EDITORIALE BALKAN N.1


febbraio 2000, della redazione di Balkan

 

Chiusosi il ciclo della guerra condotta da Belgrado contro la popolazione albanese del Kosova e di quella della NATO contro la Jugoslavia, i Balcani offrono all'inizio di quest'anno 2000 un panorama contraddistinto da tensioni e miseria sempre più diffuse, ma emergono, seppure molto timidamente e con forma perlopiù sporadica e disorganizzata, segni di mobilitazione e di apertura di nuove prospettive. L'intera penisola rimane comunque gravata da tre grandi fattori che impediscono per ora una svolta positiva e democratica: questioni nazionali irrisolte, miseria e sfruttamento senza limiti delle popolazioni, presenza massiccia a ogni livello di paesi imperialisti guidati esclusivamente dai loro interessi.

Uno dei nodi principali rimane naturalmente quello del Kosova, oggetto attualmente di un protettorato ONU/NATO che nega ogni diritto della popolazione, a livello politico ed economico, ma anche a quello più elementare della sicurezza. Nessuna forma di reale autorganizzazione è consentita ai kosovari, mentre è in atto un sistema in cui ogni aspetto della vita del paese è controllato direttamente dai due soggetti internazionali. La legittima aspirazione all'indipendenza dell'assoluta maggioranza della popolazione viene nei fatti ancora negata e vista da ONU/NATO esclusivamente come un'eventualità possibilmente da evitare, o altrimenti da rimandare a tempi lunghissimi e da pilotare verso forme e soluzioni conformi agli interessi internazionali, e non a quelli della popolazione del Kosova. Molto, per fare solo un esempio, viene fatto ancora dipendere dall'evoluzione politica interna in Serbia. Ma numerosi segni dicono che il desiderio di effettivo e pieno autogoverno da parte dei kosovari, pure nelle difficilissime condizioni, non va per nulla estinguendosi o smorzandosi. Questo rimane il principale problema con cui ONU e NATO devono scontrarsi ora e lo sarà ancora di più in futuro, anche se i kosovari non sono aiutati in questo dalla loro dirigenza politica, che si dimostra sempre più pronta a collaborare con l'Occidente, traendone in cambio vantaggi personali. Rimane poi il problema della violenza diffusa e in particolare di quella contro le minoranze nazionali kosovare. Senza la possibilità di un rientro sicuro in Kosova di quelli che ne sono fuggiti e vi vogliono rientrare non è possibile un futuro autenticamente democratico per il paese, così come esso non sarà possibile senza che venga resa giustizia, in modo aperto e democratico, alle vittime della recente guerra.

La situazione più buia la si ha in Serbia, dove più di dieci anni di regime guerrafondaio, di saccheggio dell'economia, di nazionalismo sciovinista alimentato dai vertici politici, insieme a una criminale politica occidentale che ha alternato sanzioni e bombardamenti devastanti a un sostegno indiretto a tale regime, hanno portato alle loro logiche conseguenze. La situazione è esplosiva, con la produzione praticamente ferma, la disoccupazione pressoché al 50% e i redditi della popolazione ridotti a quasi nulla. Nonostante questo il regime prosegue la sua politica di saccheggio delle ricchezze nazionali attraverso una rete di potere in cui l'aspetto burocratico e quello mafioso si sovrappongono sempre più. Per potere continuare a sopravvivere giorno per giorno, l'oligarchia di Belgrado ricorre con sempre maggiore frequenza alle repressioni, che se non sono ancora diventate un regime di terrore generalizzato, non risparmiano tuttavia mezzi come gli "omicidi bianchi", gli arresti per motivi politici, la drastica limitazione della libertà di stampa, la condanna e l'incarcerazione di molte migliaia di giovani che avevano disertato rifiutando di andare in guerra. Per creare il contesto ideale per queste sue manovre, il regime crea un clima sempre più paranoico fatto di teorie su complotti, reti terroriste, attentati. In questo, il regime di Belgrado ha ricevuto un fondamentale aiuto dagli ultimi bombardamenti NATO, anche se un grande ruolo lo ha avuto pure il crescente isolamento in cui si viene a trovare, con la perdita del Kosova e la presa di distanza del Montenegro e dei serbi di Bosnia. L'opposizione, oltre a essere debole e divisa, sembra incapace di articolare alcunché che possa offrire un'alternativa reale ai serbi, preferendo coltivare i rapporti internazionali. Vi sono tuttavia segni di incrinature all'interno dei sindacati e in alcune aree si sta dando vita a iniziative di mobilitazioni dei lavoratori, ma date le condizioni difficilissime è ancora impossibile prevederne la portata.

