la disgregazione della Jugoslavia sarebbe stata in larga parte una conseguenza degli "affrettati riconoscimenti", da parte della Germania, delle secessioni di Croazia e Slovenia dalla federazione jugoslava. Nelle sue versioni più cospirative, questa tesi si trasforma nell'asserzione di un complotto premeditato della Germania mirato a smantellare la federazione e a ottenere così il controllo economico delle varie repubbliche frammentate. Nelle sue versioni più strisciantemente razziste, la Germania sarebbe stata "naturalmente" portata a questo processo dal suo passato nazista. In massima parte, si tratta di tesi come minimo semplicistiche e fondate su alcuni fatti isolati, estrapolati dal contesto politico dell'epoca e da ogni visione complessiva di quanto accaduto nei Balcani in questo decennio. Il solo caso del Kosovo, che nell'anno delle secessioni, il 1991, chiedeva l'indipendenza senza ricevere alcun sostegno internazionale e che per anni, anche mentre era in corso la guerra in Bosnia, ha visto l'Occidente sostenere al suo interno una linea di immobilismo politico o addirittura premere per una maggiore integrazione nel sistema politico serbo, dovrebbero smentire tali tesi meccanicistiche. A volte tali tesi vengono proposte in maniera del tutto incongruente, come quando si sostiene, per il Kosovo, che si tratta dell'ultimo capitolo di un complotto avviato dalla Germania per smembrare la Jugoslavia ed espandere la propria influenza economica e, contemporaneamente, si afferma che la guerra della NATO è stata un complotto degli USA per indebolire l'Europa. Il paper di Daniele Conversi e il lungo articolo di Predrag Avramovic hanno il pregio di ripercorrere nei dettagli i mesi che hanno portato alle secessioni di Croazia e Slovenia. Entrambi i testi, seppure da prospettive diverse, riservano particolare attenzione alla posizione e al ruolo della Gran Bretagna nell'ambito di tale processo.

Il paper di Conversi, nel ricostruire gli eventi di quel periodo, si pone come obiettivo in particolare quello di spiegare i motivi che hanno portato infine la Germania a spingere per il riconoscimento di Croazia e Slovenia e, allo stesso tempo, i motivi per cui la nozione di una responsabilità della Germania per questi eventi ha ottenuto una vasta accettazione. Conversi si ripropone inoltre di dimostrare, con una ricostruzione degli eventi, come il riconoscimento delle due repubbliche secessioniste "sia venuto lungo tempo dopo che la Jugoslavia aveva cominciato a scivolare verso la disintegrazione e molti mesi dopo che la guerra era cominciata" (p. 8). Dopo una breve rassegna storica su come la Jugoslavia, incentrata sulla Serbia, abbia goduto di un ampio sostegno da parte delle grandi potenze tra le due guerre mondiali, così come durante il periodo della resistenza e dopo di esso, un fatto che ha posto in larga parte le basi del successivo rifiuto di tali stati, negli anni '80, di rendersi conto che "Milosevic si stava trasformando da un burocrate comunista nel principale 'ingegnere' del crollo del paese" (p. 12), il testo di Conversi affronta più nei dettagli gli eventi del 1991, ricordando fatti essenziali e spesso trascurati, che ripercorriamo qui in breve. Quell'anno, tanto per cominciare, si era aperto con la promessa fatta dalla Comunità Europea alla Jugoslavia, di una sua associazione, eventualmente anche come membro a pieno titolo, alla Comunità stessa, alla condizione che l'unità del paese fosse stata conservata. Il 25 giugno 1991 Croazia e Slovenia hanno dichiarato unilateralmente la loro indipendenza e due giorni dopo cominciava la "guerra dei dieci giorni" tra la JNA (Esercito Popolare Jugoslavo) e la difesa territoriale slovena. La guerra terminò poi il 7 luglio, quando la JNA cessò i propri attacchi a fronte di una moratoria della Slovenia sulla sua indipendenza, moratoria incoraggiata dalla Comunità Europea. Acuni giorni prima, si era tenuto a Bruxelles un summit europeo in cui era stato ribadito il supporto a Belgrado e a una Jugoslavia integra. Inoltre, due giorni prima della dichiarazione di indipendenza delle due repubbliche, l'allora ministro degli esteri tedesco aveva votato con i propri colleghi europei contro il loro riconoscimento come stati indipendenti. La decisione della Germania di riconoscere le due repubbliche è venuta maturando in concreto solo nei mesi successivi, quando la guerra tra Serbia (Federazione Jugoslava) e Croazia infuriava violentemente ormai da lungo tempo. E' stato in occasione della Conferenza dell'Aja, iniziata