LA COSTRUZIONE DEL MITO SERBO DEL KOSOVO


febbraio 2000, di Andrea Speranza

 

Questo studio (che qui pubblichiamo senza note e con sostanziosi tagli redazionali) fa parte di un lavoro molto piu' ampio che potrà venire richiesto alla redazione di "Balkan".

 

Il mito del Kosovo come terra sacra, culla della civiltà e della cultura serba, è stato costruito dalla dirigenza politica serba mobilitando ogni settore della società. Il gruppo di "professionisti" riconosciuti come autorità sulla materia dalla pubblica opinione e dalle istituzioni statali, comprende i massimi dirigenti dei partiti al potere, i più eminenti intellettuali, storici ed esponenti del mondo culturale in Serbia, la gerarchia della Chiesa Ortodossa Serba, che svolge un ruolo decisivo nella costruzione nell'immaginario collettivo dell'identità etnica, della memoria storica e dei suoi miti e simboli fondanti, attraverso i quali il Kosovo viene rivendicato come la "Gerusalemme" serba. Il messaggio viene veicolato alle masse attraverso i canali tradizionali: i mass-media hanno un ruolo centrale, insieme all'educazione scolastica e alla riscoperta della cultura popolare di matrice nazionalista, che comprende romanzi, leggende e canti epici tradizionali; un ruolo particolare è riservato ai grandi raduni di massa organizzati dal regime e alle rappresentazioni artistiche del mito. La propaganda nazionalista affermatasi in Serbia negli anni '80 riprende concetti e temi già espressi a partire dalla seconda metà dell'800, con la formazione del Regno di Serbia, e sviluppati nel periodo tra le due guerre mondiali, quando tesi apertamente razziste nei confronti degli albanesi furono enunciate da intellettuali di Belgrado per argomentare l'appartenenza storica del Kosovo alla Serbia. Sopite durante l'epoca titoista, le teorie nazionaliste e gran-serbe furono riprese con grande successo dopo la morte di Tito. Milosevic riuscì a creare un grande consenso di massa, riuscendo con maestria a disinformare, manipolare e trascinare il popolo serbo nella follia delle tragiche guerre degli anni '90 in ex Jugoslavia.

LA "QUESTIONE DEL KOSOVO" E IL PROGETTO DELLA DIRIGENZA POLITICA

La concessione da parte di Tito di uno status di ampia autonomia alla Provincia Autonoma del Kosovo nel 1974 fu all'origine dell'esplosione della cosiddetta "questione serba". Lo stato d'animo di esasperazione della comunità serbo-montenegrina del Kosovo portò ad atteggiamenti di insofferenza per la condizione di insicurezza e precarietà nella quale si trovavano; a partire dal 1980, anno della morte di Tito, l'inteligencija nazionale sublimò questi sentimenti a segni di un destino storico e l'élite emergente ne fece una risorsa strategica per la propria ascesa politica.
Nel 1982 fu pubblicato un Rapporto, discusso negli organi esecutivi della Repubblica Serba e della Federazione, sull'esodo degli slavi dal Kosovo; tuttavia in questi anni la dirigenza federale non accolse le tesi di una "persecuzione" in atto contro la comunità serba in Kosovo, respingendo parecchie petizioni inviate a Belgrado in quanto viziate da "sciovinismo gran-serbo". Il movimento di sostegno ai serbi ed ai montenegrini del Kosovo divenne una forza politica importante nella Federazione a partire dalla fine del 1987, con la nuova direzione politica nella Lega dei Comunisti e nel governo della Repubblica Serba. I fautori della "linea dura" nei confronti della crisi del Kosovo, guidati da Milosevic, ebbero la meglio sui moderati, accusati di inefficacia e di tradimento degli interessi del popolo serbo.
La nuova dirigenza serba lanciò un'offensiva con precisi obiettivi: fare approvare una revisione costituzionale con lo scopo di ridurre l'autonomia delle Province Autonome del Kosovo e della Vojvodina; creare un potente movimento di opinione in appoggio a questi progetti politici; modificare in Kosovo il sistema amministrativo, con la trasformazione delle enclaves di popolazione serba in nuovi comuni.
