LA DEMONIZZAZIONE DEGLI ALBANESI
IL PREGIUDIZIO ANTIALBANESE NEL MOVIMENTO ANTIGUERRA


febbraio 2000, di Joseph Green, dalla rivista trimestrale "Communist Voice. A magazine of revolutionary theory", n. 21, agosto 1999, traduzione di A. Ferrario

Nella guerra per il Kosovo, recentemente conclusasi tra Serbia e NATO, la sinistra antiguerra si è trovata a fronteggiare la questione di come opporsi all'imperialismo USA nel momento in cui la NATO stava bombardando la Serbia, avanzando allo stesso tempo la richiesta che la Serbia arrestasse la propria guerra scatenata contro la maggioranza albanese in Kosovo. Si è trattato di una situazione che ha sottoposto a molte difficoltà la maggior parte delle tendenze più radicate nella sinistra. Sarebbe stato naturalmente errato sostenere la NATO come salvatrice delle masse contro Milosevic. Ma, allora, a Milosevic doveva forse essere lasciata mano libera nel devastare i kosovari? Il diritto all'autodeterminazione di una nazionalità oppressa, gli albanesi kosovari, doveva essere disdegnato? Le forze antiguerra, inoltre, sono state in disaccordo riguardo a cosa il governo serbo rappresentasse. Milosevic era un tiranno al quale ci si doveva opporre, oppure stava difendendo il socialismo contro la NATO? O forse il governo serbo, nonostante Milosevic, rappresentava un ostacolo antimperialista al capitalismo estero? Contemporaneamente, alcune forze istituzionali all'interno del movimento antiguerra sostenevano che la NATO stava attaccando un governo che, invece, avrebbe dovuto corteggiare come un alleato. Le correnti principali del movimento antiguerra hanno risolto questo problema emettendo appelli che celavano queste differenze. In sostanza, si è sostenuto che solo se il governo serbo e l'imperialismo occidentale fossero arrivati a un accordo, la crisi avrebbe avuto fine. I kosovari, invece, potevano essere ignorati: non è stata avanzata alcuna richiesta di riconoscere il governo provvisorio albanese del Kosovo, e nemmeno di includere gli albanesi kosovari nei negoziati sui destini del Kosovo. Al fine di fare apparire plausibile tutto ciò, e di giustificare il fatto che le richieste degli albanesi venivano ignorate, la lotta degli albanesi per il diritto all'autodeterminazione doveva essere demonizzata. Ma fino a quando i diritti democratici dei kosovari verranno ignorati, la questione nazionale in Kosovo continuerà a ingigantirsi e a causare nuove crisi. Una lotta seria contro i crimini di guerra delle grandi potenze e del governo serbo deve essere incentrata sull'incoraggiamento dell'organizzazione e dell'azione indipendente delle masse. Non può essere basata sulla richiesta che l'ONU e la NATO concedano al governo serbo lo stesso diritto di opprimere gli albanesi che viene concesso alla Turchia, membro della NATO, di reprimere i kurdi. Né si può basare sui miti relativi a come la Serbia e l'Occidente si comporterebbero ragionevolmente se solo negoziassero insieme, o su come la guerra imperialista abbia, stando alle apparenze, violato il "diritto internazionale" e gli scopi dell'ONU. L'agitazione che demonizzava gli albanesi ha consentito a sezioni del movimento antiguerra di flirtare con vari politici aderenti a politiche imperialiste in rivalità con quelle attuali, ma tale movimento non è riuscito a incoraggiare le masse a formare nuove organizzazioni di lotta di classe. La demonizzazione degli albanesi non è stata un segno di fervore antimperialista. Non ha aiutato la lotta contro l'imperialismo e il capitalismo, negli Stati Uniti o nei Balcani, ma la ha ostacolata. Ha comportato l'abbandono della lotta mirata a incoraggiare un'azione indipendente della gente, ovunque, contro i propri oppressori, portando invece a sostenere che gli oppressori di grande o di piccola entità, le grandi potenze e i sicari regionali in erba, dovrebbero unire i loro sforzi per risolvere tra di sé gli affari mondiali.

