SERBIA, UNA SVOLTA STORICA
DOPO LA SCONFITTA IN KOSOVO, NULLA SARA' COME PRIMA



novembre 1999, di Radoslav Pavlovic, sindacalista indipendente, uno dei promotori di International Workers per la Bosnia e membro di Workers International.



Al di là delle conseguenze immediate della disfatta serba di fronte ai massicci bombardamenti della NATO, una cosa è assolutamente certa: i rapporti tra serbi ed albanesi in Kosovo non saranno più quel che sono stati - salvo brevi parentesi - durante questo secolo.
1912-1999: due punti di riferimento dell'inizio e della fine di questo secolo, di una storia scritta col sangue ormai finita per sempre.
Non si sa come la situazione evolverà, né in Kosovo né in Serbia, non sono ancora state spazzate via le prime rovine di questo prodigioso terremoto umano, non si sa se i serbi kosovari potranno o vorranno tornare a casa, come anche gli albanesi, quali nuove scosse - inevitabili - si produrranno in Serbia, non si sa se il popolo albanese del Kosovo avrà la sua vera indipendenza - tanto voluta e pagata a così caro prezzo. Ma una cosa si sa: gli albanesi del Kosovo non saranno mai più sotto lo stivale serbo.
Più che una rottura sul terreno del rapporto delle forze militari - evidente - c'è una svolta sul piano politico, sociale, morale, a un livello più profondo, più duraturo e più importante. La guerra è il prolungamento della politica con altri mezzi e il verdetto di una guerra è il verdetto di una politica. Alla fine quelle che parlano sono le armi, le guerre sono rotture evidenti, ma a monte c'è l'economia, la società, la storia, la politica, perfino, all'occorrenza, la "mentalità" o i pregiudizi serbi, riflessi deformati di una realtà, il che non impedisce per nulla che diventino agenti attivi, ed anche sanguinari.
In volo sulle bianche ali degli angeli dei medievali monasteri serbi, nutrito da nebulose leggende d'una metafisica nazionale nebbiosa e sonnolenta, il "popolo celeste" cade brutalmente a terra dieci anni dopo, rendendosi conto che non c'è più niente in frigo e che non ha il visto per andare da alcuna parte. E' l'assassinio dell'angelo con il coltello d'Arkan: viso angelico, cuore d'assassino.
E' uno choc terribile: "Kosovo, è finita!". Rimpianti, gioia? Un sollievo profondo, in tutti i casi. Non ci sono più albanesi buoni solo per tagliare la legna per il riscaldamento e fare del buon pane e delle deliziose pasticcerie. Non ci sono più carriere lucrative per funzionari mandati da Belgrado. Non ci sono più rapine per poliziotti serbi che svaligiavano negozi albanesi nel Kosovo. Non ci sono più marchi tedeschi nascosti nelle lunghe gonne di donne terrorizzate, non più uomini separati dalle mogli e figli per essere trascinati nei mattatoi collettivi. Non c'è più potere serbo in Kosovo, non c'è più apartheid. Finalmente, noi serbi non abbiamo più questa palla al piede.
Dunque, un libro della storia è concluso, manca solo una pagina. Qualsiasi sia il seguito, sarà in un altro libro.

Sarebbe troppo facile ridurre questa svolta agli effetti delle bombe americane. Il popolo albanese non ha ciò che voleva, ne è ancora lontano, lo vedremo presto, ma non è schiacciato a terra. Profondamente ferito, si rialza. Il seguito sarà un'altra storia.
Le bombe atlantiche hanno, in ogni modo, brutalmente interrotto e cambiato una lunga storia. Di colpo l'hanno accelerata. La guerra è stata accolta in fondo in Serbia senza sorpresa, con mormorii, ma era troppo tardi per cambiare i dati del problema. L'unanimità nella condanna si imponeva da sé per bombardamenti condotti da paesi la cui lotta per la "democrazia" in Asia, nel Medio Oriente, in Africa, in America Latina non ha dato prove convincenti (è il meno che si possa dire).
Questo non contrasta con un sentimento di profondo sollievo durante la firma dell'accordo "tecnico-militare". Non solo perché non sarà più questione di Milosevic e delle sue quattro guerre. Il crescendo di bestialità e assurdità come una spirale infernale è definitivamente rotto.
"Non può inventarsi più niente per farci rimanere in questo schifo di topaia che è diventato il nostro paese", si dice per strada. Certo, è lontano il bilancio politico, ma è il ritorno con il pensiero a dieci anni prima, è un sollievo profondo, seguito immediatamente da un'altra inquietudine, altrettanto profonda: "adesso, succederà da noi, tra noi".