Milosevic e il Partito Comunista Serbo (i cui membri confluiranno con l'avvento del pluripartitismo nell'SPS, il Partito Socialista di Serbia, e nella JUL, la Sinistra Unita Jugoslava, attualmente guidata da Mira Markovic, la consorte di Milosevic) hanno ripreso le tesi di eminenti intellettuali, tracciando una linea politica sul Kosovo che, appoggiata dalla Chiesa Ortodossa, verrà veicolata nel paese attraverso il totale controllo dei mass-media. Belgrado condusse all'esasperazione e all'enfatizzazione, sotto il profilo nazionalistico, l'interpretazione della grande crisi economica nella quale la Jugoslavia si dibatte a partire dagli anni '80; in questo modo, la crisi economica e gli scontri etnici del Kosovo furono utilizzati per sostenere il cosiddetto "complesso di Kosovo Polje", vale a dire l'identificazione dei serbi nel "popolo sofferente", che accetta questa propria pena all'interno di una visione mistica fondata sull'ideologia della Chiesa Ortodossa. La nuova dirigenza politica venne dipinta come quella finalmente capace di promuovere il vero bene della Serbia, a differenza di quelle precedenti; la critica alla gestione della Federazione da parte di Tito divenne uno dei cavalli di battaglia di Milosevic. I vertici del partito promossero una visione della Serbia come paese che necessita di uscire dalla propria passività e di ritrovare lo spirito della grandezza che l'ha caratterizzata ai tempi dell'Impero medioevale di Dusan; il nuovo stato serbo che ne uscirà (la autoproclamata nuova Federazione di Jugoslavia, comprendente le Repubbliche Federate di Serbia e Montenegro, nato nell'aprile 1992) non dovrà essere una piccola enclave comunista chiusa in sé stessa, bensì una sorta di faro culturale, economico ma anche politico dell'Occidente nei territori balcanici. Il grande vuoto lasciato dalle sicurezze dell'ideologia comunista doveva in qualche modo essere riempito e Milosevic, per conservare il proprio potere, giocò d'anticipo e prima ancora che la crisi della Federazione di jugoslavia esploda in tutta la sua violenza egli si fece il campione di un nazionalismo sfrenato, aperto sotto il profilo economico all'Occidente. L'abolizione dell'autonomia di Kosovo e Vojvodina e la creazione di un nuovo stato Serbo forte e centralizzato furono propagandati al popolo attraverso concetti quali il legame ancestrale del popolo serbo alla terra e la forza dell'imprescindibile nesso tra l'unitarietà del territorio e l'etnia serba, che portò al progetto delle creazione di una "Grande Serbia", che comprendesse tutte le aree della ex Jugoslavia abitate da serbi. Queste tesi furono tratte dal patrimonio del pensiero politico ortodosso ed utilizzate con sapienza dai dirigenti comunisti. Per attuare i propri progetti, i vertici di Belgrado avevano bisogno del consenso incondizionato della masse, a tal fine sottoposte ad una eccezionale propaganda, che condizionò pesantemente l'immaginario collettivo della popolazione, la cui psiche fu caricata di terribili fobie e del germe dell'intolleranza, della paura e dell'odio per i nemici storici della patria serba. Gli albanesi furono oggetti di una grande campagna diffamatoria da parte della dirigenza politica serba, che creò l'immagine di un Kosovo in cui i serbi sono vittime da sempre di una persecuzione e di un genocidio, condotto prima dai turchi, poi dagli occupanti fascisti e nazisti ed infine dagli albanesi a partire dall'autonomia del 1974. La politica di demonizzazione dell'etnia albanese ha un ruolo centrale nella costruzione del mito della terra sacra, secondo il quale il Kosovo, appartenuto da sempre ai serbi, fu oggetto a più riprese di invasioni di orde di "arnauti", popolazione selvaggia, primitiva e barbara. Milosevic giocò fu questi fattori, presentandosi come espressione della forza e della sicurezza, in contrapposizione alle paure ancestrali da lui stesso evocate, e su una simile operazione fondò parte della propria opera di conservazione della sua leadership.