L'ALBANESE INVISIBILE

E' davvero notevole quanta poca preoccupazione vi sia nella maggior parte della letteratura antiguerra per la lotta degli albanesi kosovari. Noam Chomsky, per esempio, è un critico ampiamente noto della politica americana. Il suo articolo "L'accordo di pace per il Kosovo", pubblicato da "Z Magazine", nel quale si tirano le somme sulla guerra del Kosovo, ignora completamente il movimento albanese. Egli menziona i profughi kosovari, ma solo nel contesto della negazione che la NATO sia stata effettivamente motivata da una preoccupazione per loro. Ed è vero che la NATO è stata ipocrita, solo sembra che gli albanesi siano per Chomsky altrettanto invisibili di quanto lo siano per la NATO. Chomsky non trova nulla riguardo agli albanesi kosovari che valga la pena menzionare, né la loro lunga lotta per il diritto all'autodeterminazione, né le loro aspettative. Non è interessato a tracciare un percorso per la lotta in Kosovo. Spende molto tempo per i negoziati di marzo tra Serbia e NATO, offrendo il mito secondo cui il governo serbo sarebbe stato disponibile a essere ragionevole riguardo ai kosovari e finisce perfino tornando indietro nel tempo e facendo riferimento al Trattato di pace di Parigi del 1973, che ha posto fine alla guerra americana in Vietnam, così come agli Accordi di Esquipulas dell'agosto del 1987 ("Piano Arias") riguardanti l'intervento in America Centrale. Il Vietnam è reale; l'America Centrale è reale; la Serbia è reale; ma gli albanesi sono invisibili.

In maniera analoga, il sito Internet "ZNet", della rivista "Z Magazine", elenca una serie di argomenti di discussione per gli attivisti antiguerra: "Il conflitto Kosovo/NATO: domande e risposte" di Michael Albert e Stephen R. Shalom. Gli "argomenti di discussione" dicono solo che gli albanesi kosovari "sostengono" di essere oppressi dai serbi e non prendono posizione sul fatto che sia vero o meno, oppure che essi dovrebbero avere il diritto all'autodeterminazione. Affermano inoltre che "i precedenti leader [serbi], secondo le accuse mosse da Milosevic, avevano avallato gli albanesi e avevano mancato di difendere gli interessi serbi". Non qualificano l'accusa di Milosevic come rabbioso sciovinismo, ma la ritengono altrettanto seria dell'affermazione che i kosovari potrebbero essere oppressi. Così, nella sezione finale degli argomenti di discussione, "Cosa dovremmo chiedere per i Balcani", non si chiede il diritto all'autodeterminazione per il Kosovo o la fine dell'oppressione contro la maggioranza albanese, né si esprime solidarietà con alcun movimento di massa in Kosovo, in Serbia o altrove nella regione. La principale richiesta è che Milosevic e l'ONU negozino "una forza di pace internazionale... che si interponga tra i combattenti".

Alexander Cockburn è un altro prominente giornalista radicale, condirettore insieme a Jeffrey St.Clair del piccolo giornale "Counterpunch". Nel suo articolo "Vittoria?", del 5 giugno, sugli esiti della guerra del Kosovo, egli si preoccupa unicamente delle relazioni tra la Serbia e la NATO. Non parla assolutamente di cosa questa guerra abbia comportato per le masse kosovare. Per lui non ha alcuna rilevanza.

Howard Zin è un'altra figura nota della sinistra americana; ha scritto "Una storia popolare degli Stati Uniti: dal 1492 a oggi". Il suo articolo "Le loro atrocità -- e le nostre" è stato pubblicato nel numero del luglio 1999 di "The Progressive". Anch'egli discute della guerra del Kosovo senza fare alcun riferimento alla lotta dei kosovari. Menziona i bombardamenti su Dresda del 1945, il bombardamento atomico sul Giappone nel 1945, la sua stessa partecipazione al bombardamento al napalm sulla Francia del 1945 e le sofferenze causate dalla campagna aerea della NATO in Serbia. Ma non parla della storia dell'annessione del Kosovo da parte della Serbia, del fatto che gli albanesi kosovari siano stati gettati fuori dai loro luoghi di lavoro, dalle scuole e dal sistema medico da parte del governo di Milosevic negli anni successivi alla revoca dell'autonomia del Kosovo nel 1989, né dell'escalation dell'oppressione serba fino alla guerra aperta nei primi mesi del 1998.

Doug Henwood è direttore del "Left Business Observer" (LBO) e autore del libro critico "Wall Street". Sul suo sito web compare ancora l'articolo "L'affare del Kosovo", tratto dal numero dell'aprile 1999 del LBO, quale sua polemica contro la guerra. Non c'è alcuna menzione degli albanesi, se non un riferimento sogghignante alla "compassione autolusingante della gente per i profughi".