Se ci sarà una nuova guerra balcanica, non sarà fuori, sarà una guerra civile in Serbia. C'è chi l'ha predetto anni fa, ora è un'evidenza che si respira in Serbia, da sinistra a destra, dal basso all'alto. "Dieci anni, basta!" si sente dappertutto, senza sempre rendersi conto che la maggior parte ha fatto attivamente, o con benevolenza, un plebiscito a favore della "guida del popolo serbo", nel 1989 a Gazimestan nel Kosovo, in una manifestazione di un milione e mezzo di persone. Il Presidente era atterrato trionfalmente in elicottero, inviato direttamente dal cielo, e aveva incominciato a minacciare tutta la Jugoslavia: o sarà come noi serbi, i più numerosi ed i più forti, la vogliamo o non esisterà.
Infatti ha smesso di esistere poco tempo dopo, e in che modo! Uno dei suoi ultimi brandelli, il Kosovo, si è staccato. Anche la federazione serbo-montenegrina non esiste più che sulla carta.
Il presidente serbo in diversi modi e in diversi momenti è stato sostenuto da forze non indifferenti -presidenti di altre repubbliche ex-jugoslave, grandi potenze, opposizione serba - ma il conto salato per dieci anni di barbarie è inevitabilmente e con unanimità indirizzato solo a lui. La collera serba non è rivolta né contro gli albanesi, né contro la NATO che, tutto sommato, hanno entrambi agito come avevano annunciato, ma contro Milosevic che li ha ingannati e manipolati. Non c'è più causa nazionale sacra dove si saccheggia, dove si attaccano i civili non riuscendo a farlo con i guerriglieri, dove si bruciano le case e dove si strappano i documenti d'identità. Tutto questo, sicuramente, la Serbia l'ha imparato nel corso di questi ultimi due mesi.

"Chi è il colpevole?" chiede il corrispondente locale di Radio Free Europe a Krusevac ad una madre in collera, all'indomani dell'incontro di massa dei genitori dei soldati che stazionano in Kosovo, e di cui non hanno più nessuna notizia dall'inizio della guerra. " E' lui, lei risponde, Ma, chi è questo lui?" insiste l'improvvisato giornalista, arrestato il giorno dopo per tre giorni, ma probabilmente ancora in prigione. "Ma non capite? Ma è lui, Slobodan MILOSEVIC!".
Il grido di questa madre, che probabilmente ha votato per Milosevic alle ultime elezioni, ha un forte accento contadino, è il grido di tutta la Serbia profonda. E' stato sentito dappertutto, perché da due mesi eravamo tutti all'ascolto di questa radio, che trasmetteva da mezzanotte sino alle cinque del mattino da Praga una marea di informazioni esaustive e credibili da tutte le parti, anche dalla NATO e dai campi albanesi alla frontiera.
Il giorno prima, un alto ufficiale di Nis è venuto apposta a Krusevac per placare gli animi in subbuglio e ammansire mille "disertori" e convincerli a tornare sul fronte. Cinquemila persone l'hanno assalito. "Lo stavano linciando" dice la madre "e oggi mi rincresce di non averlo fatto". Il generale ha iniziato in modo dolce, poi sono iniziate le urla. Ha brandito la minaccia del tribunale militare, ed è stato peggio. Infine si è salvato dicendo "Chi vuole torna in Kosovo, e gli altri vadano a casa".
La voce limpida e chiara di questa donna, che aveva un figlio unico, come tanti altri, esprimeva una volontà selvaggia che non conosce nessuna paura, un'altra Serbia che non conosce paura, un'altra Serbia che si alza, pericolosa in modo ben diverso e ben più sostanzioso dei politici piccolo-borghese dell'opposizione che hanno cominciato a muoversi un poco dopo un lungo silenzio di morte.
Questi contadini hanno case, terreni, macchine agricole, hanno speso una fortuna per festeggiare la partenza dei loro figli per l'esercito - una vecchia tradizione diventata surreale in un paese al limite della carestia e che fa guerre perse in anticipo, dove la norma è di sette montoni e sette maiali messi allo spiedo per cinquecento invitati - questa donna non aveva più niente, non avrebbe avuto più niente se suo figlio tornava dal Kosovo in una bara di zinco. E' l'orrore davanti all'abisso. Tutta la Serbia ha percepito per tre o quattro giorni decisivi quest'orrore.

