LA SERBIA A DIECI ANNI DAL CROLLO DEL MURO DI BERLINO
IL REGIME DI MILOSEVIC E LA SUA FUNZIONE NELLA TRASFORMAZIONE CAPITALISTA DELLA SERBIA


novembre 1999, di Ilario Salucci



Le undici settimane di bombardamenti della Nato sulla Federazione Jugoslava hanno riportato l'attenzione di massa sulla Serbia e sui paesi dell'Europa centro-orientale. Cosa sia successo dal punto di vista sociale in questi paesi in questi ultimi dieci anni, ed in specifico in Serbia, è stato un argomento ben poco affrontato. La dinamica della reale, o mancata, restaurazione capitalista in Serbia non è sostanzialmente mai arrivata ad essere discussa sulla stampa italiana. L'anniversario della caduta del muro di Berlino, l'avvenimento simbolo del crollo del cosiddetto "socialismo reale", non sta, almeno finora, provocando particolari dibattiti e riflessioni. In linea generale la stampa filo-Nato si è limitata a dipingere Milosevic come "l'ultimo dittatore comunista dell'Est". In effetti il governo al potere in Serbia è formato da una coalizione di tre partiti, di cui due si autodefiniscono di sinistra, il Partito Socialista Serbo e la Sinistra Unita Jugoslava (quest'ultima è stata invitata ed ha partecipato allo scorso congresso del Partito della Rifondazione Comunista) e l'opposizione e i manifestanti anti-Milosevic da parte loro si autodefiniscono di centro o di destra, e lo slogan più popolare è "via i banditi rossi!". Nella sinistra italiana alcuni settori hanno assunto lo stesso quadro d'analisi della stampa filo-Nato (evidentemente con simpatie politiche rovesciate), sostenendo che la Serbia sia "un ostacolo alla globalizzazione imperialista" che si opporrebbe ad un "progetto di ricolonizzazione condotto dall'imperialismo statunitense". Altri si sono spinti fino ad affermare la continuità tra la vecchia Federazione Jugoslava dell' "autogestione socialista" e quella attuale, ricordando l'enorme peso del settore statale nell'economia serba.

Una privatizzazione lunga dieci anni e non ancora terminata

La storia dei progetti di privatizzazione del sistema industriale serbo (la terra coltivata è in larghissima parte in proprietà privata da decenni) potrebbe apparire una semplice "storia di fallimenti", considerando che le attuali valutazioni sulla quota della proprietà statale e "sociale" in Serbia si aggirano sull'80%. Per quanto il ragionamento possa essere dal punto di vista aritmetico incontrovertibile, la vicenda "privatizzazioni in Serbia" può consentire alcune considerazioni relative all'organizzazione sociale di questo paese.