L'ALBANESE DEMONIACO

Vi è anche una serie di articoli che parlano degli albanesi, o almeno dell'UCK, ma solo per valutare se la Serbia o la NATO hanno ragione nelle loro politiche, o semplicemente per spaventare il lettore con la prospettiva di un UCK rafforzato. Ma la guerra del Kosovo era incentrata sull'aspetto dei destini del Kosovo e degli albanesi kosovari. A partire dall'annessione del Kosovo da parte della Serbia nel 1912, il Kosovo è stato un punto dolente per ogni governo serbo e jugoslavo, dalla Serbia monarchica prima della Seconda guerra mondiale, fino alla Jugoslavia titoista dopo tale guerra e alla Serbia di Milosevic dopo il 1987. Non è possibile ignorare gli albanesi kosovari, a meno che gli albanesi non vengano considerati come non degni della considerazione riservata ad altri popoli.

E infatti, accanto alla letteratura che tace sugli albanesi, c'è anche una vasta letteratura che demonizza gli albanesi kosovari. Il Workers World Party e il Partito Comunista degli USA (CPUSA) lo fanno partendo dalla posizione di un entusiastico sostegno alla guerra del regime di Milosevic contro i kosovari. Ma c'è anche un'influente letteratura che lascia indefinita la posizione dei suoi autori nei confronti di Milosevic e si concentra invece semplicemente sulla denuncia degli albanesi e sull'affermare che tutti i problemi della Jugoslavia sono dovuti a interventi esterni o a nazionalità non serbe. Tra la letteratura più influente di tale genere vi sono gli articoli di Diana Johnstone e del professore dell'Università di Ottawa, Michel Chossudovsky; molti di questi articoli possono essere trovati nella rivista "Covert Action Quarterly".

La nazione di controrivoluzionari che non si merita diritti
Il Workers World Party e il CPUSA denunciano ogni kosovaro che si oppone all'oppressione serba come "mercenario", agente della CIA, agente della Germania e chi più ne ha più ne metta. Si arriva così a livelli di vera e propria isteria. Per esempio, Workers World ha recentemente informato i suoi lettori che "molti dei leader dell'UCK trovano le loro radici in un'unità fascista creata durante la Seconda guerra mondiale dagli occupanti italiani" (1). Evidentemente ci si vuole riferire a leader che hanno tra i 70 e gli 80 anni. Ma un altro articolo afferma che l'UCK "trova origine in Germania. Più precisamente, i leader iniziali di questo gruppo terrorista controrivoluzionario parlavano il tedesco come loro prima lingua" (2). E poi ci sono tutti i resoconti "documentati" sul fatto ritenuto sospetto che i lavoratori albanesi emigrati in Germania vengono pagati in marchi tedeschi e li riportano in Kosovo. Marchi tedeschi, sentite un po'! E' un'equazione davvero semplice. Tutti quelli che si oppongono all'oppressione serba sono dell'UCK, e tutti coloro che fanno parte dell'UCK sono trafficanti di droga, agenti italo-tedeschi-CIA. Leo Paulsen, un leader del WWP di Chicago, ha descritto gli albanesi kosovari come una "nazione di contra".

La spiegazione che il WWP dà del fatto che il Kosovo è stato mantenuto in Serbia dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante il suo desiderio di essere unito all'Albania, è che la gente era troppo reazionaria perché le si potesse consentire di avere i propri diritti nazionali. Workers World scrive che alla fine della Seconda guerra mondiale è scoppiata una "insurrezione pro-fascista" e che, "di fronte a questo problema militare, il Kosovo è stato mantenuto parte della Serbia", senza che gli venisse concessa alcuna autonomia significativa fino al 1974 (3). Così un'intera popolazione è stata privata del diritto all'autodeterminazione come punizione. In realtà, tuttavia, i kosovari non erano fascisti, ma la leadership titoista dei partigiani jugoslavi ha continuato a mantenere il Kosovo in Serbia a scapito degli interessi della lotta antifascista. Ha sottoposto il Kosovo ad angherie di tale entità, che perfino una larga paste dei partigiani antifascisti kosovari si è unita all'insurrezione.

Una nazione di trafficanti di droga
Il CPUSA è tra i più ardenti nel denunciare i kosovari come trafficanti di droga. In questo, sono sostenuti dal professor Chossudovsky, in articoli come "I 'combattenti per la libertà' finanziati dal denaro del narcotraffico e dalla CIA" ("Albion Monitor", aprile 1999). Il suo articolo entra nei particolari di affermazioni sui traffici di droga da parte di albanesi del Kosovo e dell'Albania propriamente detta. Una confutazione decisamente buona di questo articolo è tuttavia comparsa sulla rivista australiana Green Left Weekly (4). Essa sottolinea che, mentre da una parte "non è così inusuale che movimenti di liberazione affamati di contante raccolgano parte dei loro fondi da fonti illegali", dall'altra Chossudovsky in realtà non fornisce alcuna documentazione sul coinvolgimento dell'UCK in tutto questo -- egli suppone che ciò sia dimostrato dal fatto che l'UCK e varie bande criminali sono entrambe formate da albanesi. Chossudovsky usa l'isteria antidroga per discreditare un intero popolo oppresso.