Slobodan Milosevic e sua moglie diventano la coppia più isolata e più odiata, non solo all'estero ma in Serbia stessa. Si fa il vuoto intorno a loro: alcuni di quelli che erano loro più vicini iniziano ad evitarli, perché la loro amicizia, una volta lucrativa, diventa ora pericolosa.
Più isolati non vuol dire impotenti, disarmati e pronti ad arrendersi. Tutt'altro! Se Milosevic non ha dato le dimissioni nell'inverno 1996-97, quando quattrocentomila persone tutte le sere per tre mesi fischiavano al suo nome, non si dimetterà mai più. Si può confidare sul fatto che la perfidia, l'astuzia, il cinismo senza limiti del presidente serbo segneranno con il sangue la sua inevitabile e imminente caduta.
Se non può prolungare il suo potere, ha ancora abbastanza forze per mettere a ferro e fuoco le città o sollevare la diga e provocare un diluvio. Con la polizia militare in tempo di guerra o con la polizia, le sue unità speciali e squadre paramilitari teleguidate in tempo di pace, può far fronte ai primi tentativi di assalto al regime. Nei primi giorni di guerra, l'assassinio politico del redattore e direttore di un quotidiano di opposizione, Slavko Curuvjia, per mano di assassini prezzolati, era un chiaro avvertimento all'opposizione democratica - non si ha più tempo, né la voglia di fare processi politici, non abbiamo nemmeno i mezzi per fare come Pinochet - riempire gli stadi -, si procederà alla "venezuelana": sarete inghiottiti nella notte. Criminali ed assassini straripano dai marciapiedi, i prezzi sono caduti molto in basso: 100-200 DEM a testa. State attenti!
Quest'avvertimento ha avuto degli effetti durante la guerra. Tanti dirigenti o giornalisti, minacciati, sono partiti per il Montenegro o sono andati all'estero. Per tre-quattro settimane nessuno ha osato dire una parola.

Comunque l'urlo delle masse prende poco a poco coraggio. Le voci si alzano, e una delle prime, quella di Vuk Obradovic, dirigente del Partito Socialdemocratico, finanziato da alcuni piccoli banchieri, apostrofa e chiede le dimissioni di Milosevic in piena guerra. Anziano ufficiale dell'Esercito Federale, lusinga l'esercito e punta il dito sul presidente. E' arrischiato, ma solo qualche settimana dopo comincia a portare dei dividendi politici: diventa uno degli oppositori più importanti. Sono parecchi a confluire nel fronte dell'opposizione democratica: Djindjic, Djukanovic (Montenegro), Panic (ex-primo ministro federale), Obradovic, Vesna Pesic. Dove andranno, tenuto conto della loro inconsistenza politica e di un certo grado d'usura?
Questo non entusiasma oltre misura i lavoratori, ma più d'uno afferma: ciò che conta, è cacciare via Milosevic, vedremo poi con quest'altri. Sono ambiziosi, instabili, bugiardi, deboli, verranno cacciati via, a loro volta, nel giro di sei mesi.
Il loro programma si riduce ad aprire largamente le porte alla democrazia occidentale, al capitale estero e a procedere alla privatizzazione, come base del capitalismo "onesto". Promettono libertà di stampa e libertà sindacale. Reclamano urgentemente nuove elezioni.
In caso di elezioni nel prossimo futuro, hanno buone possibilità. A condizione che ci siano elezioni, a condizione che Milosevic ceda, a condizione che le masse si impongano nelle strade, a condizione che rimangano uniti, a condizione... E' il blocco borghese in un paese senza borghesia. Di qui la loro debolezza organica e la necessità di tradurre in lingua serba quel che i governi delle potenze capitaliste si augurano. La necessità di costituire un terzo blocco politico, veramente democratico, anti-nazionalista e sociale, cioè con l'appoggio attivo dei lavoratori e senza paura della classe operaia, è iscritto da molto tempo all'ordine del giorno della vita politica serba. Le forze sono, tuttavia, ancora deboli, divise, i democratici piccolo-borghesi sono più numerosi e più influenti, ci sono più leaders che membri di partiti, dunque niente è sicuro.