In Serbia sono state operative tre leggi sulle privatizzazioni: la prima varata dal parlamento federale jugoslavo nel dicembre 1989 (modificata in modo sostanziale nel successivo agosto), la seconda varata dal parlamento serbo nell'agosto 1991, e la terza adottata sempre dal governo serbo nel luglio 1997. Tra la seconda e la terza legge, nell'agosto 1994, vennero emanate delle disposizioni che andarono a riconsiderare le precedenti privatizzazioni. L'inizio di questo processo di revisione delle struttura proprietaria dell'economia nel 1989 non incontrò alcuna opposizione: tra le misure economiche adottate nel dicembre 1989 diverse furono adottate a titolo provvisorio dal solo governo, mentre la parte relativa alle privatizzazioni fu adottata senza alcun problema dal Parlamento.
Tutte queste leggi lasciano la decisione se intraprendere o meno il processo di privatizzazione ai soggetti di questo processo, alle imprese (cioè ai manager delle stesse). Tutte prevedono una distribuzione delle azioni con forti sconti ai lavoratori delle ditte interessate dal mutamento di proprietà - la legge del 1991 da questo punto di vista è più restrittiva di quella del 1989-90, con minori agevolazioni ai lavoratori e maggiori agevolazioni fiscali agli investitori esteri, mentre la legge del 1997 prevede la distribuzione gratuita di una quota di azioni ai lavoratori (la concessione di sconti, pure prevista, è però alla fine degli anni '90 una misura senza seguito, vista la situazione di estrema pauperizzazione dei lavoratori serbi). La legge del 1997 prevede un intervento diretto dello stato a favore della privatizzazione per tutte le grandi imprese, per quelle di interesse pubblico, e per quelle che hanno registrato grandi passività o si ritrovano con grandi problemi di insolvenza, tutte indicate in una cosiddetta "lista speciale" (mentre le aziende di interesse pubblico come il settore energetico, le ferrovie, le poste e telecomunicazioni, ecc. erano escluse esplicitamente dalla prima legge del 1989-90).
Dal punto di vista dei risultati la prima legge portò in un anno di applicazione, al livello dell'allora Federazione Jugoslava, all'avvio della privatizzazione nel 16% delle "imprese sociali", pari al 10% degli occupati (dati al giugno 1991). Questo processo fu particolarmente forte in Serbia, dove il numero di "imprese sociali" coinvolte furono tra il 35% e il 45% (dati di agosto e ottobre 1991) e dove nacquero ex novo 22.000 imprese totalmente private (al dicembre 1990, più che raddoppiatesi sei mesi dopo), che occupavano 15.000 dipendenti a Belgrado. A livello comparativo nel 1991 il peso del settore privato in Serbia era maggiore che in Slovenia e in Croazia.
La seconda legge del 1991 si inserisce in una situazione in cui tutte le repubbliche sorte dalla disgregazione della Federazione Jugoslava adottano una propria legislazione in materia, pur non essendo internazionalmente riconosciute. La Serbia giunge seconda dopo la Croazia. Queste nuove leggi repubblicane sono molto simili tra loro e sono caratterizzate rispetto alla vecchia legge federale da un maggiore controllo governativo attraverso procedure più centralizzate, una esplicita ri-nazionalizzazione di parti dell'economia e da condizioni più restrittive nell'acquisizione di azioni da parte dei lavoratori. In Serbia i processi di privatizzazione si bloccano fino a tutto il 1992, per riprendere ad una velocità incontrollata nel 1993, quando una iperinflazione con tassi iperbolici rende praticamente gratuite le azioni (la rivalutazione del loro valore era fissato con una cadenza annuale). La quota "privatizzata" sale nel giro di un anno a più del 50%, e le nuove imprese private giungono alla cifra record di 186.000, che pur facendo lavorare solo il 2% della forza-lavoro complessiva, contribuiscono al 25% del PML, operando soprattutto nel settore dell'import/export e delle transazioni finanziarie.
La verifica delle privatizzazioni effettuate secondo la legge dell'agosto 1994 su proposta dell'opposizione serba (il settore politico più intransigente nel richiedere una "vera economia di mercato", ma che era preoccupata dall'ondata di "privatizzazioni selvagge" a costo zero per gli acquirenti) portarono all'annullamento di quasi il 90% delle privatizzazioni realizzate, non solo quelle del 1993, ma anche quelle del 1990-1991. La situazione che emerse in modo stabilizzato nel 1995 è la seguente: il capitale "sociale" con una quota del 38%, quello statale del 44%, quello "misto" (privato/statale, privato/sociale) 13%, quello privato straniero 3% e infine quello privato interno 2%.