Il conflitto del Kosovo ha avuto un ruolo centrale nell'ascesa del nazionalismo serbo ed è stato sfruttato da Belgrado per costruire una sinergia tra il potere politico, la Chiesa Ortodossa e la maggior parte dell'opinione pubblica. L'accusa principale lanciata da Milosevic e dal gruppo dirigente contro il federalismo di Tito, quella di avere frammentato politicamente il popolo serbo tra le varie Repubbliche, in applicazione dell'idea secondo la quale l'indebolimento dalla nazione serba era necessario alla stabilità della Jugoslavia, venne portata come tesi principale a sostegno della "riconquista" del Kosovo, considerato perso e ceduto agli albanesi con l'ampia autonomia concessa nel 1974; per questo motivo il nuovo governo si assunse quindi come primo compito quello di restaurare l'unità della Repubblica sopprimendo l'autonomia politica delle Province Autonome. La condizione di minoranza della comunità serba in Kosovo e la difesa della sua sicurezza è stata utilizzata strumentalmente da Milosevic; la questione dei rapporti interetnici era la facciata dietro la quale si nascondevano la politica di potenza e centralizzatrice di Belgrado. Nel corso degli anni '90, il rituale sperimentato con successo in Kosovo fu riproposto da Milosevic per la difesa dei serbi di Croazia e di Bosnia come pretesto per scatenare l'offensiva militare: mobilitazione delle comunità serbe locali e una politica mirata ad assumere il controllo delle aree dove è concentrata la presenza di serbi, tramite la creazione di nuove amministrazioni comunali in Kosovo e l'autoproclamazione di Repubbliche serbe autonome in Croazia ed in Bosnia. Questo sforzo della dirigenza politica, attraverso il quale una frazione dell'ex Lega dei Comunisti cercò con successo di prolungare il suo potere, aveva per scopo proclamato quello di permettere a tutti i serbi di vivere in un unico Stato.
Le giustificazioni ideologiche e le tecniche di condizionamento dell'opinione pubblica sono sempre le stesse: la realtà viene negata frontalmente, attraverso una capillare propaganda e campagna di disinformazione. Secondo il regime, gli albanesi del Kosovo non sono minacciati da nessuno, anzi a loro sono garantiti tutti i diritti nell'ambito di uno status di autonomia, ma sono loro che non vogliono utilizzarli. La storia è stata utilizzata selettivamente, in modo da porre la maggiore enfasi possibile sui crimini, reali o presunti, commessi dai "nemici" della Serbia nel passato, con l'obiettivo di accrescere la convinzione tra le masse che un nuovo genocidio si sta preparando contro i serbi e che sia necessario premunirsi per evitarlo. L'immagine degli albanesi come "irredentisti" e "separatisti" (furono poi chiamati "terroristi" dopo le prime azioni armate del 1995-6) venne sapientemente fatta passare dai mass-media, insieme a campagne propagandistiche sul presunto genocidio albanese ai danni dei serbi del Kosovo.
Queste operazioni furono decisive, per potere poi giustificare agli occhi dell'opinione pubblica le guerre di conquista intraprese da Milosevic travestendole da lotte per i diritti nazionali: così disumanizzati, i nemici della Serbia possono quindi essere marginalizzati, soggetti a pulizia etnica o massacrati con l'appoggio della maggior parte dell'opinione pubblica, che viene tenuta completamente all'oscuro dei crimini commessi in nome della difesa del popolo serbo dall'esercito, dalla polizia e dalle bande paramilitari.

IL RUOLO DEGLI INTELLETTUALI

L'impegno degli intellettuali serbi nella prima metà degli anni '80 fu diretto contro le violazioni della libertà di espressione. In questo periodo, storici, politici, sociologi e giuristi sostituirono gli scrittori nella trattazione nelle loro opere di argomenti considerati fino ad allora "tabù" e nell'attivismo politico; nel novembre 1984 un nuovo Comitato per la libertà di pensiero e di espressione venne creato da Dobrica Cosic, con l'obiettivo di difendere tutti coloro fossero perseguiti per "delitti di opinione". Si creò in questo modo uno sviluppo della militanza nelle maggiori istituzioni culturali, come l'Associazione degli scrittori e l'Accademia delle Scienze. In questo periodo gli intellettuali si autolimitavano nella loro critica al sistema, non contestandone le fondamenta, con una tendenza a cercare all'estero le cause della mancanza di democrazia e di libertà di espressione. A partire dal 1985 si assistette ad un riorientamento dell'atteggiamento della classe intellettuale belgradese verso la questione del Kosovo, argomento che durante il regime di Tito era considerato intoccabile, nello spirito di "fratellanza e unità" che doveva regnare a tutti i costi tra i popoli della Federazione. Affrontare tale tematica era visto come un allontanamento dalle norme stabilite e come una sorta di "liberazione" della parola e della libertà di espressione. Con questa transizione, la natura dell'impegno degli intellettuali mutò radicalmente e divenne una strenua difesa della nazione serba, incoraggiata e sostenuta dalla Chiesa Ortodossa nazionale.