il 7 settembre del '91 e durata più di tre mesi, che la Germania ha per la prima volta apertamente chiesto un riconoscimento delle due repubbliche, sostenendo che i negoziati di pace in corso servivano solo come una copertura dell'offensiva serba. Alla conferenza dell'Aja, finita, come è noto, con un completo fallimento il 12 dicembre, Conversi dedica alcune pagine di grande interesse, incentrate sulla figura di Lord Carrington, incaricato dal presidente del Consiglio dei Ministri della CE, Hans Van den Broek, di risolvere il conflitto jugoslavo. Carrington, in passato già presidente della General Electric e, tra il 1984 e il 1988, segretario generale della NATO, poteva essere considerato tutto fuorché una persona al di sopra delle parti: non solo vantava intense amicizie come quelle con la famiglia reale serba Karadjordjevic o con Fitzroy Maclean, già inviato di Churchill nei Balcani durante la seconda guerra mondiale e acceso sostenitore della Serbia (sua l'affermazione secondo cui gli albanesi della Jugoslavia "sono un problema così intrattabile che nemmeno Pavelic o i nazisti con i loro forni a gas sarebbero in grado di risolverlo" - p. 63), ma era anche azionista di un'azienda associata agli stabilimenti jugoslavi "Zastava", che producevano auto, ma anche carri armati e altre armi. A parte questi particolari, Conversi individua nella frustrazione dei diplomatici occidentali per la loro incapacità di gestire la crisi jugoslava (all'Aja, il fallimento della tattica del "bastone e della carota" nella conduzione dei negoziati) la prima fonte della decisione di individuare la Germania come "capro espiatorio" per le proprie manchevolezze, un'altra essendo la scarsa capacità di comprendere quanto stava accadendo all'interno della Jugoslavia, comprensione resa più difficile dalla scelta deliberata, fatta nel decennio precedente, di avallare le politiche della leadership serba, nella speranza che quest'ultima fosse in grado di preservare l'unità jugoslava. Nei capitoli seguenti, il paper descrive il crescente supporto delle opinioni pubbliche europee per il riconoscimento dell'indipendenza di Croazia e Slovenia, in conflitto con la linea delle rispettive élite politiche che, in particolare in Francia e in Gran Bretagna (e anche negli Stati Uniti), continuavano a opporsi a tale ipotesi. Conversi illustra con dovizia di dettagli la conseguente ondata xenofobica antitedesca in Gran Bretagna (non a caso ripresentatasi anche in occasione del conflitto in Kosovo, come descritto efficacemente dall'articolo di W. Drozdiak, The Former Empires Strike Back, "Washington Post", 17 luglio 1999) e il diffondersi delle tesi sulla cospirazione del "quarto Reich". L'autore ricorda, opportunamente, che la Germania allora costituiva ancora un'imbarazzante "anomalia" nel contesto europeo, visti i suoi vincoli costituzionali a non intervenire militarmente all'estero, con la conseguente diversa visione di politica estera, esplicitatasi non senza tensioni durante la Guerra del Golfo terminata solo alcuni mesi prima. Conversi osserva inoltre che le "relazioni della Germania con il resto dell'Europa sono di importanza cruciale per il suo sviluppo economico", in misura decisamente maggiore rispetto a Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, che hanno "un potente serbatoio di redditi economici e di manodopera eccedente nei propri satelliti [...] coloniali o neocoloniali", nel caso dei britannici, nel Commonwealth (p. 30). Oltre a costituire una foglia di fico per le proprie incapacità, la tesi del complotto tedesco è quindi servita a esercitare pressioni affinché la Germania rientrasse nel "normale" contesto della politica europea e occidentale in genere. Per completare il quadro, il capitolo ricorda anche un significativo episodio che illustra come anche la Gran Bretagna avesse i suoi panni sporchi da lavare, cioè lo scandalo nato dalla scoperta che un gruppo di ultranazionalisti serbi fedeli a Radovan Karadzic aveva donato al Partito Conservatore britannico almeno 100.000 sterline. E' in questo contesto che nascono le teorie sul complotto tedesco, basate su un concetto "anticronologico che fa risalire le radici dello scoppio della guerra (giugno 1991) al riconoscimento da parte della CE (dicembre 1991)". Conversi cita alcuni passi di un articolo esemplare dell'atteggiamento diffuso allora in Gran Bretagna riguardo all'argomento, che getta luce su altri motivi dell'ostilità nei confronti di una dissoluzione della Jugoslavia: "il fallimento della federazione in un