La terza e ultima legge è entrata praticamente in vigore nel gennaio 1998, e prevede tra le altre misure la privatizzazione tramite conversione dei debiti delle imprese in diritti di proprietà sulle stesse. Non esistono dati aggregati sui risultati della sua applicazione: secondo una dichiarazione governativa dell'ottobre 1999 solo il 2-5% delle piccole e medie imprese statali/sociali ha proceduto con la privatizzazione, mentre il silenzio è mantenuto sulle imprese presenti nella "lista speciale". Valutazioni correnti affermano comunque che ancora l'80% del capitale in Serbia sia di proprietà statale o sociale -secondo altre valutazioni il capitale strettamente statale/sociale, distinto da forme miste di proprietà, sarebbe inferiore al 60%. Nel corso del 1997 e del 1998 sono state privatizzate tramite vendita all'estero le telecomunicazioni (49% venduto alle aziende di telecomunicazioni italiana e greca), il complesso di cementifici Beocin (a una società francese), ed è stato stipulato un contratto che obbliga a una futura vendita delle miniere di Trepca a una società greca (tramite il meccanismo di conversione "debiti in azioni"). Inoltre erano state avviate le procedure di vendita all'estero del 10% dell'industria elettrica (EPS) e del 35% di quella petrolifera (NIS), che non si sono potute concludere per la situazione politica creatasi dalla primavera del 1998 (guerra in Kosovo, blocco degli investimenti esteri, bombardamenti della Nato).

Da questo insieme di processi, nonostante l'andamento a zig-zag dei risultati delle leggi sulle privatizzazioni, sono emerse una serie di modificazioni profonde che vanno al di là della semplice percentuale di "economia privata" esistente: lo smantellamento dell'autogestione, un processo di statalizzazione dell'economia e lo sviluppo di un settore privato marginale come quota del capitale nazionale, ma decisivo nella formazione del reddito:
*        In primo luogo, grazie alle cosiddette "Leggi sull'impresa" (una fu adottata dal Parlamento federale jugoslavo alla fine del 1988, l'altra fu adottata dal Parlamento serbo nel luglio 1995), che furono un complemento importantissimo alle leggi sulle privatizzazioni, venne abolita la strutturazione della vecchia "autogestione socialista", cancellando le "organizzazioni di lavoro associato" (le imprese) e i "consigli operai", ed instaurando tutte le forme classiche delle imprese capitaliste, e prevedendo la loro possibile commercializzazione. Si aprì cioè la strada (fin dal 1988) al sorgere di un robusto settore privato autonomo. Dal punto di vista gestionale venne sostituita la responsabilità collettiva dei lavoratori con quella individuale dei manager e dei direttori, e si equipararono le loro figure in termini di oneri e responsabilità tra settore privato e settore statale/sociale - formalmente nel settore sociale il management e il direttore sarebbero figure eleggibili dalle maestranze, ma questa clausola è pura lettera morta, come risulta da un'inchiesta condotta nelle imprese di Novi Sad nel 1996 che conclude sull'esistenza generalizzata del "führerprinzip" nell'organizzazione del lavoro, e come dimostrano tutti gli scioperi operai che hanno come rivendicazione le dimissioni del management e dei direttori. Molte volte il consiglio di amministrazione e il direttore vengono scelti dalle banche verso le quali l'impresa "sociale" è indebitata. Infine la legge serba del 1995 vieta esplicitamente la creazione di nuove imprese statali o sociali.
Le vecchie strutture dell' "autogestione socialista" vennero smantellate a livello costituzionale nel 1988-89 tramite una serie di emendamenti alla carta del 1974, e non vennero rimesse in vita né dalla nuova costituzione serba del settembre 1990 (che non ne fa parola), né dalla costituzione della nuova Federazione Jugoslava dell'aprile 1992 (anch'essa non ne fa parola).
*        Accanto allo smantellamento del vecchio sistema "autogestionario socialista" risalente a più di dieci anni or sono, vi è stato un processo di "statalizzazione" dell'economia. Nella vecchia Jugoslavia la proprietà delle imprese spettava formalmente all'intera società, non allo stato, e le aziende erano "organizzazioni del lavoro associato" . Questo processo di statalizzazione a scapito del settore "sociale" si concentra nel 1991 e nel 1994 e sembra si sia ulteriormente allargato negli ultimi due anni.
*        Infine si è avuta la liberalizzazione delle condizioni per lo stabilirsi di ditte private, con conseguenze molto importanti. Queste nuove imprese operano soprattutto nel campo del commercio e della finanza (molte volte riciclando denaro proveniente dai "bottini di guerra", coprendo traffici di armi, o come canali di puri e semplici furti ai danni della proprietà pubblica), e pur risultando totalmente marginali dal punto di vista della ripartizione del capitale nazionale e dell'impiego della forza-lavoro, hanno un peso decisivo nella formazione del PML.
Questi processi di statalizzazione dell'economia e dell'affermarsi delle nuove imprese private caratterizzano anche la Croazia, nonostante le "differenze ideologiche" tra il HDZ croato e il SPS serbo.