In questa situazione, la guerra aerea subita dall'esterno diventa una guerra politica interna, una guerra di nervi: il terreno è minato. Di fronte ai democratici o pseudo democratici, c'è sempre l'apparato burocratico che si difenderà anima e corpo anche senza Milosevic, c'è Seselj e diversi elementi fascisti sparsi un po' dappertutto che, dopo le prime spedizioni in Croazia, in Bosnia ed in Kosovo accarezzano il loro bottino di guerra, si ubriacano di racconti di guerra inventata (praticamente non hanno combattuto che contro civili disarmati) e affilano già i coltelli. In caso di nuove elezioni, Seselj cadrà come Milosevic, se non di più. Se il suo elettorato confuso, sperando in cambiamenti radicali, si è già disperso, il suo nocciolo di fedeli si salderà ancora di più intorno a lui. Milosevic non lo lascia uscire dal governo per non portare da solo il fardello della disfatta. Ha bisogno di Seselj più che mai, per mantenere la maggioranza parlamentare ed evitare nuove elezioni. Seselj vorrebbe lasciare la nave che affonda, ma senza Milosevic ed il suo apparato di stato non è nessuno, mentre tutto intorno il mare è agitato. Quando i ministri radicali hanno dato le loro dimissioni perché hanno votato contro gli accordi di Milosevic e la sua "capitolazione" davanti alla NATO, il Presidente della Repubblica (Milan Milutinovic) li ha richiamati all'ordine: "l'obbligo del lavoro" è in vigore durante lo stato di guerra, che non è stato ancora revocato, sia per il contadino, sia per l'insegnante, sia per il ministro!
Sotto sotto forse Seselj è stato minacciato perché tutti sanno chi governa ancora e senza tentennamenti. Così, lo stalinismo serbo scrive una nuova pagina surrealista, però vera: si minacciano i quindici ministri fascisti che vogliono partire e rompere con la "sinistra jugoslava" (terzo partito di governo, diretto dalla moglie di Milosevic). La burocrazia serba è ridotta politicamente alla congrua porzione. Ieri ha chiesto a Seselj di dividere il potere volontariamente, oggi con la forza. Nella famiglia Milosevic, non si entra quando si vuole, così come non si esce quando si vuole.
Se Seselj è in discesa in seguito a questa guerra, non bisogna dimenticare che il letame sociale del fascismo serbo è la pauperizzazione massiccia. I disoccupati sono più numerosi dei lavoratori, di cui un milione è in disoccupazione "tecnica" da molti anni (complesso metallurgico), rimanendo a casa e ricevendo un'elemosina. Dopo i bombardamenti almeno due o trecentomila operai sono rimasti senza fabbrica e senza lavoro. Li si vuole trascinare sui campi, più per averli sotto controllo che per farli lavorare. E' Pol Pot senza l'ideologia maoista. Le città diventano pericolose per il potere.
La prova si è avuta durante la guerra. Le città del sud, che hanno fornito più mobilitati per il Kosovo e che hanno subito importanti distruzioni - Cacak, Uzice, Kraljevo, Krusevac, Nis, Leskovac, Aleksinac - sono state sul punto di ribellarsi apertamente. Spesso dirette da sindaci dell'opposizione, sono state il teatro di iniziative coraggiose, quale il "parlamento civico" a Cacak. Il sindaco è ricercato dalla polizia militare per le sue dichiarazioni pubbliche contro gli ufficiali locali che traslocavano una fabbrica militare in un complesso civile: la NATO bombarda tutti e due. Composto da democratici locali senza partito e da sindacalisti indipendenti, questo parlamento chiede pubblicamente alla NATO di fermare i bombardamenti e a Milosevic di fermare la pulizia etnica. Il consiglio municipale di Subotica, con il sindaco ungherese Joseph Kasa in testa (la città è multietnica, all'estremo nord verso l'Ungheria) adotta una dichiarazione simile. Per tre giorni al parlamento di Cacak viene proibito per tre volte di riunirsi pubblicamente dal ministero degli interni. Pesanti multe penali sono inflitte in modo sbrigativo fino agli arresti, lo stato di guerra apre la grande porta all'arbitrio del potere.
Evidentemente, l'iniziativa è in mano alle forze popolari e democratiche, il potere è sulla difensiva. Colpisce queste iniziative locali, ma non come vorrebbe - si rischia di scatenare una valanga.