piccolo paese i cui popoli sono etnicamente e linguistamente pressoché indistinguibili [la Jugoslavia] dovrebbe servire come un avvertimento contro l'attuale mania della costruzione di un'enorme federazione europea. L'Euromania ha già largamente contribuito ai problemi che affliggono la Jugoslavia e all'affrettata e disastrosa dichiarazione di indipendenza da parte di Slovenia e Croazia... Se gli irlandesi e i britannici non sono stati in grado di vivere insieme per 800 anni, perché le cose dovrebbero cambiare sotto il governo di Bruxelles e Strasburgo?... Dobbiamo quindi sostenere l'unità e la sovranità della Jugoslavia, così come dobbiamo sostenere l'unità e la sovranità del Regno Unito" ("The Sunday Telegraph", 30 giugno 1991). Sull'ostilità della Gran Bretagna nei confronti dell'Unione Europea e su come, proprio nei mesi precedenti la firma del trattato di Maastricht, tale ostilità abbia avuto un suo ruolo nel modo in cui gli europei hanno affrontato la crisi jugoslava, si diffonde maggiormente il testo di Avramovic, di rui riferiamo più sotto, ma è in questo caso sintomatico anche il richiamo alla questione irlandese.

Secondo la precisa ricostruzione dell'autore, gli Stati Uniti hanno fatto esplicitamente propria la tesi dei "riconoscimenti affrettati" più tardi, nel 1993, quando l'allora Segretario di Stato USA, Warren Christopher, ha dichiarato che "molti seri [sic] studiosi della questione ritengono che i problemi che l'Occidente si trova ad affrontare abbiano origine in quel riconoscimento [della Croazia], che ha fatto infuriare i serbi". Conversi ricorda che nello stesso periodo gli Stati Uniti, nella persona dello stesso Christopher, avevano ritirato le loro richieste di un'azione militare in Bosnia, definendo quest'ultima "una palude" e un "problema infernale". Sempre allora, Christopher aveva denunciato le atrocità musulmane e rifiutato di definire il conflitto come un'aggressione serba, definendolo invece una guerra civile, "una guerra di tutti contro tutti". L'autore specifica che tali dichiarazioni sono venute solo tre settimane dopo che Clinton aveva chiesto un'azione militare e le interpreta come l'espressione della frustrazione per avere ricevuto un netto rifiuto da parte degli europei. Nello stesso capitolo l'autore si sofferma brevemente anche sull'atteggiamento degli USA all'inizio della guerra jugoslava, richiamando l'attenzione sul viaggio del Segretario di Stato Baker a Belgrado nel giugno del 1991, durante il quale quest'ultimo aveva ribadito che gli Stati Uniti preferivano una Jugoslavia unita, dichiarazione che nel contesto di guerra imminente in atto in quel momento in Jugoslavia, molti hanno interpretato come un via libera all'uso della violenza da parte della JNA. Inoltre, come scrive Conversi, e come nota anche Avramovic nel suo saggio, l'allora presidente della Jugoslavia e vicepresidente del Partito Socialista Serbo di Milosevic, Borisav Jovic, ha raccontato nelle sue memorie di essersi recato a quei tempi, in compagnia del ministro della difesa Kadijevic, in Unione Sovietica, ritenuta il canale indiretto più qualificato per capire quali sarebbero state le reazioni dell'Occidente a un'operazione militare della JNA. Dalla visita i due hanno tratto la convinzione che l'esercito jugoslavo poteva "ignorare con sicurezza le minacce occidentali" e sono tornati in patria "per dare il via [con Milosevic] all'azione militare pianificata insieme". Questo atteggiamento iniziale degli USA (evolutosi poi nel tempo, ma a nostro parere, mai radicalmente cambiato) è da attribuirsi, secondo Conversi, all'eredità della Guerra fredda, durante la quale la Jugoslavia non veniva considerata "come una fonte di preoccupazione per il blocco occidentale". Ciò spiegherebbe, tra le altre cose, anche lo scarso interesse per la Jugoslavia da parte degli enti del governo americano che finanziano le attività di ricerca, un fatto che secondo l'autore ha contribuito all'impreparazione, e alla mancanza di capacità di interpretazione con cui il governo di Washington ha affrontato la disgregazione della Jugoslavia, pure prevista da numerosi studiosi isolati. Ma un altro, e forse più importante fattore, è stato quello della decisione delle "élite occidentali di scegliere di trascurare la forma di nazionalismo più potente e più dilagante, cioè quella del nazionalismo di stato. Agli occhi di molti spettatori semplicemente non esisteva. Il nazionalismo era puramente la malattia di minoranze recalcitranti e non un problema dello stato jugoslavo" (p. 47).