Questi processi derivano dalla contraddizione di base con cui si scontrano i processi di privatizzazione, non solo in Serbia ma anche negli altri paesi ex "socialisti reali", e cioè che il risparmio nazionale esistente, la quantità di ricchezza in mano privata posseduta dalla popolazione, è una frazione infima del valore del capitale da privatizzare. In questa situazione sono prevalsi modalità di privatizzazione con distribuzione di azioni ai dipendenti, gratuitamente o con forti sconti, modalità che tuttavia rendono particolarmente tenue il confine tra "impresa privata" ed "impresa statale" (o sociale), visto che gli azionisti di queste "imprese private" non esercitano un ruolo di possessori di capitale e l'impresa continua ad essere sotto controllo del management come prima. Detto in altri termini, la modalità delle privatizzazioni non risolve in sé il problema della formazione di una classe capitalista in questi paesi. Si possono venire a creare diverse relazioni a questo proposito.
Una privatizzazione può coprire una proprietà statale reale, come le "imprese miste" in Serbia in cui in realtà l'unico proprietario è lo stato (acciaierie, elettronica, ecc.), o il pacchetto di maggioranza è in mano a banche formalmente private ma che sono a loro volta partecipate maggioritariamente da imprese industriali statali.
Oppure si vengono a creare delle "zone grigie" in cui la definizione della proprietà dell'impresa è quasi impossibile: ad es. ci sono voluti mesi per determinare se la ditta di import/export "Progresgas" (tra le prime dieci imprese serbe per fatturato e profitti, con un ammontare di redditi netti pari a tre volte quello di tutte le altre nove più grandi imprese jugoslave messe insieme, e questo nonostante abbia in tutto sei dipendenti) fosse privata o statale, e se quindi Mirko Marjanovic (l'intramontabile primo ministro serbo) ne fosse il proprietario o "solo" il fondatore. Alla fine della disputa legale è stato stabilito che ne era "solo" il fondatore - anche se Marjanovic continua a dirigere quest'impresa come se ne fosse l'esclusivo proprietario. La "Progresgas" fu inizialmente registrata come privata, successivamente proclamata statale, e (immaginiamo) nel futuro potrà ridiventare altrettanto facilmente ancora privata.
Oppure vi sono situazioni (particolarmente diffuse non solo in Serbia) in cui il manager di un'impresa statale usa la "sua" impresa trasferendo i reparti più profittevoli (commercializzazione, progettazione, ecc.) a società private intestate a sé stesso o a propri familiari. Si tratta delle cosiddette "imprese satelliti", che operano solo con la ditta madre che rimane statale. In questa situazione il manager in questione può accumulare capitali nella misura in cui l'azienda statale continua a rimanere tale, e quindi che i suoi debiti vengano accollati in ultima istanza allo stato, mentre i profitti vengono intascati dal manager in questione.

La via della formazione di una classe capitalista può avvenire grazie (e non nonostante) l'esistenza di un cospicuo settore statale. Tutto sta nella modalità concreta del funzionamento socio-economico. In Serbia quasi ogni direttore d'impresa è un businessman privato con interessi in varie società, spesse volte con sedi all'estero. Una privatizzazione "selvaggia" che incrini il potere dell'élite economica che proviene dal vecchio "socialismo reale" può avere conseguenze disastrose, visto che è questa élite che da un lato assicura il funzionamento (per quanto traballante) del sistema economico, e dall'altro è lo strato sociale naturalmente candidato alla formazione della borghesia nazionale, nelle condizioni di poter procedere ad una accumulazione di capitali. Non penso sia un caso, ad es., che la destra tornata al potere in Bulgaria sia così restia a una serie di misure di privatizzazioni dopo esserne stata l'artefice sconsiderata all'inizio degli anni '90.

Tutti questi problemi non si porrebbero se vi fosse un afflusso eccezionale di capitali esteri, ma il problema è che la "domanda" di capitali esteri è di gran lunga maggiore della sua "offerta", anche in assenza di sanzioni internazionali tipo quelle che hanno colpito la Serbia dal 1992 al 1995 e di nuovo a partire dal 1998. Riferendosi alla Serbia non è che i paesi capitalisti occidentali vorrebbero, contro la volontà di Belgrado, aprirne le porte economiche. Le porte sono già aperte, e da molto tempo. Il 90% delle categorie di merci di importazione sono totalmente liberalizzate e il regime serbo ha manifestato centinaia di volte (ed ancora in questi giorni) il suo desiderio che il capitale straniero entri nei settori chiave dell'economia serba (telecomunicazioni, energia, petrolio, ecc.). A questo fine ha varato numerose leggi sugli investimenti esteri e sulla costituzione di "free trade zones" dove gli incentivi al capitale straniero sono molto grandi, arrivando ad una detassazione totale dei profitti per sei anni, e a una detassazione del 40% sui contributi salariali. Il problema è che misure analoghe vengono prese da decine di paesi nel mondo, affamati di capitali, e la concorrenza in questo campo è spietata.