Di particolare interesse è la descrizione che "Green Left Weekly" fa di come Chossudovsky cerchi di collegare l'UCK a Sali Berisha, il presidente conservatore dell'Albania rovesciato da una ribellione popolare. Chossudovsky parla di tutte le attività criminali di Berisha, riuscendo però a lasciare fuori alcuni piccoli dettagli, come il fatto che Berisha, fino a oggi, è stato un oppositore dell'UCK e non il suo finanziatore. Inoltre, Chossudovsky trascura il fatto che Berisha ha legami con un altro attore del dramma, anche se deve saperlo bene, visto che la cosa emerge da una delle fonti chiave del suo articolo. Viene infatti fuori che "fino alla fine della guerra in Bosnia, questi traffici [di Berisha - j.g.] includevano la violazione su vasta scala delle sanzioni mediante la vendita di petrolio alla Serbia e al Montenegro". Così, viene fuori che Berisha ha fatto affari con il regime di Milosevic, e non con l'UCK.

Gli uccisi non sono abbastanza per preoccuparsene
Più diffuso, tuttavia, è l'atteggiamento di non condannare direttamente i kosovari, ma di sminuire volontariamente le loro sofferenze, parlando di altre tragedie e guerre nel mondo. Le cifre relative ai loro morti vengono spesso raffrontate ad alcuni eccidi di maggiori dimensioni avvenuti altrove (i kosovari sono un piccolo popolo - dovrebbero essere completamente sterminati alcune volte perché il loro eccidio raggiunga le cifre di altri casi simili). Quello che si vuole sottintendere è che quanto che succede ai kosovari non è poi così importante. Si può anche non arrivare a dire direttamente che gli albanesi kosovari sono un popolo reazionario, ma la conclusione è che i kosovari, comunque, non sono così importanti. Gli articoli sulla guerra del Kosovo, come abbiamo visto, possono ignorare il Kosovo stesso, anche se viaggiano a lungo attraverso il mondo e la storia, fino alle sofferenze dei kurdi in Turchia, al Vietnam, alla Seconda guerra mondiale ecc. Tutto ciò avviene allo scopo di dimostrare che la NATO è ipocrita: è molto selettiva nel decidere per quali violazioni dei diritti umani darsi da fare. E' assolutamente vero, ma la NATO non è l'unica forza politica che può essere ipocrita. Alcune tendenze politiche nel movimento antiguerra sono altrettanto selettive nelle loro simpatie. Parlano della situazione dei kurdi in Turchia, per esempio, ma non dei kurdi in Iraq. L'unica risposta non ipocrita all'ipocrisia della NATO riguardo ai kurdi è quella di fornire sostegno sia ai kurdi che agli albanesi kosovari.

Un esempio notevole di questa tendenza di parlare di tutti, tranne che dei kosovari, lo si trova nei punti di argomentazione di Michael Albert e Stephen Shalom per gli attivisti antiguerra, ai quali abbiamo fatto riferimento sopra. Sotto il titolo di "Cosa dovremmo chiedere per i Balcani" (punto n. 15), non vi è nessuna richiesta che menzioni direttamente i kosovari: al massimo, si chiede che una forza di pace ONU "si interponga tra i combattenti", che si evita di nominare. Ma mentre i kosovari non compaiono nell'elenco delle richieste, queste ultime si preoccupano di richiedere "con insistenza che altre atrocità, spesso perpetrate, appoggiate o ignorate da Washington in quanto funzionali agli interessi USA, ricevano la stessa visibilità mediatica e attenzione umanitaria delle atrocità in Kosovo" (Albert and Shalom, "Il conflitto Kosovo/NATO: domande e risposte", punto n. 15). Così, una delle richieste fondamentali per i Balcani è quella di non preoccuparsi tanto delle atrocità contro i kosovari. Sia ben chiaro, non elencano alcun'altra lotta in corso che ritengono importante. Il contenuto della loro richiesta è solo quello di parlare di qualsiasi altra area del mondo, indipendentemente da quale sia, basta che non si tratti del Kosovo. Cosa può significare questo, se non che i kosovari semplicemente non sono altrettanto importanti degli altri popoli?