Nella sua conclusione, Conversi, riassumendo, sottolinea come la tesi della responsabilità della Germania per la disgregazione della Germania sia stata in larga parte una formula cui hanno dato vita le élite occidentali, e in particolare quelle della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, per deviare ogni potenziale critica nei loro confronti nel momento in cui, con la nuova guerra in Bosnia, le loro responsabilità venivano sempre più esposte. Che questa tesi sia infondata lo dimostrano non solo un'analisi dello svolgimento temporale, con il riconoscimento tedesco avvenuto poco prima del Natale '91 e dopo che la Germania, allo scoppio della guerra, aveva seguito, pur con notevoli distinguo, la linea degli altri paesi della CE e degli Stati Uniti di opposizione alla disgregazione della Jugoslavia, ma anche il fatto che successivamente al riconoscimento le relazioni della Germania con la Croazia non sono state quelle che la tesi del complotto farebbe pensare e questo anche da parte croata, come dimostra la strategia di diversificazione dei rapporti economici internazionali da parte di Zagabria, che ha portato a un orientamento soprattutto nei confronti dell'Italia e degli Stati Uniti.

Il testo di Avramovic (che nella sua parte teorica, da noi non presa in considerazione, espone una critica alle tesi dell'"Intergovernalismo liberale" di Andrew Moravcsik) riscostruisce in maniera molto puntuale l'evolversi della posizione della Germania riguardo all'indipendenza, ricordandone le principali tappe. La prima proposta di riconoscimento delle due repubbliche, non approvata, è stata avanzata in sede europea da Genscher il 4 luglio 1991 (dopo che la guerra in Slovenia era già cominciata). L'8 luglio la Germania si è espressa a favore gli accordi di Brioni che hanno posto fine alle ostilità in Slovenia (con una moratoria sulla dichiarazione di indipendenza), definiti da Genscher "una prova della capacità di agire della Comunità Europea". Verso la metà di settembre, dopo numerose violazioni del cessate il fuoco, i ministri degli esteri di Germania e Italia hanno "evocato pubblicamente la possibilità di un riconoscimento non concordato", ma la Germania ha immediatamente smussato la propria posizione qualche giorno dopo, in seguito a un incontro Kohl-Mitterrand. Nello stesso periodo la Germania era attiva nella CSCE (oggi OSCE) e nella UEO (Unione Europea Occidentale), nell'ambito della quale aveva appoggiato le proposte francesi per l'invio di una forza di pace, proposte che hanno incontrato il veto della Gran Bretagna e che la Germania non ha potuto sostenere con incisività visti i suoi vincoli costituzionali, che le impedivano allora di partecipare a missioni militari all'estero. Le pressioni della Germania in ambito CE si sono intensificate solo a ottobre, dopo che la Serbia, con un colpo di mano, aveva preso il controllo della presidenza federale e aveva respinto il piano di pace di Carrington, e dopo che erano cominciati gli assedi di Vukovar e Dubrovnik. Sempre in ottobre, in un incontro informale a Haarzuilen i dodici hanno deciso all'unanimità di rimandare l'eventuale riconoscimento di due mesi. L'8 novembre, la Germania ha minacciato il riconoscimento immediato della Croazia ai margini dell'incontro dei dodici a Roma, ma è solo il 27 novembre, una settimana dopo la disfatta croata con la caduta di Vukovar, che Kohl si impegna formalmente di fronte al Bundestag a riconoscere la Croazia e la Slovenia "prima di Natale". Avramovic, come Conversi, identifica nelle pressioni interne uno dei motivi che hanno determinato le posizioni tedesche. Non solo i partiti politici si sono progressivamente espressi a favore dell'indipendenza delle due repubbliche (la CDU/CSU alla fine di giugno, e la SPD all'inizio di luglio), ma anche molti media del paese, pur con rilevanti eccezioni, hanno spinto in questa direzione (in particolare la "Frankfurter Allgemeine Zeitung", anche se non immediatamente, bensì verso la fine dell'estate). Avramovic espone