Non potendo contare su una soluzione basata su una capitalizzazione proveniente dall'estero, e quindi su una classe capitalista straniera che si afferma nel paese in questione, l'elemento centrale diventa da un lato determinare se si ha un'accumulazione di denaro nelle mani di un settore ristretto di persone, embrione di una nuova classe di capitalisti (nella misura in cui usa questo denaro come capitale), dall'altro il comportamento concreto da parte delle aziende, se cioè queste ultime si muovono come imprese capitaliste o meno, indipendentemente dall'assetto proprietario formale. In realtà dietro la non privatizzazione dell'80% (o altra percentuale) dell'economia serba si è consumato un processo di privatizzazione reale delle ricchezze sociali esistenti in questo paese.

Differenziazioni sociali e quadro politico

"L'economia della distruzione - Il grande furto ai danni del popolo", dell'economista Mladjan Dinkic, pubblicato nel 1995, permette di chiarire i meccanismi tramite i quali l'élite al potere a Belgrado decise, dopo il fallimento del "Prestito per la Rinascita Economica" lanciato a metà del 1989, di "utilizzare metodi più 'sottili' con i quali fosse possibile mettere insieme in pochi mesi, e con molti meno sforzi, molta più valuta estera di quanto avesse permesso il prestito in un anno e mezzo. E senza l'obbligo di ritornare il denaro".
All'inizio del 1991 apparvero le prime banche private che in cambio di depositi in valuta estera fornivano altissimi interessi (in dinari). Dal febbraio 1992 iniziò una iperinflazione che raggiunse il suo vertice nel gennaio 1994, quando toccò il 20-30% al giorno - complessivamente nel 1993 il tasso d'inflazione fu di 222.000 miliardi per cento, e tra il febbraio 1992 e il gennaio 1994 i prezzi aumentarono di un fattore pari a 3,6x10-22-. Questa iperinflazione fu decisa e creata dalle stesse autorità monetarie - tant'è che quando la situazione arrivò al caos e le stesse autorità avevano quasi perso il controllo della situazione, si arrivò a un tasso di inflazione zero nel giro di una sola notte, il 24 gennaio 1994, con il lancio del "nuovo dinaro". Il tasso d'inflazione tra il 24 gennaio e il 31 dicembre 1994 fu del 3,3%.
Con il meccanismo dell'iperinflazione, con la differenza tra tassi ufficiali e tassi in nero, e vari meccanismi che coinvolgevano banca centrale, banche commerciali statali e private, industrie e dealers di valuta in nero, vennero rastrellati tutti i risparmi in valuta della popolazione (provenienti dalle rimesse dei lavoratori emigrati) in cambio di dinari che nel corso di qualche giorno diventavano moneta straccia.
Coloro che avevano depositato i propri averi in valuta estera su conti bancari, videro i propri conti correnti "congelati" - a distanza di anni, ancora oggi non è stata emanata alcuna legge per risolvere il contenzioso su quei conti.
Alla fine, secondo la valutazione di Dinkic, l'equivalente di 5.000 miliardi di lire venne sottratto al complesso della popolazione jugoslava in questo modo, ammontare che in parte servì a finanziare lo sforzo militare serbo durante la guerra bosniaca, ed in parte permise arricchimenti miliardari alla élite economica e politica serba. In che misura? Secondo valutazioni (non smentite) del giornale "Nedeljni Telegraf" risalenti al 1996 le persone in Serbia con averi personali superiori all'equivalente di 10 miliardi di lire italiane sarebbero meno di un centinaio, tra cui la famiglia Karic (150 miliardi), Nenad Djordjevic, proprietario della "BTC Trade Company" e tra i fondatori della "Sinistra Unita Jugoslava" (50-130 miliardi), Zoran Drakulic, direttore della ditta statale di import/export Geneks (100 miliardi), e il primo ministro serbo Mirko Marjanovic (40-50 miliardi). Invece le persone miliardarie (con averi da uno a dieci miliardi) sarebbero qualche centinaia. Recentemente sono state avanzate cifre le più disparate (nell'ordine di centinaia di miliardi) riguardo agli averi della famiglia Milosevic, il cui figlio Marko si distingue come businessman, e non solo come rampollo della "guida del Paese".
Dall'altra parte la popolazione venne ridotta a una situazione di pauperizzazione drammatica. I redditi reali nel 1993 erano pari a un quinto di quelli del 1989. I settori più colpiti furono lavoratori dipendenti e pensionati. Secondo un'inchiesta commissionata dalla Croce Rossa Internazionale sui beneficiari delle "mense dei poveri" il 72 % erano salariati o pensionati. Secondo gli studi della economista Aleksandra Posarac il salario medio mensile del 1990 permetteva di acquistare 411 kg di pane, o 107 kg di detersivo, o 500 l. di benzina; nel marzo 1994 le cifre erano diventate 123 kg di pane, 43 kg di detersivo e 49 l. di benzina. Il salario medio nei primi mesi del 1994 (aumentato in modo consistente rispetto a quello del 1993) corrispondeva a circa 100.000 lire italiane e circa mezzo milione di persone viveva con l'equivalente di 40.000 lire italiane. In queste condizioni salari e pensioni erano totalmente insufficienti anche solo per la sopravvivenza: secondo questi studi un terzo delle famiglie in Serbia viveva di traffici nel mercato nero o di lavori "in nero", mentre una quota molto consistente viveva di "consumo naturale" (produzione di beni per autoconsumo). Secondo i criteri in uso nel 1990 il 90% della popolazione serba nel 1994 sarebbe stata classificata come "povera".
Il sociologo Mladen Lazic afferma che "le condizioni [esistenti] hanno consentito una redistribuzione ampia e veloce della ricchezza sociale e la accumulazione da parte di uno stretto strato sociale", mentre la economista Milica Uvalic conclude un suo studio che traccia uno strettissimo parallelo tra Croazia e Serbia affermando che "i vantaggi per la nomenklatura riciclata furono finanziati in primo luogo dai lavoratori e dai pensionati - attraverso una sostanziale diminuzione dei redditi reali, la disoccupazione crescente e frequenti ritardi nei pagamenti di salari e pensioni".