E' colpa loro
Per giunta, si lascia spesso intendere che se un certo numero di albanesi sono stati uccisi, è soprattutto per colpa loro: presumibilmente, hanno provocato le forze militari e paramilitari serbe. Si lascia intendere che i massacri contro gli albanesi - se questi ultimi si oppongono al regime di Milosevic, se sostengono l'indipendenza o se simpatizzano per l'UCK - non è poi un male così grande. E' comprensibile. A tale riguardo, ci si ostina ancora a sostenere che il massacro di Racak del gennaio del 1999, con il quale la polizia serba ha ucciso a sangue freddo 45 abitanti del villaggio, nei fatti non si è verificato. L'ultimo numero di "Covert Action Quarterly" (primavera-estate 1999) parla ancora di "un presunto massacro nel villaggio di Racak" (5). Si noti che quando "Covert Action Quarterly", il WWP e altri negano il massacro di Racak, di solito non negano che abitanti albanesi del villaggio vi siano stati uccisi. Nient'affatto. Quello che affermano, è che gli abitanti del villaggio erano obiettivi legittimi. Dopo tutto, il villaggio simpatizzava con l'UCK e alcuni suoi abitanti hanno risposto con il fuoco ai predatori della polizia serba. Tali fonti accettano il resoconto fornito dalla polizia e dai militari serbi (un resoconto contraddetto dai rilevamenti medici), secondo il quale le vittime sono morte resistendo al raid serbo contro il loro villaggio. Ma, anche secondo questo stesso resoconto, le forze serbe hanno accanitamente decimato un villaggio unicamente perché era un villaggio UCK (si veda: "La controversia di Racak" nel sito di "Communist Voice": http://www.flash.net/~comvoice/21cKosovoRacak.html). I kosovari che sostengono l'UCK evidentemente si meritavano di morire.

Potrebbe sembrare strano che, dopo tutti gli altri massacri che hanno avuto luogo, il massacro di Racak, del gennaio scorso, sia ancora oggetto di dibattiti. Ma ciò avviene perché il massacro di Racak dimostra che, due mesi prima della guerra Serbia-NATO, i militari serbi avevano già dato il via a un'escalation dei loro attacchi contro gli albanesi. Dopo Racak il ritmo degli attacchi contro i villaggi, e perfino le città, è andato aumentando. Ma in ogni caso, l'affermazione che quello di Racak non è stato un massacro è un altro esempio della linea di ragionamento che suggerisce come gli albanesi abbiano avuto quello che si meritavano. [...]

GIUSTIFICARE LA TIRANNIA DI MILOSEVIC

Alcune correnti del movimento antiguerra hanno sostenuto che condannare la tirannia e la pulizia etnica del governo di Milosevic vuole dire demonizzare il popolo serbo. Secondo un influente articolo di Diana Johnstone sulla storia della Jugoslavia, "molte persone, nel desiderio sincero di opporsi al razzismo e all'aggressione, hanno in realtà contribuito a demonizzare un intero popolo, i serbi" (6). Secondo l'autrice, la condanna del regime di Milosevic e dei suoi attacchi contro gli albanesi significano "demonizzare" l'intero popolo serbo. Ciò ha altrettanto senso dell'affermare che condannare le aggressioni degli USA nel mondo significa "demonizzare" gli americani. Quando si condannano le politiche della classe governante borghese di un paese, non vuol dire necessariamente che si demonizza un popolo, anzi, ciò può essere invece il requisito indispensabile per l'unità dei popoli lavoratori di tutti i paesi contro i loro oppressori.

Esaltazione della monarchia serba
Johnstone, tuttavia, ignora le classi e le lotte di classe e finisce con l'abbracciare una versione sciovinista della storia. Il suo resoconto della storia dei Balcani ignora il ruolo delle diverse classi e delle lotte di classe che esistono in tutte le nazionalità, e presenta invece una storia fatta di nazioni progressiste e di nazioni reazionarie: naturalmente, mette i serbi nel ruolo della nazione progressista e demonizza tutte le altre nazionalità che hanno fatto parte della Jugoslavia, definendole nazioni egoiste, appoggiate dal fascismo ecc. Evita così in tal modo di lodare direttamente Milosevic, abbracciando comunque lo sciovinismo serbo e la tesi di un ruolo speciale serbo nel civilizzare gli altri popoli dei Balcani. Secondo lei, sostenere il diritto all'autodeterminazione per le nazionalità della Jugoslavia significa "legittimare... il separatismo etnico" e può essere la posizione unicamente di coloro che hanno demonizzato la Serbia.

