UN ANNO DI LOTTE IN BOSNIA
UN ANNO VIVACE PER IL MOVIMENTO DEI LAVORATORI BOSNIACO


febbraio 2000, di Ilario Salucci

Fonti: rassegna quotidiana della stampa bosniaca "Tuzla Night Owl", rassegna settimanale della stampa bosniaca a cura di USAID, lanci di agenzia dell'AIM e di BiHPress, documentazione dell'OSCE e dell'OIL, mailing list "Notizie Est".


Nel silenzio dei mass media internazionali, e nel disinteresse delle centinaia di ONG europee e statunitensi che operano in Bosnia, di cui moltissime italiane, si è concluso un anno in Bosnia contrassegnato dal numero e dall'intensità di scioperi, da Zavidovici a Mostar, da Travnik a Sarajevo, dai lavoratori del settore tessile a quelli metalmeccanici, dai minatori ai lavoratori delle ferrovie ai pensionati. Anche il sindacato della polizia ha fatto sentire la sua voce. L'apice è stata la manifestazione nazionale nella Federazione di Bosnia, tenuta a Sarajevo il 26 ottobre, che ha visto la partecipazione di 30-40.000 lavoratori (nonostante le minacce di non autorizzare la manifestazione e i tentativi governativi di ostacolare l'organizzazione del trasporto dei lavoratori che convergevano a Sarajevo da tutto il paese) - la prima manifestazione di massa dalla creazione della Bosnia Erzegovina. Messaggi di appoggio sono venuti dai sindacati di Slovenia, Croazia e Montenegro, oltre che da Germania, Francia, Spagna e Belgio. Dall'Italia, nulla. Le rivendicazioni avanzate erano la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Legge sul Lavoro già votata dal Parlamento, il varo di un vasto programma di stato sociale, la conclusione del contratto collettivo generale e di quelli settoriali, la riduzione delle imposte e dei contributi sui salari ed il pagamento sia dei salari arretrati, sia dei contributi dovuti all'assistenza sociale e sanitaria, la revisione del processo di privatizzazione, il varo di una serie di investimenti statali finalizzati all'aumento dell'occupazione e la denuncia pubblica di tutte le persone che si sono arricchite illegalmente in questi anni.
La situazione sindacale in Bosnia Erzegovina riflette da un certo punto di vista la divisione politico-nazionale del paese: nella parte della Federazione di Bosnia Erzegovina a maggioranza Bosniak l'unica confederazione è quella dei "Sindacati Indipendenti", il cui presidente è Sulejman Hrle; nella Repubblica Serba di Bosnia vi è l' "Associazione dei Sindacati" il cui segretario è Cedo Volas; nella parte della Federazione di Bosnia Erzegovina a maggioranza Croata invece non vi è alcuna struttura sindacale, salvo sporadici sindacati di fabbrica.
Tra le due confederazioni sindacali esistenti vi è un coordinamento più o meno operante fin dalla fine della guerra (grossi problemi sono sorti nel passato per i divieti da parte delle autorità della Repubblica Serba a lasciare uscire dal proprio territorio le rappresentanze sindacali), con una sostanziale convergenza nell'analisi della situazione e delle rivendicazioni da avanzare: alla manifestazione di Sarajevo ha infatti partecipato anche una delegazione della confederazione della Repubblica Serba di Bosnia. Secondo le parole di Hrle "i Sindacati della Repubblica Serba e della Bosnia-Erzegovina hanno canali di comunicazione diretti e che funzionano molto bene, poiché quello che ci unisce sono gli stomachi vuoti dei lavoratori. Uno stomaco vuoto è uno stomaco vuoto indipendentemente dal fatto che sia musulmano, serbo o croato. Ci unisce anche l'interesse comune dei lavoratori: i lavoratori desiderano innanzi tutto lavorare, prendere uno stipendio e vivere con questo stipendio una vita dignitosa".

Gli indicatori macroeconomici della Federazione vanno bene - la produzione industrale nel 1999 è aumentata del 10% rispetto all'anno prima, l'aumento delle esportazioni è pari al 50% e si attende un aumento del PIL pro-capite dopo l'aumento del 25% registrato dal 1997 al 1998. I maggiori partner commerciali sono, nell'ordine: Croazia, Italia, Slovenia, Germania, Austria, Ungheria.
I punti di partenza su cui sono calcolate queste percentuali sono tuttavia bassissimi - ad es. la produzione industriale odierna è ancora pari al 32% del livello pre-guerra (e quando si dice "livello pre-guerra" si intende 1991, quando già la situazione economica era catastrofica grazie a tutte le varie "riforme" economiche che ebbero le conseguenze più pesanti proprio in Bosnia Erzegovina).
Si rincorrono addirittura voci su un prossimo collasso economico, nonostante la cancellazione di fatto dei due terzi del debito estero (che ammontava a 3,2 miliardi di dollari) concordata lo scorso anno: i debiti delle imprese nella sola Federazione ammontano a 555 milioni di KM (marchi convertibili, con un valore pari a quello della valuta tedesca), di cui un terzo praticamente inesigibile. Nel corso degli ultimi quattro anni la fuga illegale di capitali ammonterebbe a cinque miliardi di dollari, un importo equivalente agli aiuti internazionali per la ricostruzione.
Come ha affermato lo scorso dicembre il copresidente del governo Neven Tomic, "la privatizzazione è molto politicizzata, non ci sono investimenti esteri e le imprese locali sono impossibilitate a funzionare a causa del crimine organizzato e del mercato nero". Vi è un "clima sfavorevole agli investimenti", e nel 1998 la Bosnia è stata classificata come ultima tra tutti i paesi balcanici da parte di un pool di esperti statunitensi. Gli stessi USA lo scorso dicembre hanno troncato ogni supporto al processo di privatizzazione in corso. Questi processi di privatizzazione, che dovrebbero concludersi nel 2002, se non sono l'occasione per un afflusso di capitali esteri, sono però l'occasione per un sistematico furto ("saccheggio" per usare le parole dei sindacalisti bosniaci) ai danni della proprietà statale, secondo linee nazionali. Sulejman Hrle ha denunciato una sistematica devalorizzazione delle imprese, affinché possano essere rilevate dal management e dai boss politici locali a prezzi stracciati. La posizione dei sindacati delle due entità bosniache, adottata lo scorso luglio a Doboj, è quella di far dipendere la privatizzazione dall'adozione preventiva di programmi di "welfare state" - temendo licenziamenti di massa dopo la privatizzazione (secondo alcune stime i disoccupati passerebbero dagli attuali 450.000, circa il 40% della forza-lavoro, a circa 700-800.000).