A questa differenziazione sociale si aggiungono una serie di misure legislative rivolte a controllare e contenere la potenziale organizzazione e mobilitazione dei lavoratori. Nel 1993 è stata introdotta un nuova legislazione, naturalmente più restrittiva, sugli scioperi. Per potere operare un nuovo sindacato deve registrarsi e per ottenere questa registrazione vi deve essere l'assenso preventivo della controparte, cioè del management. Tutta la struttura contrattuale è stata modificata a partire dal 1994 (era già stata sospesa nel 1992) con l'abolizione del contratto collettivo nazionale e l'instaurazione di contratti a livelli di settore ed industria, con una sostanziale atomizzazione dei lavoratori - senza considerare che da un lato gli unici sindacati considerati "rappresentativi" sono quelli di regime, e dall'altro che le norme contrattuali sono sistematicamente non rispettate dal management (riguardo alla sicurezza sul lavoro la situazione è particolarmente grave). Se nel caso del settore dei trasporti della città di Belgrado, nel 1995 si arrivò al licenziamento di tutto il Comitato di Sciopero che era stato formato, nelle altre situazioni è moneta corrente l'intimidazione dei sindacalisti anche attraverso le forze di polizia.
Ma il compito di "disciplinamento" dei lavoratori è svolto ben più che dall'intervento diretto dello stato, dall'operare "impersonale" del mercato del lavoro. In Serbia l'occupazione nei settori non agricoli è passata da 2.650.000 nel 1989 a 2.150.000 nel 1998, con un tasso di disoccupazione ufficiale del 26%. A questo si devono aggiungere le centinaia di migliaia di lavoratori (non inclusi nelle statistiche citate) che già sono fuori della produzione, nella condizione di "ferie forzate" - ad es. nelle due maggiori imprese di Nis l'occupazione complessiva è passata da 50.000 dieci anni fa agli odierni 10-15.000. In questa situazione la preoccupazione maggiore dei lavoratori è l'insicurezza del posto di lavoro, e i livelli salariali vengono spinti ai minimi livelli, con un incremento delle differenziazioni nelle retribuzioni tra i vari settori e all'interno di ciascun settore. Chi riesce a trovare un posto di lavoro nel settore privato accetta anche le peggiori condizioni di lavoro possibili - tant'è che la sindacalizzazione nel "privato" è pressoché nulla.