Johnstone arriva addirittura a lodare la monarchia serba nel suo periodo avanzato e la presenta come l'incarnazione degli ideali della rivoluzione francese, della quale finora in genere si pensava che promuovesse, tra le altre cose, il rovesciamento della monarchia. L'autrice scrive che "... durante il diciannovesimo e la prima parte del ventesimo secolo i leader politici serbi sono stati estremamente ricettivi nei confronti degli ideali progressisti della rivoluzione francese. Mentre tutte le altre nazioni liberate dei Balcani importavano principini tedeschi come loro nuovi re, i serbi promuovevano i loro allevatori di porci a dinastia, uno dei cui membri, durante i suoi anni di studente, ha tradotto in serbo 'Sulla libertà' di John Stuart Mill". Così, secondo Johnstone, il fatto che una monarchia sia progressista o meno dipende dal fatto che sia serba oppure no. Per contrasto, il movimento socialista dell'inizio del 20° secolo, pur riconoscendo l'importanza della lotta di liberazione dei serbi e degli altri popoli balcanici, denunciava tutte "le dinastie e le classi borghesi" dei Balcani, senza fare alcuna eccezione per quella serba (si veda la Risoluzione di Basle dei partiti socialisti del 1912 contro la minaccia imminente di una guerra mondiale). Queste monarchie sono state tra le forze che hanno incanalato la lotta contro l'oppressione ottomana nella violenza etnica.

In realtà, la monarchia serba, che è diventata poi la monarchia jugoslava e ha governato la Jugoslavia dalla sua creazione dopo la Prima guerra mondiale (come Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni) fino al suo crollo nella Seconda guerra mondiale, era una monarchia decisamente reazionaria. Presiedeva un sistema centralizzato di dominazione da parte della Serbia e ha indebolito con successo le istituzioni parlamentari, sostituendole con una dittatura del re. C'è una logica, tuttavia, nell'elogio di Johnstone per la monarchia. E' sotto la monarchia che il Kosovo è stato annesso alla Serbia nel 1912, nel contesto di orribili massacri contro gli albanesi. E se Johnstone ammettesse che la Jugoslavia monarchica violava il diritto all'autodeterminazione delle varie nazionalità jugoslave, potrebbe suggerire che negare tale diritto è reazionario ancora oggi.

Nel frattempo, l'articolo di Johnstone è stato promosso come la storia reale della Jugoslavia. Chomsky, per esempio, prende determinate posizioni che sembrerebbero decisamente diverse dalle sue, ma prima della guerra Serbia-NATO ha raccomandato di leggere Johnstone per comprendere la complessa storia della regione. Chomsky e altri possono anche passare discretamente sulle affermazioni più estremistiche della Johnstone, ma il lavoro di quest'ultima diffonde un'atmosfera secondo cui il diritto all'autodeterminazione per le nazionalità non serbe della Jugoslavia è sospetto, e che in realtà le stesse popolazioni non serbe sono sospette.

Il regime di Milosevic come socialista
Altri, come il WWP, non glorificano il nazionalismo serbo in quanto tale, ma riabilitano la tirannia di Milosevic e il suo sciovinismo serbo presentandoli con colori socialisti e antimperialisti. In generale queste correnti, indipendentemente da quanto siano entusiaste della crociata di Milosevic contro gli albanesi, si atteggiano comunque come leggermente distanti da quest'ultimo. Il WWP all'occasione lascia cadere un paio di parole su come Milosevic sia un "nazionalista" o commetta alcuni errori "burocratici". Ma ne difende con fervore il regime, nega le atrocità e sostiene la sua guerra contro gli albanesi e l'opposizione interna.

[...] [Il WWP] Ha anche sostenuto che il regime di Milosevic costituisce un ostacolo per il capitalismo e che questo è il motivo per cui si trova a essere attaccato. Uno dei molti problemi di questo filo di ragionamento, è che il regime di Milosevic ha anch'esso privatizzato. Esso ha ereditato dai suoi predecessori un regime di capitalismo di stato, e non socialista, e ne ha fatto un regime di mercato-capitalista. Le sue divergenze con l'opposizione borghese serba non riguardano ciò, ma piuttosto chi controllerà il nuovo capitalismo e cosa succederà al vecchio apparato di oppressione politica. Nonostante questo, il WWP e altri fanno il possibile per presentare Milosevic come un socialista.