In questa quotidiana guerra di nervi, alla vigilia e all'indomani degli accordi, niente è sicuro. Da un lato c'è l'iniziativa politica, dall'altro la forza armata. Milosevic è rinchiuso nella sua fortezza, ma non ci pensa proprio ad arrendersi. Un'opposizione popolare, e in specifico operaia, è schiacciante in numero, ma non ha né programma politico, né armi. Un incontro di trecento democratici può facilmente essere disperso da tre fascisti armati. Già alcuni anni fa, a Pancevo, un incontro democratico era stato bruscamente interrotto da un ultra-nazionalista disarmato, ma che aveva il coraggio di affrontare la folla nemica. Gli gridano "democrazia", risponde "potete pulirvi il culo con la vostra democrazia" e se ne va tranquillamente.
Sono i piccoli test del rapporto di forza nella lotta di classe. I democratici pacifisti pensano di ottenere la democrazia con la scheda di voto, accanto ai fascisti armati che sorvegliano le urne.
Tuttavia, niente è dato in anticipo. Il fascismo serbo è meglio organizzato e armato dei suoi amici in Europa occidentale. Anche se è su una china discendente, esso potrà trovare tra i serbi di Krajina, di Bosnia e del Kosovo migliaia di volontari. Grideranno alla rivincita serba, ma prima di procedere alla rivincita contro HVO o UCK ben armati, si eserciteranno sul movimento democratico e operaio serbo, disarmato. Le questioni tattiche alla vigilia di questi conflitti imminenti sono questioni di vita o di morte. Il movimento operaio che sta rinascendo, in specifico in un sindacato indipendente, manca di un partito indipendente. Il sindacato "Nezavisnost" è rimasto abbastanza confuso e diviso durante la guerra. Bisognerà recuperare in qualche mese molti anni perduti. Impresa dura ma non impossibile. Soli non ce la faremo. Con l'aiuto internazionale del movimento operaio, forse. Con un po' di audacia e di intelligenza in più sicuramente.