Il dibattito storico sulla questione del Kosovo iniziò nel gennaio 1985 all'interno di Knjizevne novine, la rivista dell'Associazione degli Scrittori; furono pubblicati una grande quantità di libri e saggi sul Kosovo, scritti da rispettati storici come Dimitrje Bogdanovic, Radovan Samardzic e Dusan Batakovic, che presentarono l'intera storia dei serbi in Kosovo come una secolare vicenda di martirio etnico. L'attivismo degli intellettuali si espresse con la redazione di lettere aperte al governo in difesa dei serbi del Kosovo e con petizioni. Il tono, il linguaggio ed il contenuto delle rivendicazioni degli intellettuali cambiarono bruscamente in seguito all'organizzazione ed all'attivismo politico crescente della comunità serba del Kosovo, sostenuta da buona parte del ceto intellettuale e dalla Chiesa Ortodossa. I leader politici serbo-kosovari erano consigliati da figure come lo scrittore Dobrica Cosic, che li incoraggiò ad utilizzare delle petizioni e delle manifestazioni pubbliche per ottenere il rispetto dei loro diritti. Il manifesto politico della comunità serba, la "Petizione di 2011 Serbi e Montenegrini del Kosovo", dell'autunno 1985, fu sostenuta da un'altra petizione, firmata da 216 intellettuali serbi, che ebbe un linguaggio molto aggressivo ed esplicitamente nazionalista, denunciando il "genocidio" ai danni dei serbi e criticando duramente la dirigenza della Federazione. Il dibattito all'interno dei circoli intellettuali si trasformò in vero e proprio processo alla dirigenza politica, accusata di non fare nulla per risolvere il problema del Kosovo; la dirigenza stessa di Tito, icona fino ad allora intoccabile, fu attaccata ed il problema del Kosovo fu integrato nell'insieme della "questione serba".
Il documento che condensa queste posizioni apertamente nazionaliste è il Memorandum dell'Accademia serba delle Scienze e delle Arti, del settembre 1986.
La situazione in Kosovo è descritta come "un genocidio fisico, politico, giuridico, culturale, la sconfitta più grave subita dalla Serbia nelle sue lotte di liberazione"; i dirigenti della Federazione e della Repubblica Serba sono accusati di non avere difeso il popolo ed il territorio serbo e di non essere stati capaci di porre fine "ad una guerra aperta e totale", che ha come fine un Kosovo "etnicamente puro". La questione del Kosovo viene collegata a quella più generale della condizione delle minoranze serbe all'interno degli altre Repubbliche della Federazione, in particolare in Croazia, dove "eccetto all'epoca dello Stato Croato Indipendente, i serbi di Croazia non sono mai stati minacciati così tanto quanto lo sono oggi". La popolazione serba fuori dalla sua Repubblica, secondo i redattori del Memorandum, "viene esposta, dal processo generale di disintegrazione che ha colpito la Yugoslavia, alla distruzione totale della sua unità nazionale". Tutto il documento è incentrato sulla denuncia delle discriminazioni subite dalla Serbia e dal suo popolo, ad opera dei dirigenti del Partito Comunista Jugoslavo, delle quali hanno approfittato le altre Repubbliche, in particolar modo Slovenia e Croazia. Il primo passo per risolvere la crisi delle istituzioni serbe e per mettere fine a questo stato di cose viene individuato nella necessità di emendare la Costituzione del 1974, considerata l'origine dei mali che affliggono la Federazione e trampolino di lancio per le tendenze autonomiste e secessioniste della varie Repubbliche e Province Autonome. Nel testo è anche presente un bilancio della crisi economica, politica e "morale" della Jugoslavia, con un appello alla democratizzazione del sistema titino e la condanna della burocrazia, dei privilegi, del nepotismo e della