Per esempio, il WWP promuove con grande impegno gli articoli di Sarah Flounders sul Kosovo. Uno di essi, "Kosovo: 'La guerra è per le miniere'", discute dell'importante complesso minerario di Trepca, in Kosovo. Parla di come queste miniere sono ricche, di come "la Jugoslavia socialista ha cercato di resistere ai tentativi di privatizzazione delle sue industrie e delle sue risorse naturali" e ci dice che gli albanesi stanno semplicemente aiutando a mettere le miniere nelle mani dell'Occidente. Si afferma che "questo enorme complesso di miniere, lavorazione dei metalli, generazione di energia e trasporti in Kosovo potrebbe essere il maggiore bene incontestato non ancora nelle mani dei grandi capitalisti degli Stati Uniti o dell'Europa". Così ai lettori viene fornita l'immagine di coraggiosi socialisti che resistono contro questi sguaiati albanesi del Kosovo dalla mentalità capitalista. Ma alla fine, nelle ultime righe del suo articolo, ammette che Milosevic sta mettendo questo bene nelle mani di capitalisti privati: sta privatizzando il complesso di Trepca. Il suo regime "sta conducendo negoziati per vendere azioni del complesso minerario di Trepca. Costretti dalla crisi economica, ha avviato negoziati con un investitore greco - la Mytilineos Holdings SA - per una parziale proprietà". Se gli albanesi del Kosovo dovessero vendere le miniere, si tratterebbe per Flounders di una prova che i kosovari sono le truppe d'assalto della conquista capitalista, ma se lo fa Milosevic, significa semplicemente che è stato "costretto a privatizzare al fine di sopravvivere nel mercato globale di oggi".

Alla dimostrazione svoltasi il 5 giugno a Washington D.C. contro i bombardamenti della NATO, l'accademico Barry Lituchy ha pronunciato un discorso, che è stato la base per il suo articolo "La barbarie americana e la tecnica delle grandi bugie sono i vincitori in Kosovo". Egli presenta la Jugoslavia come "l'ultima economia socialista in Europa". Ma è costretto ad ammettere che Milosevic ha applicato soprattutto una politica di privatizzazioni. Non importa, afferma Lituchy, "Milosevic negli ultimi anni ha abbandonato la linea delle privatizzazioni". E' stato tuttavia proprio in questi ultimi anni che Milosevic si è mosso per privatizzare il complesso minerario di Trepca.

Il regime di Milosevic come antimperialista
Se è difficile presentare il regime di Milosevic come socialista, molti autori pensano che potrebbe essere più facile presentarlo come antimperialista. C'è stata così un'inondazione di articoli del WWP e di altri autori, mirati a provare che l'imperialismo ha smembrato la Jugoslavia. Apparentemente, non ci sono stati gravi problemi interni; le questioni nazionali e i problemi economici della Jugoslavia sono stati tutti frutto di trame estere.

Si può prendere come esempio l'articolo di Chossudovsky intitolato "Come il FMI ha smantellato la Jugoslavia". Egli scrive che "nei due decenni che hanno preceduto il 1980" le cose andavano bene. Ma gli anni '80 sono stati "un decennio di aiuti economici occidentali" e questo ha distrutto l'economia jugoslava. Dopo tutto, "gli Stati Uniti... si sono uniti agli altri creditori di Belgrado nell'imporre una prima tornata di riforme macroeconomiche nel 1980, poco prima della morte del maresciallo Tito. I successivi programmi promossi dal FMI hanno proseguito la disintegrazione del settore industriale e lo smantellamento progressivo dell'economia jugoslava". Ma come ha fatto il FMI a imporre tale politica a un paese inebriato da due decenni di successo economico e, apparentemente, privo di propri capitalisti nazionali? Si tratta di una fantasia mirata a nascondere i crescenti problemi economici che affliggevano la Jugoslavia e che sono stati studiati da economisti delle più svariate tendenze. Chossudovsky attribuisce l'influenza del FMI alla pressione dei "creditori internazionali" - ma una tale grande influenza dei creditori implica che la Jugoslavia, negli anni precedenti, viveva già sui prestiti esteri.

Barry Lituchy offre una fantasia simile. Dice ai dimostranti che "nonostante le sanzioni imposte dall'occidente, l'economia jugoslava è riuscita a conseguire uno dei più alti tassi di crescita dell'Europa Orientale, l'anno scorso. Incapaci di spezzare il modello jugoslavo attraverso le sanzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno finanziato eserciti mercenari sotto le spoglie di 'movimenti democratici di opposizione'". Così, l'economia serba sofferente degli anni '90, con i suoi standard di vita e la propria base industriale a pezzi, viene presentata come un modello di crescita, mentre si denuncia l'opposizione a Milosevic. Secondo il quadro dipinto da Lituchy, non ci sono lotte di classe in Jugoslavia, c'è solo il regime contro i servizi di spionaggio stranieri. [...]

