I BOSNIACI
MATERIALI DELLO SCRITTORE BOSNIACO


febbraio 2000, di Velibor Colic, da I Bosniaci (traduzioni di Manuela Koltar e Gianni Turchetta), Ed. Zanzibar, Milano, 1996, 14.000 lire.


Velibor Colic è nato in Bosnia nel 1964. Prima della guerra ha pubblicato un "romanzo in versi" (Madrid, Granada o qualsiasi altra città) e un libro di racconti (La rinuncia di San Pietro) a Zagabria. Nel 1993 ha pubblicato I Bosniaci, da cui sono tratti i brani che seguono. In Bosnia era stato ferito ed era riuscito ad evadere da un campo nel 1992. Obbligato all'esilio si rifugia in Francia dove dopo l'uscita de I Bosniaci, pubblica Cronaca degli somparsi (1994) e La vita fantasmagoricamente breve e strana di Amadeo Modigliani (1995). Una versione italiana di quest'ultimo libro era stata annunciata dalle edizioni Zanzibar, ma non è mai apparsa. Nella presentazione all'edizioni francese si legge: "Tragica, poetica, strana e fantasmagorica, questa fu la vita di Amadeo Modigliani nei sogni di Velibor Colic. Angelo dal destino folgorante, il pittore diventa l'emblema del genio creativo, certo maledetto, ma al contempo eletto. Grazie a brevi visioni, con un verbo allucinato, l'ispirato autore de I Bosniaci fa appello alla finzione per parlare del reale". Successivamente è uscito un suo volume in Turchia (L'universo di Galileo e Newton).

 

I CINQUE FRATELLI ZELINAC

Tre dei cinque fratelli Zelinac restarono uccisi nella stessa settimana difendendo la propria casa. I primi due morirono sulle postazioni di Jakes, il loro villaggio di nascita, che oggi, completata efficacemente la "pulizia etnica", si chiama "Karadzicevo" ­ dal nome del "Duce" serbo Radovan Karadzic.
Il terzo fratello, il più giovane, perse la vita cercando di salvare alcuni anziani, donne e bambini da una cantina che rischiava di essere circondata dall'esercito serbo.
Quando, al funerale dei tre Zelinac morti, proposero ai fratelli sopravvissuti di mettersi al sicuro in Croazia, questi rigiutarono recisamente, decidendo di restare in Bosnia fino alla fine e di combattere.
In tempi più dignitosi, e più onesti, di questo fatto il POPOLO avrebbe fatto un MITO.
Ora invece resta solo questa nostra notarella, modesta e scarna, dedicata ai cinque fratelli Zelinac.

Jakes, Bosnia-Erzegovina, 92

VESELKO KOROMAN

"Verrà il tempo di un popolo mansueto,
Che avrà onore, ferite e tristezze in abbondanza,
Un popolo che avrà un potere più grande eppure magnanimo,
E avrà pianura e mare, libri e angeli

Verrà il tempo di un popolo mansueto,
Che avrà il cimitero più grande, e la più grande testa,
il vento e il buio,
Di un popolo disperso, che vivrà a lungo
Al nord e al sud, dentro la falce di luna"

(dalla poesia Verrà il tempo di un popolo mansueto, del poeta bosniaco Veselko Koroman)

 

ZORAN

La tenera anima di Zoran Spasojevic, detto Zoka, si è definitivamente spezzata dalla tristezza quando, UNICO SERBO in una folla di gente, scappava in Croazia attraverso il fiume Sava.
Dicono sia stato visto alla stazione ferroviaria di Zagabria, solo e perso, con i piedi nudi e sanguinanti.

Zagabria, Croazia, agosto 92

 

UN PILOTA SERBO

L'aviazione serba aveva "accompagnato" quasi tutto il ritiro dell'esercito bosniaco dalla Bosanska Posavina, distruggendo con i suoi voli micidiali tutto quello che poteva raggiungere ­ e raggiungeva quasi tutto.
I fatti che seguono ebbero luogo il giorno della grande festa religiosa e storica serba, VIDOVDAN (anniversario della BATTAGLIA DEL KOSOVO, 28.VI.1389), sulla riva sinistra del fiume Bosna, dove incontrammo una trentina di soldati bosniaci che attraversavano di corsa una pericolosissima radura. In quel momento sopra le loro teste si sentì il mortale rumore di un MIG 21 serbo, e quei poveretti rimasero come pietrificati. Ma l'aereo scese in picchiata sopra il fiume Bosna, nel quale scaricò il suo carico mortale.
Dopo l'esplosione i Bosniaci, senza ancora rendersi conto di quello che era successo, come ipnotizzati attraversarono di corsa la radura e si rifugiarono in un boschetto.
L'aereo era già lontano, e chi aveva sigarette poteva accendersene una in pace.