corruzione della classe politica. Le autorità serbe reagirono condannando il Memorandum e richiedendo all'Accademia di rinnegarlo e di sostituire i membri responsabili della stesura del testo. La più prestigiosa istituzione intellettuale serba contribuì in maniera decisiva a fornire materiale alla propaganda, che Milo_evic seppe abilmente sfruttare al momento della sua ascesa al potere, riguardo alle presunte "atrocità" commesse dagli albanesi ai danni dei serbi del Kosovo, attraverso anche un'inchiesta commissionata tra 500 nuclei familiari serbi che erano emigrati dalla Provincia. Studiosi ed intellettuali legati all'Accademia lessero nella cosiddetta "congiura del silenzio" sull'esodo serbo la prova della posizione ineguale del popolo serbo nella federazione jugoslava rispetto agli altri popoli, lanciandosi in un vero e proprio percorso revisionista, che riscoprì il genocidio dei serbi nel Kosovo ottomano, il "masochismo nazionale" di Tucovic, la "leggenda" dell'egemonismo gran-serbo nella Jugoslavia monarchica, l'accanimento serbofobo del Comintern, la legittimazione del '68 kosovaro come premessa immediata alle disgrazie attuali. Nel corso della primavera del 1987, gli intellettuali organizzarono una serie di serate di protesta, a sostegno dei serbi del Kosovo, nel corso delle quali viene continuamente ribadita la necessità di "liberare" il popolo serbo, nella Federazione dominata dai croati e dagli sloveni. La questione del Kosovo venne dunque considerata un problema di diritti umani, ma anche come la minaccia di una nuova perdita della "terra santa". Di fronte ad una situazione che giudicavano drammatica, alla quale l'autorità politica non riusciva a dare una risposta adeguata, gli intellettuali serbi si sentirono chiamati ad agire, investendosi di una missione e sostituendosi ai politici. I tentativi di intesa con gli intellettuali e gli storiografi albanesi non portarono ad alcun risultato, con la persistenza delle due parti a considerare il suo popolo come l'unica vittima della storia. La questione nazionale serba era legata, nella visione degli intellettuali, alla lotta per la democrazia, che era cominciata con la difesa della libera espressione; la contraddizione, ancora latente, tra democrazia e nazionalismo, divenne manifesta con la presa di potere di Milosevic. L'Associazione degli scrittori e l'Accademia serba della scienze, le due istituzioni più importanti dell'opposizione intellettuale, nel marzo 1988 si pronunciarono favorevolmente alle revisioni costituzionali. Consapevoli o meno che ne fossero, questi "scienziati nazionali" segnarono la traccia nazionalista che la nuova dirigenza politica fece propria per poi utilizzarla come pretesto per la politica di egemonia che portò alla tragica disgregazione della Federazione jugoslava.

"KOSOVO E METOHIJA": IL RUOLO DELLA CHIESA ORTODOSSA SERBA

Il complesso mitologico che riguarda il Kosovo, l'immagine della terra sacra, dei suoi simboli, eroi e santi, si richiama in gran parte alla tradizione della Chiesa Ortodossa Serba. La Chiesa nazionale serba è un protagonista fondamentale nella costruzione dell'identità del popolo serbo; il suo ruolo nella riscoperta degli ideali nazionalisti della dirigenza politica affermatasi nel 1987 fu decisivo. L'appoggio delle gerarchie della Chiesa Ortodossa Serba si è rivelato essenziale per Milosevic, per compattare maggiormente l'opinione pubblica in appoggio ai suoi progetti egemonici, travestiti da difesa del popolo serbo "perseguitato"; insieme alla classe intellettuale, la Chiesa Ortodossa ha costituito il principale mezzo utilizzato dalla dirigenza politica per dare voce autorevole alle sue tesi nazionaliste.