Il fronte decisivo di questa guerra è dove lo si immagina di meno oggi: sui ponti distrutti tra i diversi popoli ex-jugoslavi. La guerra jugoslava è partita dall'alto e la maggior parte delle volte dall'esterno, cioè da Belgrado. La Serbia era e resta la chiave di volta di qualsiasi politica balcanica. Le grandi potenze, dopo aver sostenuto Milosevic durante questi anni, mettono oggi la sua testa in palio, ma non si sognano assolutamente di ricostruire i ponti. Il disprezzo e l'interesse imperialista dichiarano questi popoli come barbari, in guerra da secoli, incapaci di vivere insieme senza la loro presenza militare e senza la loro direzione nella trasformazione sociale. Impongono una pace che continua a essere ad essere una guerra larvata, promettono crediti che tardano a venire, e quando arrivano sono subito dilapidati dalla mafia politica locale, devota anima e corpo a coloro che hanno qualcosa da offrire. I socialdemocratici sono tra loro. Il programma chiama alla collaborazione tra il capitale ed il lavoro, ma si ritrovano sempre in pratica dalla parte del capitale.
La pace ed il progresso fanno parte dell'attuale ideologia capitalista, che la NATO esporta sotto protezione armata, sommariamente identificati con la democrazia occidentale - il parlamentarismo borghese ridotto al clientelarismo. Le tare di questo sistema, ben conosciute in Europa occidentale, sono vere caricature all'Est, dove non c'è borghesia autoctona, né tradizione democratica, né movimento operaio organizzato. E' la democrazia delle scimmie parlamentari sotto l'occhio vigile degli interessi mafiosi.
Le grandi potenze imperialiste sotto l'egida dell'ONU creano in realtà protettorati sotto il loro controllo militare, politico e finanziario. Gestiscono la divisione e la paralisi bosniaca da padroni sovrani, senza nessun termine definitivo. Faranno la stessa cosa in Kosovo.
Gli albanesi e i serbi saranno disarmati, tenuti a distanza e nell'ostilità permanente, i loro quartieri, città o rispettivi territori saranno nei fatti divisi, malgrado le dichiarazioni solenni dell'ONU. Gli uni e gli altri saranno abbandonati ai loro rispettivi nazionalisti. Le iniziative per creare ponti di fiducia tra i diversi popoli in uno spirito democratico, in tutta libertà e indipendenza nazionale, saranno combattute. Queste iniziative prenderanno necessariamente la strada percorsa dai primi socialisti balcanici prima del 1914, ma saranno combattute come il ritorno del bolscevismo. Il Kosovo non sarà più serbo, ma gli albanesi non avranno la loro indipendenza. Le mafie locali, e le mafie politiche che sono le meglio strutturate, approfitteranno dei crediti stranieri e del caos politico e sociale interno, per diventare i migliori interpreti delle volontà dell'imperialismo democratico.

La chiave di volta del complesso balcanico è in Serbia. Se Milosevic cade, il popolo serbo si riprenderà dallo choc. O piuttosto se il popolo serbo scende per strada, Milosevic cadrà. Non è che con questo i lavoratori avranno vinto. Quest'eventuale vittoria verrà loro rubata da quelli che prima cercavano un piccolo strapuntino da Milosevic (Djindjic, Panic, Draskovic, Djukanovic), ma che oggi hanno trovato un appoggio alternativo più conveniente da parte dei governi occidentali. Dicono che l'occidente dopo le bombe darà al popolo serbo crediti e democrazia. Negli annessi, sarà precisato che la privatizzazione dei grandi mezzi di produzione e di comunicazione sarà obbligatoria, affinchè "la vera democrazia" possa funzionare. La disoccupazione sarà trattata dai servizi sociali dei municipi che non hanno nemmeno i soldi per assicurare acqua e pulizia della città.
Se la speranza di cambiamento democratico e di miglioramento sociale è deluso, se si installa una paralisi politica - ed è una quasi certezza, perché le coalizioni saranno effimere, instabili e sempre a corto di maggioranza - il fascismo potrà contare su nuove possibilità, proporrà la dittatura per combattere il caos, come ha proposto la guerra come mezzo per combattere la decadenza sociale ed economica.
Ma prima di tornare di nuovo al potere - a condizione che lo lasci, il che non è scontato - bisognerà che ritempri le sue armi, che impedisca la rimonta operaia, per sua natura democratica, con l'eliminazione fisica dei suoi militanti, democratici e sindacalisti.
Per avere un minimo di democrazia, nella quale si possa difendere il diritto alla vita, bisognerà in pratica vincere e conquistare il potere politico. La classe operaia, dopo l'esperienza amara dell' "autogestione" oserà pensare e agire per la conquista del potere, per suo proprio conto, autonomamente? Questo si vedrà nel conflitto delle vive forze sociali.



25 giugno 1999