E così un anonimo ma onesto pilota serbo per la sua festa OFFRI' IN DONO LA VITA a trenta bosniaci.

Modrica, Bosnia-Erzegovina, 28.VI.92

IL BUON SOLDATO SVALJEK
(preghiera per i coraggiosi)

Chi ha visto la guerra conosce bene il soldato buffo, coi pantaloni dell'abito borghese, che, un po' brillo e con un fucile improvvisato, compariva nei posti più inaspettati, e, fra l'altro, più pericolosi.
Il berretto nero di lana nascondeva il viso sempre sorridente del buon soldato Svaljek, l'uomo con l'anima di bambino e con le mani da lavoro pesante, che la sorte funesta della guerra ha portato vicino alla città di Derventa.
E a quanto pare è ancora vivo e ancora combatte.
Che l'arcangelo Michele protegga con le sue ali quel buffo uccello nero.

Derventa, Bosnia-Erzegovina, dicembre 92

 

HUSO E HASO II
(barzelletta popolare)

Huso e Haso, soldati nell'esercito bosniaco, vengono mandati a fare un'imboscata per uccidere i cetnici che dovevano passare di lì alle dieci e mezzo di sera.
Aspettano fino alle dieci e mezza ­ niente.
Aspettano fino a mezzanotte ­ di Serbi neanche l'ombra.
Quando divenne ormai chiaro che quella sera i Serbi non si sarebbero neanche fatti vedere, Haso preoccupato si rivolge al suo compagno Huso: "Mamma mia, non gli sarà mica successo qualcosa".

Bosnia-Erzegovina, guerra civile 92

 

HUSO E HASO III
(barzelletta popolare)

Quel giorno, per miracolo, a Sarajevo si distribuiva il pane, e davanti alla panetteria c'era una coda lunghissima. Dopo che la gente per un po' di ore aveva aspettato invano, si affacciò il panettiere e disse: "Mi dispiace, non c'è pane per tutti, i serbi devono uscire dalla coda". I serbi se ne andarono, e l'attesa continuò.
Nel primo pomeriggio uscì di nuovo il panettiere e disse: "Sono spiacente, devono ritirarsi anche i civili, sembra che stavolta il pane basterà soltanto per i soldati bosniaci".
I civili andarono a casa e i soldati bosniaci rimasero ad aspettare.
Era già calato il buio, quando il panettiere si affacciò di nuovo, e stringendo le spalle, disse:
"Soldati, mi dispiace, OGGI IL PANE NON SARA' DISTRIBUITO!".
A quelle sue parole, Haso, soldato bosniaco, guardò con la coda dell'occhio il suo compagno d'armi Huso, e sotto voce, come fra sé e sé, disse:
"Hai visto Huso, amico mio, anche questa volta I SERBI SE LA SONO CAVATA MEGLIO DEGLI ALTRI".

Bosnia-Erzegovina, guerra civile 92

RUZICA O "IL LAGER FEMMINILE"