alcune interpretazioni di questo orientamento della Germania: secondo l'autore uno dei fattori è stata la allora recentissima unificazione tedesca, ampiamente osteggiata a livello europeo, che ha portato a una sorta di identificazione politica con la Slovenia e la Croazia. L'autore, così come Conversi, esclude la fondatezza di ogni teoria del "Quarto Reich", che spiega il progressivo spostamento verso il riconoscimento unilaterale come dettato da mire espansionistiche simili a quelle del Terzo Reich durante la guerra. Vale la pena di citare alcuni passi delle relative spiegazioni di Avramovic: "Economicamente, anche se i forti interessi della Germania nell'Europa Orientale sono innegabili, è tutto da dimostrare il fatto che essa avesse bisogno di smembrare la Jugoslavia per aprire dei mercati che la sua industria già dominava, un'influenza che con ogni probabilità sarebbe aumentata con la liberalizzazione. Il suo interesse economico sarebbe infatti stato difeso nel migliore dei modi mantenendo la stabilità e la prosperità della Jugoslavia, come rifugio stabile per i suoi investimenti e come mercato in crescita per i propri prodotti. Strategicamente, il mantenimento della Jugoslavia, piuttosto che una serie di staterelli in lite tra di loro, parrebbe servire nel migliore dei modi anche gli interessi di sicurezza del paese. Tutto questo sembra suggerire che la geopolitica ha svolto un ruolo nullo nella posizione del governo tedesco" (p. 18). Secondo Avramovic, l'"interesse nazionale" della Germania era quello di dimostrare che la forza non paga e di opporsi alla conquista territoriale, visto che la Germania ha indubbiamente un forte interesse nell'impedire la destabilizzazione della regione che un conflitto su larga scala in Jugoslavia avrebbe potuto provocare. Bonn, prosegue l'autore, "[era ansiosa] di 'fare qualcosa' riguardo alla Jugoslavia. Il principale motivo per cui questo 'qualcosa' alla fine è risultato essere il riconoscimento è stato probabilmente il fatto che il riconoscimento era l'ultimo strumento di cui potevano disporre i responsabili politici tedeschi", infatti, esauriti nei mesi precedenti tutti gli sforzi di mediazione incentrati sulla tecnica del bastone e della carota, alla Germania non rimaneva altro, visto che "l'intervento [...] non era un'opzione per la Germania, dati i suoi impedimenti costituzionali". La decisione del riconoscimento unilaterale da parte della Germania è venuta dopo pressanti spinte interne in seguito alla caduta di Vukovar, ma prima che i dodici si incontrassero per decidere in merito al riconoscimento vi è stata un'altra riunione di importanza cruciale per la Germania, quella del Consiglio europeo di Maastricht, riguardo al quale il governo di Bonn nutriva grandi aspettative per un approfondimento del processo di unificazione europea, a livello politico, economico e anche militare.

Prima di passare alla sua tesi fondamentale, quella di uno "scambio" politico tra Germania e Gran Bretagna, in occasione della firma del trattato di Maastricht, scambio che avrebbe coinvolto anche la questione dei riconoscimenti, Avramovic passa in rassegna la posizione britannica nel corso dei mesi da luglio a dicembre, improntata a una chiara linea di non riconoscimento delle secessioni e di sostegno alla federazione jugoslava. La Gran Bretagna, infatti, aveva posto il veto a ogni proposta di intervento: quella di Francia e Germania del 29 luglio, e quella della presidenza olandese il 19 settembre, mentre John Major si era pronunciato apertamente per la conservazione a ogni costo della federazione jugoslava. Anche quando la Jugoslavia aveva ormai evidentemente cessato di esistere, Londra ha continuato a vincolare un'eventuale riconoscimento a una soluzione per l'intera Jugoslavia. Riguardo alla Gran Bretagna, Avramovic nota anche la scarsa rilevanza che il conflitto jugoslavo ha avuto nella vita politica interna del paese e che comunque, almeno fino alla caduta di Vukovar, vi sono state diffuse le simpatie per la parte serba.