In Kosovo è presente un considerevole patrimonio culturale della Chiesa Ortodossa Serba, il cui Patriarcato ebbe sede a Pec per parecchi secoli; la parte occidentale della regione viene indicata con il toponimo serbo "Metohija", che significa "bene ecclesiastico", per sottolineare quanto stretto sia il legame tra quei territori, la Chiesa Ortodossa Serba ed il suo popolo e quanto sia importante il Kosovo nella costruzione dell'identità collettiva serba. [...]
Il peso geopolitico della religione ortodossa preme sull'aspetto collettivo della formazione del sentimento nazionale in tutte le sue forme. La religione, in Serbia ed in tutta l'area ortodossa, è stata ed è tuttora uno dei fattori principali della costruzione della nazione. Religione e nazione formano una sinergia attiva e non cessano di rendersi dei reciproci servizi. L'Ortodossia, soggetto principale della lotta politica del XIX e del XX secolo, metabolizzando gli ingredienti del nazionalismo, ha contribuito alla formazione della nazione serba, dandole un senso di unità designando dei nemici potenziali. Questo processo di identificazione si svolge in una duplice direzione, verso sé stessi, come affermazione di sé, e verso gli altri, individuando dei nemici potenziali come fattore di rafforzamento della propria identità. I nemici della Serbia sono anche i nemici dell'Ortodossia e viceversa: si tratta di un sistema assolutamente circolare dell'immaginario collettivo.
Nonostante il processo di laicizzazione della società imposto dal regime comunista dopo la Seconda Guerra Mondiale, la società serba ha continuato a riferirsi, più o meno coscientemente, a delle mitologie nazionali uscite dallo spazio religioso.
La creazione, da parte del regime titoista, della Provincia Autonoma del Kosovo, venne percepita dalla Chiesa Ortodossa serba come la più evidente volontà del comunismo di mortificarla e di sminuire l'importanza di una regione considerata "sacra". La nuova dirigenza politica sarà pronta a cogliere questa opportunità per ergersi a paladino dell'Ortodossia, in nome della quale Milosevic scatenerà la sua offensiva proprio a partire dal Kosovo "terra sacra".

La Chiesa Ortodossa serba, che si vanta di essere stata lungo tutta la sua storia la "custode di tutti i serbi" e in particolare della loro cultura, che ha accompagnato nei secoli le lotte di liberazione dei serbi contro l'occupante, vide nella Costituzione jugoslava del 1946 la religione ridotta ad una "questione privata". Dopo quarant'anni di comunismo laico, la Chiesa Ortodossa serba nel corso degli anni '80 iniziò il tentativo di riacquistare un ruolo pubblico di primo piano. Considerandosi in grado di ristabilire l'ordine sociale, ciò la spinse a svolgere un ruolo sempre più attivo sulla scena politica e ad assumere talvolta posizioni ancora più nazionaliste di quelle delle autorità politiche.
Dopo la morte di Tito, la prima istituzione che aprì pubblicamente il dibattito sulla cosiddetta "questione del Kosovo" fu proprio la Chiesa Ortodossa serba, guardiana tradizionale dell'identità nazionale. Per la Chiesa, l'emigrazione forzata dei serbi dal Kosovo costituiva un fatto ben più grave di una semplice violazione dei diritti umani, il sorgere dello spettro della "perdita" del Kosovo, culla dell'Impero medioevale serbo e pilastro dell'identità nazionale. L'attivismo della Chiesa Ortodossa serba sulla questione del Kosovo iniziò nell'aprile 1982 con una lettera aperta, firmata da 21 vescovi, monaci e religiosi, che aveva per scopo "la difesa dell'esistenza spirituale e biologica del popolo serbo in Kosovo e Metohija". La parola "genocidio" fu utilizzata per la prima volta per descrivere la situazione della comunità serba in Kosovo; l'emigrazione serba fu dipinta come una lotta tra il Bene ed il Male, tra il Cristianesimo e l'Islam, una lotta per la sopravvivenza stessa del popolo serbo, che prosegue anche in tempo di pace. La Chiesa Ortodossa proseguì nella sua offensiva e nel sinodo del 20 maggio 1982, rese pubblica una lunga lista di presunti danni a monumenti religiosi, di profanazioni di sepolture, di attentati contro beni ecclesiastici e di aggressioni fisiche commessi dagli albanesi ai danni dei serbi in Kosovo a partire dal 1968. La presa di posizione del gruppo di vescovi, guidati da padre Atanasije Jevtic, un rinomato teologo, provocò delle divisioni in seno alle gerarchie della Chiesa Ortodossa. Nel corso del 1983, l'attivismo dei vescovi si rinforzò. Jevtic stabilì esplicitamente un legame tra il Kosovo e la "questione serba" in tutta la Jugoslavia, anticipando in questo modo le tesi nazionaliste riprese nel 1986 dagli intellettuali dell'Accademia delle Scienze; nel 1984, fece pubblicare un libro nel quale si denunciava "lo stupro di ragazze e di donne anziane nei villaggi e nei conventi" ad opera degli albanesi; un anno dopo, il teologo chiese alle autorità serbe di prendere delle misure "concrete" per risolvere la questione del Kosovo.