Più in generale, è notevole come gran parte della propaganda che demonizza gli albanesi si basi sull'accettazione acritica di poche fonti imperialiste selezionate. La stessa agitazione politica secondo cui la lotta degli albanesi kosovari per il diritto all'autodeterminazione era un complotto imperialista (in generale, tedesco o americano), cita come prova di quanto siano perfidi gli albanesi il fatto che essi siano stati condannati come "terroristi" da questa o quella agenzia imperialista. Ciò è in parte conseguenza di una certa disperazione nel trovare modi per condannare gli albanesi, ma rappresenta in parte anche un appello implicito all'imperialismo stesso: non sostenete i kosovari, non giocheranno il vostro gioco. Ed è proprio uno strano appello per dei pretesi antimperialisti. Alcuni autori legati al sistema e alcuni critici contrari alla guerra hanno scritto in parallelo articoli sugli esiti della guerra nei quali si sostiene che "il vero vincitore... è l'UCK". Questi articoli non apprezzavano certo il successo degli albanesi, ma mettevano in guardia gli imperialisti dalla minaccia più grande - la prospettiva di una militanza attiva degli albanesi. Un esempio a tale proposito lo si può trovare in un articolo del giornalista di sinistra Robert Fisk, "La pace che tradisce la causa kosovara" (7). Il titolo fa sembrare che l'articolo sia a favore della causa kosovara, ma il tema dell'articolo è che "noi" pensavamo di avere vinto la guerra, ma, guarda un po'!, termina con una prospettiva che Fisk "sinceramente sper[a] si dimostrerà sbagliata", e cioè che l'UCK si comporterà male e che "nel giro di qualche mese - al massimo un anno - il nemico della NATO sarà l'UCK, che si rivolterà contro l'Occidente perché quest'ultimo avrà tradito le sue speranze di indipendenza. Allora ci ricorderemo di come pensavamo di avere vinto la guerra".

La ricerca di fonti per condannare gli albanesi ha portato alcune persone, come Chossudovsky, a spingersi molto a destra. Shalom, anche se non è un amico dei kosovari, ha richiamato l'attenzione sulla natura dubbia dell'affermazione che l'UCK sia stata armata dagli USA e dalla Germania, e ha scritto: "Michel Chossudovsky... afferma che la CIA sosteneva l'UCK basandosi sulle affermazioni non sostenute da prove di un fanatico di estrema destra, e sostenitore di teorie della cospirazione, come John Whitley (il quale afferma che i Bilderberger hanno pianificato, finanziato e avviato la guerra in Kosovo), riprese da una citazione di un'alta fonte dell'estrema destra, 'Truth in Media', che riprende 'per quel che vale' la presunta lettera di un soldato dell'UCK che afferma come l'UCK abbia indossato le divise serbe per poi dare il via alle pulizie etniche contro gli albanesi" (17).

Non tutto quello che luccica è oro; la propaganda "anti-NATO" che strizza l'occhio all'estrema destra difficilmente riuscirà a essere antimperialista. La demonizzazione degli albanesi è stata non solo la base che ha consentito alle principali correnti del movimento antiguerra di passare sopra a discriminanti come il sostegno o l'opposizione a Milosevic, ma ha fornito allo stesso tempo una base anche per flirtare con il sistema e con le forze di estrema destra.

 

NOTE:

(1) Gary Wilson, Background of the struggle in Kosovo, in "Workers World", 8 aprile.

(2) Fred Goldstein, Yugoslav's past becomes present, in "Workers World", 8 aprile.

(3) Gary Wilson, Big power rivalry in the Balkans, in "Workers World, 14 maggio 1998.

(4) Michael Karadjis, Chossudovsky's frame-up of the KLA, 12 maggio 1999 (disponibile anche in italiano con il titolo "Chossudovsky e l'UCK": http://www.ecn.org/est/balcani/kosovo/kosovo76.htm).

(5) Gregory Elich, Carving another Slice from Yugoslavia.

(6) Diana Johnstone, Seeing Yugoslavia Through a Dark Glass: Politics, Media and the Ideology of Globalization, in "Covert Action Quarterly", Spring-Summer 1999, #67.

(7) "The Independent" (UK), 5 giugno.

(8) Stephen R. Shalom, Reflections on NATO and Kosovo, in "New Politics", vol. 7, #3, Summer 1999, nota 4.