I motivi per cui la Gran Bretagna si opponeva al riconoscimento erano, come rileva l'autore, molteplici. Innanzitutto, Londra, viste le sue esperienze nell'Irlanda del Nord, voleva a ogni costo evitare un intervento che comportasse il dispiegamento di truppe "di pace" in un ambiente ostile. Il fatto che Zagabria non controllasse più di un terzo del suo territorio avrebbe dato al governo croato il diritto, in quanto membro dell'ONU, di chiedere un intervento. Vi era inoltre la preoccupazione di non stabilire un precedente per la frammentazione di altri stati, preoccupazione condivisa anche dagli USA. Come scrive Avramovic, "se la conservazione dello status quo e l'opporsi alla disgregazione degli stati tende a essere l'atteggiamento 'naturale' della comunità internazionale, ciò era probabilmente ancora più vero per l'Europa Orientale nel 1990-1991". L'autore prosegue scrivendo che "Londra e forse anche Washington avrebbero preferito in principio una rapida vittoria serbo-federale, quale vittoria di un 'naturale' egemone regionale, preferendo la stabilità alla democrazia, ma anche evitando maggiori spargimenti di sangue. La visita di Baker a Belgrado il 21 giugno avrebbe potuto essere interpretata come una possibile approvazione di un intervento militare limitato per tenere il paese insieme. Whitehall [il Ministero degli esteri inglese] sarebbe stato inoltre 'più che lieto' di un colpo della JNA nel luglio 1991. [...] L'interesse nazionale sarebbe stato servito in questo caso in modo migliore garantendo la stabilità, indipendentemente dal regime interno". Avramovic spiega che le accuse mosse contro Londra di avere allora condotto una politica "filoserba" non sono esatte: "più che una politica pro-serba, Whitehall indubbiamente perseguiva una politica pro-stabilità come proprio 'interesse nazionale'".

Così come nel resto del suo testo tiene a sottolineare gli altri eventi temporalmente vicini, o addirittura contemporanei, alla secessione delle due repubbliche jugoslave e che hanno sicuramente avuto una grande influenza sul modo in cui i soggetti internazionali hanno affrontato il disgregamento della federazione (la riunificazione tedesca nel 1990, la Guerra del Golfo, il tentato golpe a Mosca e i suoi sviluppi nel 1991), Avramovic introduce la parte conclusiva del suo articolo, quella che ipotizza uno scambio diplomatico tra Germania e Gran Bretagna in merito ai processi paralleli della unificazione europea culminata con Maastricht e del riconoscimento progressivo delle repubbliche secessioniste jugoslave, sottolineando la stretta coincidenza temporale tra la firma del trattato di Maastricht (11 dicembre 1991) e la riunione CE di Bruxelles che si è impegnata ad avviare un processo di riconoscimento condizionato di tutte le repubbliche jugoslave che volevano l'indipendenza (16 dicembre 1991). Il primo ministro britannico John Major, nota l'autore, era arrivato all'appuntamento di Maastricht dopo essere stato esposto per lungo tempo a critiche che lo accusavano di essere pronto a "svendere la sovranità nazionale" con il processo di unificazione europea. La parte britannica è giunta a Maastricht con una chiara opposizione al rafforzamento di una maggiore identità europea nel settore difesa, alla moneta unica e a ogni progetto di federalismo. Nel corso della conferenza di Maastricht sono stati presto trovati dei compromessi su alcuni di questi punti (eliminazione della frase "destino federale" dal testo del Trattato, compromesso tra la visione franco-tedesca e quella anglo-italiana sui rispettivi ruoli di NATO e UEO, "dissociazione" britannica dalla moneta unica ecc.). L'impasse è venuta sul tema delle politiche sociali, per le quali si prevedeva di "conferire alla Commissione un potere di iniziativa nelle relazioni industriali". Anche qui è stato raggiunto un compromesso, ma solo dopo forti tensioni, in seguito a un incontro tra Major, Kohl e il premier olandese Lubbers, in base al quale la Gran Bretagna rimaneva esentata dal relativo capitolo, adottato invece dagli altri undici paesi, guadagnando così maggiore competitività a livello internazionale, grazie a un mercato del lavoro più deregolamentato. Il Trattato è stato infine firmato l'11 dicembre, ma l'accoglienza trovata da Major e Kohl al loro ritorno in patria è stata decisamente differente. Il primo ha ottenuto lodi generali