Formalmente ancora all'interno della Jugoslavia, il Montenegro se ne sta nei fatti sempre più distaccando e per farlo ha scelto, tra le altre cose, la linea monetaria dell'introduzione del marco come valuta, una soluzione che ha in realtà causato più problemi che vantaggi e che costituisce un esperimento forse utile alla finanza internazionale, ma che nulla offre ai montenegrini, i cui enormi problemi economici sono analoghi a quelli dei serbi e che difficilmente possono accontentarsi di avere un regime che differisce da quello di Belgrado soprattutto per essere meno paranoico e meno autoritario.

La Croazia offre invece un panorama che lascia sperare molto di più. Il regime di Tudjman non si sta sfaldando solo per la morte di quest'ultimo e per un voto di protesta, ma anche e soprattutto per le grandi e coraggiose mobilitazioni dei lavoratori croati. Le aspettative, dopo la vittoria delle opposizioni, sono ora altissime in Croazia, in termini di miglioramento della situazione economica, di maggiori diritti democratici, di effettiva autonomia regionale (Istria e Dalmazia) e di riconoscimento dei diritti delle minoranze, in primo luogo quella serba, che chiede giustamente il rientro delle masse di profughi espulsi nel 1995. Per il nuovo governo, che offre in realtà solo politiche liberali assolutamente "ortodosse", sarà difficile dare soddisfazione a tutte queste richieste. Il regime di Tudjman lascia infatti in eredità alla Croazia una situazione di crisi estrema, contrassegnata da un'altissima disoccupazione (circa il 35%), da un debito estero più che ingente, da un capitale ancora controllato da una limitata oligarchia legata alla HDZ, il partito di Tudjman. E' molto positivo per il paese che la HDZ si stia disgregando sotto la spinta di lotte intestine, ma le leve del potere economico rimangono nelle mani delle sue varie cupole, che difficilmente saranno disposte a ritirarsi in secondo piano. Probabilmente potranno contare sull'aiuto occidentale, come hanno dimostrato le operazioni di privatizzazione portate a compimento in extremis da Deutsche Telekom e da Comit con il regime, prima della sconfitta elettorale di quest'ultimo, nonché l'entusiasmo che la diplomazia USA mostra nei confronti di Granic, da sempre alto esponente del regime, impegnato ora a costruirsi un'immagine di uomo al di sopra delle parti.

Per Bosnia e Romania, entrambi in preda a profonde convulsioni sociali e politiche, rimandiamo agli articoli che compaiono in questo numero. In Bosnia, dopo quattro anni di protettorato (il primo dei Balcani, ai quali si sono aggiunti poi il Kosova, di fatto l'Albania e, in maniera latente, anche la Macedonia) si è ben distanti da una qualsiasi risoluzione dei problemi che affliggono questo paese, che rimane uno dei più fragili di tutti i Balcani. In Romania il potere è dilaniato da ad aspre lotte interne, sempre più impopolare e cerca semplicemente di navigare a vista, senza prospettive precise. Qui la mobilitazione dei lavoratori è stata e continua a essere intensa e bene organizzata (anche se potrebbe essere fatta propria dai populisti di Iliescu, o addirittura dai fascistoidi del Partito della Grande Romania), mentre in Bosnia si assiste alla sicura rinascita di un movimento operaio organizzato.