La Chiesa Ortodossa riuscì, attraverso questo attivismo, ad invertire la tendenza alla secolarizzazione della società, in atto dall'avvento del regime comunista, e a proporsi con prepotenza sulla scena pubblica; l'occasione fu la posa della prima pietra della nuova cattedrale di San Sava a Belgrado, nel maggio 1985; più di 30.000 persone parteciparono alla liturgia e altre 100.000 si radunarono negli altri luoghi santi della capitale per celebrare l'avvenimento. L'ammissione nel gennaio 1985 di Atanasje Jevtic e di altri vescovi con posizioni radicali sulla questione del Kosovo nell'Associazione serba degli scrittori fu un segno della partecipazione crescente della Chiesa alla vita culturale del paese, oltre che della nascita di un fronte comune Chiesa-intellettuali che spinse la dirigenza politica affermatasi nel 1987 a raccogliere le loro richieste, in un meccanismo di mutuo vantaggio.
Milosevic fu abile a raccogliere le lamentele e le denunce della gerarchia della Chiesa Ortodossa riguardo alla condizione dei serbi del Kosovo, alla "questione serba" e alla mancanza di visibilità della Chiesa negli anni di Tito, guadagnandosi il fondamentale consenso di gran parte delle gerarchie ortodosse. In un'intervista ad una testata giornalistica straniera nel 1989, un vescovo serbo dichiarò: "Finalmente abbiamo un leader che soddisfa i bisogni della nazione serba. Ora la nostra cultura può rivivere, poiché questa nuova generazione di giovani comunisti in Serbia ha più rispetto per la gloria della Serbia medioevale, rispetto ai loro predecessori".
La Chiesa Ortodossa Serba appoggiò le modifiche alla Costituzione del 1974, con le quali fu abolita l'autonomia del Kosovo e seguì la dirigenza politica nel progetto gran-serbo che portò alla tragica disgregazione della Federazione Yugoslava. Dalle più alte gerarchie ortodosse non si levò mai una parola di condanna dei crimini perpetrati nei confronti dei cattolici croati e dei musulmani bosniaci e albanesi. La retorica nazionalista e populista del regime sul genocidio subito dal popolo serbo nel corso dei secoli, fu ispirata, e poi ripresa a gran voce, da quella del clero ortodosso. Nel marzo 1991 il messaggio pasquale del Patriarca Pavle e di tutti i vescovi ai preti ed ai fedeli chiese che l'intero anno venisse consacrato alla memoria e alla reviviscenza delle sofferenze del popolo serbo e della sua Chiesa nel corso degli ultimi 50 anni; l'invito al perdono cristiano era accompagnato dall'elenco dei crimini subiti dai serbi, con cifre che ricalcavano quelle della propaganda del regime.
La tesi della minaccia fondamentalista islamica che incombe sul Kosovo e sulle terre sacre ortodosse è sempre stata sostenuta dalla Chiesa Ortodossa serba, soprattutto nel corso degli anni '90, con l'esplosione del conflitto in Bosnia. La Chiesa ha svolto il ruolo centrale nella propaganda serba che rappresenta gli albanesi del Kosovo come potenziali portatori del più arretrato fondamentalismo islamico, una sorta di testa di ponte della Jihad, la guerra santa. Questa minaccia punterebbe a costituire due stati islamici nei Balcani, la Bosnia-Erzegovina e l'Albania, per assediare nuovamente il cristianesimo. La Serbia è chiamata quindi ancora una volta, come fece nel 1389 a Kosovo Polje, ad ergersi come baluardo della cristianità contro l'avanzare delle "orde islamiche". La "riconquista" del Kosovo ha in questo senso anche una forte valenza religiosa. La resistenza degli albanesi del Kosovo è accusata di essere pilotata da mudjaheddin mediorientali, di essere finanziata dai servizi segreti di paesi come la Libia e l'Iran e di sposare una variante del khomeinismo.