per il "vero e proprio trionfo diplomatico e politico ottenuto a Maastricht" ("The Independent", 12 dicembre 1991), mentre il secondo si è trovato ad affrontare aspre critiche per il cedimento sul capitolo riguardante gli aspetti sociali. Alla riunione di Bruxelles del 16 dicembre sulla Jugoslavia, scrive Avramovic, si è arrivati invece dopo logoranti mesi di lavoro per tenere insieme le diverse posizioni presenti all'interno della CE, di cui quella tedesca e quella britannica rappresentavano solo gli opposti estremi. Dal primo, apparente, successo della riunione di Brioni a luglio, si era passati all'impasse dell'iniziativa franco-tedesca della conferenza dell'Aja (presieduta tuttavia dal britannico Lord Carrington) a settembre. L'impasse, secondo Avramovic, "non era tanto attribuibile a una mancanza di dispositivi adatti, quanto piuttosto all'incapacità di giungere a un'analisi comune e alla mancanza di accordo sugli obiettivi, elementi che hanno minato l'efficienza dell'azione della CE in Jugoslavia. Tutto ciò si è reso evidente in maniera scottante soprattutto riguardo al problema del riconoscimento della disgregazione formale del paese" (p. 29). A metà dicembre, tuttavia, i paesi membri della CE avevano ormai accettato come un dato di fatto la disgregazione della Jugoslavia, e questo in buona parte anche in conseguenza del dilagare della guerra e della caduta di Vukovar poche settimane prima. Il problema, come scrive Avramovic, non era più se riconoscere o meno la fine della Jugoslavia, quanto piuttosto quando e come prenderne ufficialmente atto. In quelle settimane, Kohl era giunto ormai a formulare una posizione univoca sui riconoscimenti, impegnandosi ufficialmente a riconoscere le due nuove repubbliche entro il 23 dicembre e scontrandosi con la netta opposizione in primo luogo della Gran Bretagna e degli Stati Uniti e, in misura minore, della Francia. Alla vigilia della riunione di Bruxelles, il 13 dicembre, Francia e Gran Bretagna avevano cercato in sede ONU di fare passare una risoluzione che fermasse la Germania, ma hanno dovuto fare marcia indietro causa la decisione di quest'ultima di proseguire comunque la propria politica. La riunione CE del 16 dicembre è stata tesissima per tutte le quattordici ore della sua durata e ha visto in principio la Germania praticamente isolata, ma sempre determinata sulla sua linea. Nelle ultime ore si è aggiunto il problema della Grecia, che ha posto sul tavolo la questione della Macedonia. Alla fine, martedì 17 dicembre, per evitare una spaccatura, è stata adottata la decisione di riconoscere il 15 gennaio 1992 tutte le repubbliche che avessero espresso il loro desiderio di diventare indipendenti e che, secondo la valutazione di una commissione di arbitrato ad hoc, il cui verdetto doveva essere emesso l' 11 gennaio, avessero rispettato i criteri posti per il riconoscimento. Si è trattato di una chiara vittoria della Germania, con una formula studiata apertamente per salvare la faccia degli altri paesi europei. Bonn tuttavia non ha rispettato la decisione finale e il 23 dicembre ha riconosciuto l'indipendenza di Croazia e Slovenia, facendo ai partner europei l'unica concessione di un impegno a posporre al 15 gennaio l'applicazione della sua decisione, cioè la trasformazione dei suoi consolati a Ljubljana e Zagabria in ambasciate. L'11 gennaio, la commissione arbitrale, guidata dal francese Badinter, dava un'opinione positiva per la Slovenia e negativa per la Croazia a causa dell'"insufficiente salvaguardia della sua minoranza Serba" (p. 31). I paesi della CE, sempre preoccupati di salvaguardare la propria unità politica, hanno scelto di accontentarsi di una lettera con la quale Tudjman si impegnava genericamente a fare proprie le proposte di autonomia per la minoranza serba e di rispetto dei suoi diritti e hanno riconosciuto ufficialmente la Slovenia e la Croazia nel gennaio 1992. Al contempo, la Macedonia non veniva riconosciuta, nonostante l'opinione positiva della Commissione Badinter, a causa del veto della Grecia. Come scrive Avramovic, "i dodici hanno ignorato i criteri di ricoscimento da essi stessi fissati e Germania e Grecia hanno incassato una netta vittoria diplomatica" (p. 31). Per completare il quadro, va aggiunto che gli USA riconosceranno ufficialmente le secessioni di Croazia e Slovenia solo nell'aprile del 1992.