Come riflettono questa differenziazione sociale le forze politiche serbe? Due dei tre partiti al governo (Partito Socialista Serbo, SPS, e Sinistra Unita Jugoslava, JUL) proclamano di essere i più ardenti difensori degli interessi dei lavoratori, il che può far sorgere legittimamente qualche perplessità visto quanto avvenuto in questi dieci anni. Questi due partiti sono molto simili tra loro non solo nella autoproclamata collocazione a sinistra, ma anche nella composizione della loro struttura.
Questi partiti di "sinistra" hanno organi dirigenti formati quasi esclusivamente da businessmen, mentre i lavoratori arrivano difficilmente all'1%. E' stato detto a ragione che la JUL più che un partito di lavoratori è il Rotary Club serbo - analoga affermazione si potrebbe fare del SPS. E' pressoché impossibile trovare un ministro del SPS e della JUL che non sia direttore di aziende statali o proprietario di qualche impresa privata.
L'assassinio (il caso non è stato ad oggi risolto) nel 1997 del segretario generale della JUL, Zoran Todorovic, ha portato alla pubblicazione della sua carriera, rappresentativa dei percorsi di buona parte dell'élite serba. Todorovic nel 1990 passa dal posto di presidente dell'Unione dei Lavoratori Socialisti di Belgrado alla vicepresidenza della "Compagnia unita delle industrie chimiche e del gas di Jugoslavia"; per dissensi con il "signore del petrolio" Dragan Tomic (ancora oggi direttore della Jugopetrol), si sposta e diviene direttore alle vendite della "ATL Co.", che si occupa di import/export di prodotti strategici. Il passo successivo è la fondazione di una banca privata (siamo nel 1993, anno cruciale) e dell'impresa "T&M", anch'essa operante nel campo dell'import/export. Gli affari della "T&M" vanno bene, mentre la "ATL Co." subisce un tracollo: uno dei fondatori si trasferisce nell'alto management della Telecom serba, mentre il direttore generale e il responsabile per la Jugoslavia si suicidano. Todorovic invece è un uomo di successo: la sua "T&M" riesce a diventare rappresentante jugoslavo della Uniliver (la 36° maggiore compagnia a livello mondiale), che ha l'esclusiva nella distribuzione di molteplici prodotti di lusso. In questo ruolo la "T&M" è associata con la "Dibek Co.", la cui proprietà è di una società con sede alle Bahamas (la "Medtrade Co."), fondata e posseduta da Milan Beko, allora 35enne e ministro delle privatizzazioni. La "T&M" investe nell'edilizia e nell'agricoltura, e si specializza nel rilevare aziende fallite, dove tutti i partecipanti alle transazioni riescono a fare sostanziosi profitti (ad eccezione dei lavoratori licenziati): nel 1996 è la 72° impresa jugoslava, ed è alla settima posizione nella classifica tra le imprese commerciali più profittevoli (il tutto con 11 impiegati). Nel 1997 Todorovic arriva alla testa della "DP Beopetrol", una compagnia fondata nel 1991 con i beni requisiti in Serbia alla compagnia petrolifera croata INA. La "DP Beopetrol" diventa subito profittevole e inizia immediatamente dopo l'arrivo di Todorovic la procedura di privatizzazione, autorizzata dal governo il 13 ottobre 1997. Ma il 25 ottobre Todorovic viene assassinato per strada, di fronte alla sede della Beopetrol. Aveva 38 anni.
La JUL non ha affrontato recentemente il test elettorale (nel 1993 ottenne una percentuale minima che non gli consentì di eleggere un singolo deputato). Alle ultime elezioni si è presentata in coalizione con il SPS, e all'interno di questo coalizione ha conquistato deputati e ministri. A livello di massa il bacino elettorale del SPS, secondo gli studi di Vladimir Goati, si basa soprattutto sui contadini, sulla classe operaia e sui pensionati.
L'appoggio dei contadini al partito al potere sarebbe massiccio e omogeneo: costituiscono la classe sociale che è riuscita a "perdere meno" in questi ultimi dieci anni, e il programma dei partiti d'opposizione non offre loro nulla di particolare. Inoltre come proprietari privati non sono toccati dalla questione delle privatizzazioni. La classe operaia non ha invece un comportamento elettorale omogeneo: i lavoratori non hanno certo guadagnato nulla, anzi hanno perso quasi tutto in questi dieci anni, ma l'opposizione a Milosevic da un lato fa della "democrazia" in sé il proprio quasi unico obiettivo - il che può lasciare particolarmente freddi chi lotta quotidianamente per la sopravvivenza e d'altro lato questa opposizione fa delle privatizzazioni un proprio cavallo di battaglia, promettendo ulteriori sacrifici a una popolazione già stremata. Al di là di questi fattori politici vi è una realtà materiale di dipendenza dei lavoratori dallo Stato ben illustrata negli studi di Mihail Arandarenko: nelle imprese statali si può ancora sperare di esser messi in "ferie forzate" anziché licenziati, e questo è un aspetto decisivo non tanto per la ridicola retribuzione salariale che viene corrisposta (con ritardi), quanto il fatto che permette di godere dell'assistenza sanitaria (attualmente a pezzi, ma comunque meglio di nulla), assistenza che invece i disoccupati perdono. Inoltre l'adesione al sindacato di regime garantisce una serie di "privilegi", come ricevere degli aiuti materiali più o meno periodicamente. Da questo complesso di fattori deriva l'appoggio elettorale al SPS-JUL di una frazione della classe operaia. Infine l'appoggio dei pensionati al partito al potere non deriverebbe da interessi materiali (sono anzi la categoria sociale la più colpita negli anni '90), ma da motivi socio-psicologici e ideologici: l'identificazione con il passato regime e l'avversione a ogni forza di opposizione. Questa avversione è ben rinforzata da quei partiti d'opposizione (come il Movimento del Rinnovamento Serbo, SPO) che fanno della tradizione cetnica e monarchica il proprio vessillo.
Il SPS è quindi riuscito a condurre per dieci anni una durissima politica anti-operaia (nonostante la sua patetica retorica propagandistica, come ad es. nel 1990 quando lo slogan centrale fu "Con noi non ci sono incertezze") e mantenere un bacino elettorale operaio e popolare? La risposta è affermativa solo molto parzialmente: in realtà l'elemento più significativo del comportamento elettorale in Serbia è l'altissimo tasso di astensionismo - così nelle elezioni presidenziali del 1996 il 50% degli aventi diritto non andò alle urne. Il SPS e la JUL non sono partiti della classe operaia, quando piuttosto i partiti dei manager, dei direttori d'impresa e dei businessmen. Conquistano una limitata base elettorale di lavoratori e pensionati per la retorica "vecchio stampo" che mantengono e soprattutto per le debolezze (e talvolta l'impresentabilità) delle forze d'opposizione.
Il terzo partito al potere è invece il Partito Radicale Serbo, SRS. Populista, dichiaratamente di destra, partito dell'ordine e sciovinista, ha mantenuto stretti legami a livello internazionale con il francese Le Pen e l'austriaco Heider. E' un partito antisemita (il loro organo di stampa pubblicò come inserto i famigerati "Protocolli dei saggi di Sion"), e a livello economico iperliberista e dichiaratamente thatcheriano (nell'attuale governo serbo la ministra alle privatizzazioni è del SRS). Elettoralmente si basa su settori sottoproletari (da cui recluta anche le proprie milizie paramilitari che si sono costruite una fama non inviabile in tutte le guerre jugoslave, ma di cui invece il massimo dirigente Seselj si vanta apertamente), dai settori più arretrati della classe operaia, e dalla piccola borghesia declassata. Per tutte le sue caratteristiche politiche e sociali è il classico partito fascista. Alle elezioni presidenziali del 1996 prese altrettanti voti del blocco di "sinistra" di SPS e JUL, salvo poi accordarsi in seguito con i concorrenti politici nella formazione del governo serbo, ed essere l'artefice delle leggi più liberticide esistenti in Serbia (quella sull'informazione e sull'università).
Dal lato dell'opposizione già si è accennato al SPO, organizzazione populista, con una base elettorale dal profilo molto simile a quello del SPS. L'altra organizzazione maggiore dell'opposizione, il Partito Democratico, DS, gode del supporto di strati della piccola e media borghesia urbana - non quello della nuova borghesia imprenditoriale e affaristica, che prospera parassitariamente sul regime attuale.
Da questo quadro emerge che lo spettro politico serbo si suddivide tra un polo fascista (SRS), un polo espressione degli interessi dell'élite economica (SPS-JUL), un polo populista nazionalista di destra (SPO) e uno che fa del liberalismo borghese la propria bandiera (senza tuttavia avere l'apporto della borghesia in formazione). In questa situazione è ben poco sorprendente il tasso di astensionismo alle ultime scadenze elettorali. Non esiste alcuna forza politica significativa che faccia della difesa degli interessi della classe operaia il proprio programma e lo scopo della propria attività. In particolari congiunture tuttavia il voto popolare può riversarsi sull'opposizione come voto di protesta verso le malefatte del regime - così come avvenne nelle elezioni amministrative del 1996, così come molti osservatori affermano che possa succedere nelle prossime elezioni politiche (se mai verranno convocate).