In Bosnia Erzegovina la situazione sociale è catastrofica. I prezzi delle merci e dei servizi sono agli stessi livelli dell'Europa occidentale, ma il salario medio nella Federazione è di 310 KM, e nella Repubblica Serba di 240 KM (ma qui il salario minimo è di soli 60 KM, e verrà portato nel febbraio 2000 a 80 KM), mentre la pensione media nella Federazione è di 170 KM (quella minima è di 100 KM). In più salari e pensioni vengono pagati con mesi di ritardo, solitamente tre o quattro, ma talvolta anche di più: i 430.000 pensionati bosniaci hanno ricevuto la loro pensione di luglio nel dicembre 1999. Il lavoro nero (in pratica, unica forma di rapporto di lavoro possibile quando il datore è un'agenzia internazionale) è diffusissimo - le stime variano da 10.000 a 150.000 persone coinvolte - e nella sola Federazione 65.000 lavoratori "ufficiali" sono in realtà fuori dalla produzione, nella condizione di "sospesi". Così ad es. la più grande fabbrica bosniaca, l'acciaieria Zeljezara di Zenica, che occupava 20.000 persone prima della guerra, oggi ne occupa complessivamente 4.500, con un numero pari di lavoratori sospesi. Le stime sull'emigrazione sono molto varie, ma sono comunque nell'ordine di centinaia di migliaia. Sui posti di lavoro vi è totale libertà di licenziamento.
In molti hanno parlato del rischio di un'esplosione sociale generale ed incontrollabile.

La vicenda della Legge sul Lavoro è particolarmente istruttiva. In discussione dal lontano 1996, votata e modificata a più riprese dal Parlamento, viene finalmente approvata nella sua forma finale il 5 ottobre 1999. Prima di questa data Banca Mondiale, Alto Rappresentante e Fondo Monetario prendono posizioni durissime contro l'adozione della legge, fino a far dipendere ulteriori prestiti internazionali da queste modifiche - che non vengono tuttavia adottate dal Parlamento della Federazione. Il giorno dopo il voto il giornale "Vecernje Novine" titola: La legge sul lavoro creerà più danni della guerra. La legge ormai è passata, ma perché entri in vigore deve essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale: nuovo braccio di ferro, manifestazione a Sarajevo il 26 ottobre e finalmente il 3 novembre la legge viene pubblicata. In realtà la vicenda non si è ancora chiusa. A fine dicembre il ministro del lavoro dichiara di essere in consultazioni con Banca Mondiale e Alto Rappresentante per trovare "un modello indolore di implementazione" della legge. Il problema maggiore è quello del diritto a un "trattamento di fine rapporto" - in un importo variabile, per ogni lavoratore, da un minimo di un milione a un massimo di sei milioni di lire italiane. Tutte le 47 grandi imprese privatizzate nella Federazione hanno dichiarato a dicembre che non pagheranno le liquidazioni fissate dalla nuova legge.

Le organizzazioni dei lavoratori bosniaci si trovano ad operare in una situazione difficilissima. La guerra è terminata da quattro anni, ma 250.000 morti, 15.000 persone a tutt'oggi disperse, più di un milione di rifugiati impossibilitati a tornare nelle proprie città e villaggi, segnano la vita quotidiana in Bosnia. Sui posti di lavoro la discriminazione nazionale è moneta corrente - solo nel dicembre del 1999 l'ILO (International Labor Office) ha rilasciato un rapporto che condanna il licenziamento di 1.500 lavoratori Bosniak e Serbi dalle due più grandi imprese di Mostar croata (Aluminj e Soko). I lavoratori licenziati da anni si sono organizzati e conducono battaglie a tutti i livelli per essere riassunti. Il rapporto dell'ILO è una loro vittoria, ma la vicenda non è certo ancora chiusa. Un problema molto grave è quello dei soldati smobilitati, sia dal punto di vista occupazionale che psicologico. Tutto il capitolo della privatizzazione degli appartamenti (che nelle grandi città erano proprietà dello stato) va a toccare la questione politica centrale - la questione dei rifugiati.
La Bosnia è sempre stato un paese in cui il lavoro era per definizione lavoro o nelle miniere o nell'industria. Ancora oggi, come afferma un rapporto commissionato dall'ILO, "i bosniaci considerano l'occupazione uno dei diritti umani basilari", un diritto umano che viene loro negato. Il fatto che il maggior numero di casi di depressione e di disturbi mentali tra le donne derivi proprio dalla disoccupazione non è considerato da nessuna struttura che opera nel campo della salute mentale.
In questa situazione l'obiettivo del sindacato, secondo le parole di Volas, è "in primo luogo il ritorno alla propria residenza e in secondo luogo il ritorno al proprio posto di lavoro - per farla finita con l'attuale situazione di segregazione e di apartheid".