Bulgaria, Macedonia e Albania sembrano costituire, nell'ordine, un asse di crisi politica e sociale crescente. La Bulgaria sembra sospesa in una situazione di limbo politico e di apparente pace sociale. Le recenti elezioni amministrative hanno però portato alla luce la sempre maggiore distanza del governo dalla realtà del paese. Il potere ha reagito al suo calo di popolarità con un rimpasto di governo di facciata e mostra di sperare soprattutto nella stabilità macroeconomica del paese, che però non offre nulla alla popolazione, sempre più povera e colpita da una disoccupazione in forte crescita. Il discredito e la debolezza dell'opposizione e la politica di interessato compromesso del partito della minoranza turca facilitano tuttavia la sopravvivenza del governo di destra di Sofia. La vita politica della Macedonia è sempre più condizionata dalle preoccupazioni internazionali per evitare un'esplosione del paese. La VMRO-DPMNE, il partito di destra ed ex sciovinista che guida la coalizione di governo, ha subito una secca sconfitta di fatto alle ultime presidenziali, essendosi salvata unicamente per il sostegno, con ampio ricorso ai brogli elettorali, fornitole dal maggiore partito degli albanesi, il DPA. Si ha così, soprattutto a causa delle pressioni internazionali, una convivenza tra la VMRO-DPMNE, il cui elettorato è per la maggior parte antialbanese, con un partito albanese dal peso contrattuale sempre maggiore, un fatto che diminuisce i consensi per il partito del premier Georgievski tra l'elettorato macedone. Ciò rende in prospettiva sempre più instabile la situazione politica, se si tiene presente che la guerra in Kosova ha reso ancora più profondo il fossato che già separava le due maggiori comunità etniche. Sia la VMRO-DPMNE che il DPA hanno scelto di fingere di ignorare questa situazione, preferendo i mercanteggiamenti su loro obiettivi di breve respiro e facendo molta attenzione a non turbare gli interessi della NATO e dell'ONU. Anche la situazione economica è molto grave, con un tasso di disoccupazione che si aggira sul 40%, e questo mentre le privatizzazioni devono essere ancora avviate. Nonostante ciò, sembrano molto scarse le mobilitazioni, fatto dovuto in gran parte allo stretto controllo esercitato sulla vita politica del paese dalle oligarchie legate ai vari poteri politici, sia in ambito macedone sia in ambito albanese. L'Albania rimane il paese probabilmente più instabile di tutti i Balcani. La povertà, la mancanza di sicurezza, la pressoché totale inesistenza di un sistema produttivo proprio, continuano a essere i suoi maggiori problemi. La conseguente frammentazione sociale impedisce il formarsi di realtà alternative o anche solo di mobilitazioni occasionali (secondo recenti statistiche, il 35% della popolazione attiva lavora "al nero"). Nel 1999, quindi, tutti gli sviluppi politici sono rimasti legati alla crisi del Kosova e alle relative grandi manovre internazionali, da una parte, e alle faide interne ai maggiori partiti politici. L'ex premier Fatos Nano ha ricominciato con decisione, e per ora con successo, una scalata alle più alte leve del potere, mentre un altro ex, Sali Berisha, è riuscito a consolidare il controllo sul suo partito, minacciato da una nuova generazione di "riformisti". L'Albania, nonostante la sua assoluta povertà, continua a risentire delle rivalità tra alcuni paesi (Italia, Grecia e USA), tutti in diverso modo interessati a mantenerne il controllo. Negli ultimi mesi, l'Italia in particolare sembra proiettata a riassumere il ruolo di maggiore "tutore" dell'Albania, che già aveva prima della guerra in Kosova.

Crisi economica, fino in taluni paesi al blocco produttivo, instabilità politica estrema, solo mitigata dal sistema di protettorati internazionali più o meno espliciti, la continuità in alcuni paesi di mobilitazioni popolari e di lavoratori, anche estremamente radicali: tutto questo caratterizza una crescente instabilità nei Balcani, dove problemi nazionali (evidenziati dalle sterminate masse di profughi esistenti), problemi sociali e crisi dei regimi al potere si intrecciano in modo indissolubile. Nonostante gli sforzi delle varie potenze imperialiste, terrorizzate da questa instabilità e dagli sviluppi imprevedibili che comporta, nuove esplosioni e rotture si produrranno in questa penisola, dove le varie cricche al potere cercano di mantenere ad ogni costo i propri privilegi, le popolazioni di uscire da miseria ed oppressioni e dove i margini di manovra per gli attori in gioco già ora si stanno restringendo. Da dieci anni la penisola balcanica conosce guerre e rivolte pressoché ininterrotte. Il fragilissimo equilibrio balcanico è destinato di nuovo a rompersi, trascinando con sé e coinvolgendo milioni di persone. Il disgregarsi del regime croato, e l'infinta agonia di quello serbo, sono solo i due più evidenti sintomi dei sommovimenti a venire.


23 gennaio 2000