Burocrazia, borghesia e restaurazione capitalista

Da dieci anni si sta assistendo a un evento storico assolutamente inedito: la costruzione del capitalismo da parte di soggetti inizialmente senza proprietà, senza capitali. Il motore iniziale di questa trasformazione è stato lo stesso strato dominante del "socialismo reale", la nomenklatura. Da questo punto di vista la storia della Serbia non si differenzia da quella degli altri paesi dell'Est.
Lo smantellamento dell' "autogestione socialista", l'abbattimento di tutti gli ostacoli all'iniziativa privata, lo stabilirsi del mercato del lavoro e del mercato dei capitali, il trasferimento gigantesco della ricchezza sociale dai lavoratori ad un pugno di businessmen, privati o statali che siano, tutto ciò ha portato alla formazione di una classe borghese, di una classe di proprietari privati?
In senso stretto una classe borghese si è formata in Serbia. Il suo rappresentante più conosciuto è Bogoljub Karic, il multimiliardario che opera nel campo finanziario, delle telecomunicazioni, ecc., e che attualmente è ministro "senza portafoglio" nel governo serbo. Questa classe borghese è tuttavia, numericamente, socialmente e dal punto di vista del peso economico, ancora molto limitata.
I grandi complessi industriali non sono di proprietà di capitalisti privati. Nessuno in Serbia aveva ed ha il capitale monetario sufficiente per acquisire diritti di proprietà reali su questi complessi: sono impensabili situazioni dove l'azienda "x" è quotata in Borsa e viene fatto il lancio di un'offerta pubblica di acquisto da parte del magnate "y", per il semplice motivo che non esiste alcun magnate "y" in grado di pagare il valore di un'azienda, poniamo, come quella elettronica di Nis.
Le vie dell'acquisizione dei titoli di proprietà da parte della borghesia in formazione sono diversi, ed un po' più complessi. I candidati sono i direttori e i grandi manager delle imprese statali, che già oggi gestiscono e controllano queste imprese come imprese capitaliste - dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, della dipendenza dai mercati interni ed esterni, del meccanismo di formazione dei prezzi, e così via. Questo strato sociale non solo gestisce l'industria serba in modo capitalistico, ma in più utilizza la propria posizione per accumulare capitali che vengono investiti in imprese e banche private che operano nei settori più profittevoli. Questo rende loro possibile attuare una serie di strategie volte all'acquisizione della proprietà. In una serie di circostanze sono di fatto già proprietari di queste imprese per i crediti che le loro banche hanno verso le aziende in questione - il passaggio formale "dai debiti alle azioni" è garantito dalla legge del luglio '97. In altre situazioni procedono a "svuotare" l'impresa statale di tutti i suoi patrimoni, riducendola in bancarotta, ed acquisendola successivamente a prezzi stracciati. Così in un rapporto dedicato ai diritti dei lavoratori in Serbia, il Comitato Helsinki serbo afferma: "la privatizzazione selvaggia ha operato in Serbia per anni, con il saccheggio della proprietà pubblica e sociale da parte dei manager industriali e della nomenklatura. Molte imprese sono collassate e dopo la bancarotta centinaia di lavoratori sono stati lasciati senza niente, mentre il patrimonio residuo dell'azienda veniva venduto per una miseria, di solito a quelli che gestivano questa impresa prima del collasso. Numerose persone vicine alle autorità sono diventati proprietari di "imprese senza valore" (in cui investiranno quello che prima hanno derubato), dove sono riusciti a sbarazzarsi, abbastanza legalmente, della forza lavoro in esubero". Si è visto che tra il 1989 e il 1998 sono stati almeno 500.000 i lavoratori espulsi dai posti di lavoro (senza contare quelli in "ferie forzate").
Questi processi hanno operato e operano in Serbia, ma non sono giunti alla conclusione. Lo stesso si può dire della Croazia e anche della Slovenia, dove il settore in ultima analisi "pubblico" è predominante. Nella maggior parte delle situazioni l'esistenza del settore statale è ancora il fattore che permette di continuare l'accumulazione di capitali da parte di questi capitalisti che al contempo sono anche manager delle imprese statali. Si è visto il caso della creazione di "imprese satellite" della ditta statale, con la costituzione di imprese private che fanno, ad es., i lavori di commercializzazione o di progettazione - lo stato si accolla i debiti, ed il proprietario delle "imprese satellite" i profitti. L'acquisizione prematura di industrie (tanto più se sono tecnologicamente arretrate o con forza-lavoro ancora "in esubero") potrebbe mettere a rischio l'accumulazione di capitali in corso.
La borghesia serba è una classe sociale in formazione, ancora debole e proveniente dal vecchio strato della burocrazia dominante fino agli anni '80: secondo una ricerca intrapresa nel 1994 la metà dei manager-proprietari delle grandi imprese private sono passati al loro ruolo da precedenti posizioni manageriali avuti nelle imprese "pubbliche". Il capitalismo che ne risulta è certo particolare, molto diverso da quello che siamo abituati a vedere all'opera in Europa occidentale. E' un capitalismo che viene costruito non sulle rovine del vecchio "socialismo reale", ma un capitalismo che viene costruito con i pezzi di queste rovine.
In quest'ottica non vi è una transizione da una situazione di "socialismo reale" verso un modello di capitalismo predefinito, dove si può misurare nel momento "x" o "y" a che punto è giunta questa transizione, come un viaggio dove si determina quanto manca ancora all'arrivo, o dove vi possono essere delle soste, o anche dei ritorni all'indietro. Vi sono molteplici capitalismi, con caratteristiche loro proprie (a seconda del tipo di "rovine" lasciate dal vecchio "socialismo reale"), dove l'elemento di rottura rispetto al passato è se la motivazione basilare dello strato dominante è l'accumulazione di denaro per utilizzarlo come reddito, o come capitale. Se cioè l'accumulazione di denaro è finalizzato alla costruzione di ville, all'acquisto di yacht o che altro, come ai tempi del "socialismo reale", o è finalizzata all'utilizzo di questo denaro come capitale, come denaro che permette di creare altro denaro. Che poi questo capitalismo abbia "la faccia da compagno" (così qualcuno chiama ancora Milosevic e consorte) non cambia il motore che permette a questa società di riprodursi.
Nell'ex Jugoslavia questa rottura si è consumata tra il 1987 e il 1989. Scriveva Branka Magas in quegli anni: "il 1987 verrà ricordato come l'anno in cui il carattere sistemico della crisi è divenuto così evidente che è venuta a cadere ogni speranza che siano possibili misure parziali per far fronte alla crisi. I privilegi e gli interessi della burocrazia in questo periodo di crisi economica porteranno alla disintegrazione della Jugoslavia". L'ondata di scioperi spontanei e senza precedenti che travolge la Jugoslavia dal 1987 (a partire da quello durato due mesi dei minatori istriani di Larbin) fa emergere che l'autogestione non proteggeva gli "autogestiti", non era uno strumento in mano ai lavoratori per i loro diritti, ma un mezzo di sfruttamento: si consuma cioè la delegittimazione di massa dell'autogestione e della Lega dei Comunisti.
Di fronte alla "crisi sistemica" che si era aperta la vecchia nomenklatura optò per la propria trasformazione in classe proprietaria, in anticipo rispetto alla dinamica degli altri paesi dell'Est europeo. La necessità di investimenti esteri, che vi fosse "meno stato", che si instaurasse la "flessibilità del lavoro" insieme a "ordine e disciplina" all'interno delle fabbriche, che si mettesse fine all' "autogestione", che si instaurasse un "vero mercato del lavoro e dei capitali" erano concetti correnti in tutta la Federazione Jugoslava in quegli anni, ripetuti fino alla nausea dalla televisione, dai giornali, dagli accademici e dai politici. Lo stesso Milosevic nel maggio 1988 presiedette una commissione per la riforma economica in Jugoslavia in cui si faceva ardente paladino dell'economia di mercato. I vari interventi legislativi e modifiche costituzionali varati tra il 1988 e il 1989 concretizzarono questa opzione. Il "socialismo reale" era finito, ed iniziava una nuova storia.
Questa scelta compiuta dalla burocrazia al potere venne abbinata in Serbia ad una svolta populista-sciovinista per conquistare una ritrovata verginità agli occhi delle masse. Questa "doppia svolta" sottomise il corpo del partito a tensioni enormi, con purghe ed espulsioni di dirigenti, attivisti, iscritti. Non esistono dati ufficiali, ma nella sola Voivodina le persone espulse dalla Lega dei Comunisti nel 1988 furono probabilmente 5-10.000.

In conclusione la Serbia non è, in alcun modo, un "ostacolo alla globalizzazione imperialista e ai progetti di ricolonizzazione mondiale condotti dagli Stati Uniti". Questa può essere la propaganda della JUL, ma quest'organizzazione ha già dato prova di quanto possano essere credibili le proprie dichiarazioni politiche. La Serbia è stata bombardata non perché è un paese troppo socialista, ma perché il regime autocratico di Milosevic è troppo razzista, e questo comportava dei rischi di instabilità regionale inaccettabile per i vari imperialismi. Quello serbo è il volto del capitalismo dell'est, creato con i pezzi della vecchia nomenklatura, giovane, aggressivo, disposto e capace a giocare d'azzardo, senza scrupoli di nessun genere, irrispettoso dei nuovi equilibri perché è nato dalla distruzione dei vecchi equilibri e sa che così nel passato ha vinto. Il regime serbo non è un ostacolo alla globalizzazione capitalista, ne è il vero, inconfessato, volto.

Brescia, 31 ottobre 1999


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