I MILIARDI ITALIANI CONTRO I LAVORATORI BALCANICI


comunicato del Centro di Iniziativa Politica sui Balcani

 


Da anni ormai i Balcani sono diventati il cortile di casa dell'Italia, che vi agisce fornendo direttamente o indirettamente sostegno ai peggiori regimi autoritari e saccheggiando le risorse di paesi già poveri. Due recenti affari per centinaia di miliardi dimostrano che il governo e le aziende italiane non hanno alcuna intenzione di cambiare linea.

La banca italiana Comit ha infatti finalizzato a dicembre l'acquisto di una quota di controllo della Privredna Banka Zagreb (PBZ), il maggiore istituto finanziario della Croazia, per un totale di 600 miliardi di lire. L'acquisto è avvenuto nell'ambito del processo di privatizzazioni avviato dal governo croato e gestito dal vicepremier e ministro delle finanze
Skegro, uno degli uomini dell'ala oltranzista del partito di Tudjman e tra i maggiori responsabili della disastrosa situazione economica in cui versa la Croazia. Un settimanale antiregime esprimeva giustamente, a proposito di questo affare, l'amarezza "per la vendita delle imprese pubbliche croate, in particolare per il fatto che la Privredna Banka sia stata venduta agli italiani in un momento in cui il Parlamento, che altrimenti dovrebbe approvare la vendita, è sciolto... Numerose imprese croate hanno forti debiti nei confronti di tale banca. Gli italiani, acquistando la banca, acquistano anche tali debiti. Se le imprese, come per esempio la "Ina" [la maggiore società petrolifera croata] non saranno in grado di rimborsarli, la Privredna Banka acquisirà per diritto loro quote e questo vuol dire che gli italiani attraverso la Privredna banka potranno diventare proprietari di significative quote dell'economia croata" ("Nacional", 23 dicembre 1999). Una delle maggiori banche italiane, quindi, tratta un affare gestito, da parte croata, da un alto esponente di un regime criminale e liberticida, lo porta a termine in un momento di vuoto politico appena prima del crollo di tale regime e si pone nella posizione ideale per conquistare il controllo di ampie fette dell'economia croata proprio grazie alle politiche di saccheggio operate da tale regime. Inoltre, la scelta dei tempi per la conclusione dell'affare porta al legittimo sospetto che i più alti esponenti del regime croato, ormai agli sgoccioli, abbiano fatto un "favore" all'Italia per ottenere garanzie riguardo ai propri destini in vista dell'imminente cambio di governo. Tutto questo non è certo una novità: è da anni che il capitale italiano agisce in maniera analoga in tutti i Balcani. Il ministro Fassino può anche lanciarsi, come ha fatto di recente, in dichiarazioni di facciata sulla positività degli ultimi cambiamenti politici in Croazia, ma ci deve ancora spiegare perché l'Italia è stata costantemente, negli ultimi anni, il maggiore partner della Croazia di Tudjman. La privatizzazione della Privredna Banka è una dimostrazione di come si intenda continuare su questa linea e, anche se vanno valutate molto positivamente la dipartita di Tudjman e la disfatta del suo partito alle elezioni, il nuovo governo croato, con la sua linea liberista e filoatlantica, non sembra certo offrire prospettive radicalmente diverse. I cittadini e i lavoratori croati, invece, hanno chiaramente dimostrato la loro volontà di cambiamento radicale punendo in modo esemplare il partito di governo con il loro voto, così come lo avevano fatto innumerevoli volte scendendo nelle piazze a rischio della propria incolumità. La loro è una lotta difficilissima, in una realtà contraddistinta da un'altissima disoccupazione, da un indebitamento enorme e dalle devastazioni politiche di quasi dieci anni di politiche liberticide del regime croato, una lotta che va appoggiata con una solidarietà attiva, che denunci anche le manovre delle aziende e del governo italiano.

Le modalità con cui opera il capitale italiano sono analoghe anche in un altro paese balcanico sull'orlo del baratro e ancora sconvolto dalla recente guerra, la Serbia. Qui, una delle maggiori imprese edili italiane, la Impregilo, è la maggiore società di un consorzio che è tra i principali candidati a un appalto per una cifra da capogiro: 800 miliardi di lire. Il relativo progetto prevede la costruzione di una grande autostrada da Belgrado fino al confine con la Macedonia ed era stato già lanciato prima dei bombardamenti della NATO contro la Jugoslavia (le sanzioni potranno essere facilmente aggirate tramite società offshore e con il fatto che l'affare sulla carta non costituisce un investimento, ma un accordo "costruisci e gestisci"). Anche in questo caso, come in Croazia, è evidente il desiderio del regime serbo di vincolarsi al grande capitale al fine di ottenere garanzie per il proprio incerto futuro. Le grandi aziende italiane, come già dimostrato nel caso della Telecom nel 1997, sono sempre pronte a venirgli in aiuto. Ma qui ci troviamo di fronte a un caso particolarmente odioso: con che faccia il grande capitale di paesi NATO che hanno arrecato enormi danni alle strutture civili della Serbia, si lancia ora in tali progetti miliardari (all'appalto sono candidati altri tre consorzi, a guida rispettivamente francese, statunitense e greca)? E perché il regime di Belgrado si lancia proprio ora in un affare da centinaia di miliardi, non per la ricostruzione, ma per la realizzazione ex novo di una vera e propria "cattedrale nel deserto"? Per fare solo un esempio su mille possibili, a Nis, la principale città della regione attraverso la quale passerà l'autostrada, i lavoratori del settore educazione hanno ricevuto in questi giorni la prima metà dello stipendio di ottobre, cioè... 35 dollari! Per i lavoratori, quindi, non ci sono fondi, ma per progetti megamiliardari che non servono a nessuno se ne trovano in abbondanza. E le aziende estere possono stare tranquille: il sistematico saccheggio del patrimonio del paese da parte del regime, da una parte, e le sanzioni e le bombe NATO, dall'altra, hanno ridotto la popolazione serba in un tale stato di miseria e demoralizzazione, che la possibilità di mobilitazioni contro la vergognosa ingiustizia di tali accordi, e di altro ancora, sono ridotte al minimo. Una vera lotta per la pace non potrà che passare, anche in questo caso, per la solidarietà attiva a ogni lotta dei lavoratori serbi per i propri diritti, oltre che per la richiesta di cessare gli interventi militari e le sanzioni.

L'imperialismo italiano non è per nulla "straccione", soprattutto nei Balcani, dove avanza a suon di centinaia di miliardi, di capillare presenza militare e di partecipazione, in primo piano, a protettorati internazionali. E' necessario opporsi a esso con energia non solo quando fa da portaerei per operazioni di guerra internazionali, ma anche quando agisce più in sordina prima e dopo tali operazioni, dando solidarietà a tutte le popolazioni balcaniche i cui diritti democratici, di lavoratori e nazionali vengono sistematicamente violati.


Milano, 15 gennaio 2000

Centro di Iniziativa Politica sui Balcani


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