Il fiore del suo volto profumava di polpa di mele mature. Respirando il fondo di nicotina di quell'uomo maturo, Ruzica era come una medaglia rosso tenero, mentre sul letto sconvolto la cascata dei suoi capelli gli toccava, gli sfiorava appena il petto, simile a un animale addormentato. Ruzica è tutta rossa, le manca il respiro, nella sua mano lampeggia un coltello: per qualche istante soltanto sembrò esitare, poi un attimo dopo dalla gola tagliata di lui venne fuori un respiro che spaventò i nudi muri di una caserma della Bosnia, trasformata in lager femminile.
Il sogno del colonello, come un gomitolo, cominciò a srotolarsi verso l'alba, la luce dalle sue ciglia disegnava un arabesco, come se presentisse la prossima fine dell'addormentato di pietra, il signor A.B., colonnello dell'Esercito Federale Jugoslavo. Il giorno, svegliandosi, raccoglieva il buio e il freddo sotto le sue sottane, come la chioccia i pulcini, e sembrava indurire il sorriso di solito dolce e bonario del colonnello, disperdendolo nel grasso bianco del doppio mento, nelle pieghe digradanti fino ai primi peli grigi del petto virile.
Probabilmente era la paura che aveva dilatato le pupille degli occhi di Ruzica, mentre dalla mano le scivolava la lama rosso-viola. Sembrava che il corpo teso e raccolto di quella ragazza ben curata fosse sorpreso dall'enorme quantità di sangue denso e puzzolente, che in due getti disuguali gorgogliava dalla gola tagliata del colonnello, guastando con figure impreviste il cuscino bianco, candido come un agnello, che sembrava soffrire anche lui in silenzio sotto la grossa testa stempiata del signor A.B., colonnello dell'Esercito Federale.
Avvicinandosi alla finestra, Ruzica sentì che il suo passo di leonessa della periferia, di solito sicuro, veniva incatenato da un brivido strano, e che quel brivido le trasformava la pancia, su cui si vedevano ancora i segni delle dita sporche di lui, in un teso tamburo di dolore, e le stringeva il respiro in uno sminuzzato affanno di mitragliatrice. Quel brivido, davanti alle finestre finalmente aperte, stendeva un velo di lacrime stizzose e rabbiose sui suoi occhi rivolti ai tetti silenziosi della città ancora addormentata, che sembrava non volersi svegliare per non entrare nel novantasettesimo giorno della guerra di Bosnia.
Improvvisamente, così com'era cominciato, il rantolo del colonnello si arrestò, sorprendendo la ragazza Ruzica nuda e violentata davanti alla finestra aperta, mentre si morde forsennatamente le dita della mano sinistra. La paura le scompiglia i capelli e le dilata le narici, tanto da far presto sembrare che sul viso di Ruzica siano aperte tre bocche che aspiravano l'aria contemporaneamente.
La ragazza è immobile, come se fosse, con tutto il suo sventurato essere, con le sue ossa, con la sua pelle, semplicemente intagliata nel biancore del muro dietro di lei, e intanto fissa il cadavere, che con la sua gelida onnipresenza trascende la modesta branda militare, l'ufficio del colonnello e il biancore latteo del mattino.
Quando lo aveva toccato per la prima volta, a Ruzica era sembrato di sentire sotto le dita la pelle di una rana, e quel sentimento non l'abbandona, mentre, accovacciata, con le ginocchia strette sul suo seno nudo di ragazza, ascolta i passi scanditi delle guardie, che si affrettano vociando attraverso il corridoio di una caserma della Bosnia, trasformata in lager femminile.
Camminando lungo il corridoio in mezzo a loro quattro, Ruzica, non senza raccapriccio, sente le loro mani sul suo sedere nudo, il mento le trema, e alla fine, distrutta, Ruzica sente scorrerle sul volto l'amaro assenzio della disperazione, due lacrime grosse e gonfie, mentre la conducono nell'ufficio del vice del comandante del lager ­ il colonnello A.B.
La luce della lampada mette nel suo sguardo migliaia di lucciole di dolore, e mentre si lecca il labbro superiore spaccato Ruzica, che a malapena riesce a star seduta su una sedia, sente incomberle sul capo la presenza del boia, sente le sue pelose mani maschili che emergono dalla camicia grigia con le maniche rimboccate, le dita fredde e appiccicose di sudore che le stringono il collo tenero e bianco, su cui brilla una catenina d'oro, sottile come un crine di cavallo, con un crocifisso incredibilmente piccolo, quasi invisibile.

NOTA DELL'AUTORE: Questo testo è stato scritto sulla base di un racconto che non è stato possibile verificare, secondo il quale una delle donne prigioniere nei cosiddetti "Lager femminili" sarebbe riuscita con un coltello a uccidere il soldato che l'aveva violentata.
Preghiamo il Signore che questo racconto sia vero, perché le donne violentate possano ritrovare la speranza, la fede e la dignità.