L'autore riporta numerose testimonianze, dirette e indirette, secondo le quali a Maastricht era avvenuto un vero e proprio scambio diplomatico: la Germania avrebbe rinunciato a opporre una resistenza fino all'ultimo alla possibilità per la Gran Bretagna di dissociarsi dal capitolo di Maastricht dedicato agli aspetti sociali, in cambio della rinuncia da parte di Londra di opporsi a oltranza al riconoscimento di Croazia e Slovenia, come invece aveva fatto fino ad allora. Oltre alle testimonianze riportate, Avramovic individua nel fatto che Londra abbia deciso di inviare alla importantissima riunione di Bruxelles del 16 dicembre solo il viceministro degli esteri, e non il ministro Hurd, "con la meraviglia e l'irritazione di Lord Carrington" (p. 33), una dimostrazione di come la Gran Bretagna avesse deciso di non opporsi seriamente ai piani della Germania. Dopo avere citato molto correttamente alcune opinioni e testimonianze, soprattutto di fonte tedesca, che divergono da questa interpretazione, Avramovic conclude che, sebbene non sia possibile stabilire con esattezza se vi è stato uno scambio "ufficiale" tra le due posizioni, la logica dei fatti, dei tempi e dei rispettivi comportamenti, lascia comunque trasparire come minimo un accordo tacito. Il tutto, sempre secondo Avramovic, va letto come una conseguenza della preoccupazione prioritaria di non creare spaccature aperte tra i paesi europei in un momento di estrema delicatezza, contrassegnato dal dopoguerra del Golfo, dalla crisi in Russia, dalla ridefinizione dei rapporti interoccidentali dopo il 1989 e, soprattutto, dell'avvio del processo di unione europea.

CONCLUSIONE
I due testi recensiti, che non si pongono certo nella loro brevità l'ambizioso obiettivo di affrontare il processo di disgregazione della Jugoslavia nel suo complesso, rappresentano tuttavia un utilissimo strumento per ricostruire con maggiore chiarezza, a distanza di tempo, le dinamiche di tale disgregazione. Conversi è particolarmente efficace nel ricostruire il clima che ha portato al diffondersi della tesi del complotto della Germania mirato a smembrare la federazione jugoslava, analizzandone le origini, nonché le motivazioni dei suoi propugnatori e, al contempo, mostrando come tale tesi sia servita a ignorare le cause interne della disgregazione e a coprire l'impreparazione dei paesi occidentali, così come la loro incapacità di affrontare in maniera coerente quanto stava accadendo in Jugoslavia. Avramovic offre pagine forse più lineari, ma molto efficaci nel documentare quasi cronologicamente il processo di riconoscimento di Croazia e Slovenia e il ruolo che vi hanno avuto rispettivamente Gran Bretagna e Germania. Entrambi gli autori si preoccupano di mettere gli eventi nel cruciale, e spesso dimenticato, contesto internazionale dell'anno 1991, senza il quale non è possibile un'interpretazione completa e approfondita degli eventi. Il quadro che ne esce non nega certo il ruolo di primo piano svolto dalla Germania nel modo in cui l'Occidente ha affrontato la disgregazione della Jugoslavia, ma lo affianca a quello altrettanto importante degli Stati Uniti, della Francia, dell'Italia e, in particolare, della Gran Bretagna, il cui ruolo di fattore europeo "anomalo", ma comunque europeo, è stato sempre rilevante nei Balcani e continua a esserlo, come ha dimostrato la recente guerra del Kosovo. I testi di Conversi e Avramovic, infine, consentono di "decostruire", sia a livello puramente cronologico che a quello più complessamente politico, la tesi meccanicistica del complotto tedesco, ponendo l'accento sul disfacimento sociale e politico interno alla Jugoslavia, sull'obiettivo primario della stabilizzazione che si sono poste le grandi potenze e su come esso abbia provocato (e provochi) squilibri all'interno dei loro reciproci rapporti nell'affrontare crisi come quella della dissoluzione della Jugoslavia.