La realtà delle cose è profondamente differente: la maggioranza della popolazione albanese del Kosovo è musulmana, tuttavia l'Islam non ha mai avuto un ruolo costitutivo per l'identità albanese. Nel movimento nazionale per l'indipendenza non sono mai stati presenti i minimi indizi di un risvolto religioso; tutte le rivendicazioni albanesi hanno avuto un carattere esclusivamente nazionale e politico, senza alcun riferimento alla religione. Si può dire che "la religione degli albanesi sia l'albanesità", secondo uno degli slogan dell'ideologia nazionale della Rilindja (Rinascimento) albanese. Per questo motivo nel mondo albanese del Kosovo esiste una elevata cultura della tolleranza religiosa: la minoranza cattolica albanese è numerosa; i monumenti, le chiese e i monasteri ortodossi non sono stati toccati neanche negli anni della più feroce repressione serba.
Nel corso degli anni '90, così come avvenne in Bosnia, anche in Kosovo la Chiesa serbo-ortodossa si spinse su posizioni di nazionalismo estremista. Il 20 maggio 1995 a Gracanica fu proclamato un "Consiglio nazionale" dei serbi. In quella occasione Atanasje Jevtic e Amfilohije Dadovic, metropolita del Montenegro, si presentarono alla riunione insieme al neofascista serbo Vojislav Seselj, a capo di un gruppo paramilitare che si era macchiato di orrendi crimini in Bosnia e che si ripeterà in Kosovo durante i bombardamenti Nato del 1999. Nell'incontro si decise che bisognava spingere la popolazione serba a cacciare 670.000 albanesi poiché questi erano degli estranei, arrivati nel Kosovo soltanto dopo la seconda Guerra Mondiale; al loro posto andavano invece accolti i profughi serbi della Bosnia-Erzegovina.
Per arginare la schiacciante supremazia demografica albanese e aumentare la presenza dei serbi tra la popolazione, la Chiesa Ortodossa è arrivata ad istituire un'onorificenza, la Majka Jugovica, per le madri ortodosse più prolifiche.
La costruzione di nuove chiese ortodosse in Kosovo fu portata avanti per tutti gli anni '90, mentre agli albanesi è stato impedito di costruire nuove chiese e moschee. Soltanto alla fine del 1997, a Pristina, la Chiesa Ortodossa ha tenuto per la prima volta un incontro per la pace e contro la violenza, dopo quasi nove anni di dura repressione contro centinaia di migliaia di cittadini di differente credo religioso.

IL RUOLO E L'USO DEI MASS-MEDIA

I mass-media costituiscono il perno sul quale si regge la macchina propagandistica di Belgrado. La televisione pubblica, controllata dalla coalizione al potere, svolge un ruolo fondamentale nell'orientamento dell'opinione pubblica. In un paese come la Serbia, soprattutto nelle zone rurali e di montagna, in ogni casa, dove convivono diverse generazioni, il televisore rimane acceso tutto il giorno e la propaganda ufficiale viene assorbita, più o meno consapevolmente, dai membri della famiglia. L'opposizione ha poche possibilità di rendere pubbliche le proprie posizioni: molte delle reti televisive locali e delle stazioni radio sono di proprietà delle amministrazioni comunali; la loro area di diffusione si limita in genere alle località dove si trovano e ai loro dintorni. La situazione della stampa indipendente rispecchia una società civile che non riesce ad imporsi sulla scena politica. In teoria i giornalisti godono di una libertà di espressione garantita dalla Costituzione, ma in pratica questa libertà viene tollerata soltanto se la sua diffusione rimane limitata. I mezzi di pressione sono molteplici, e vanno fino all'assassinio di cronisti scomodi e troppo critici nei confronti del regime. Lo stato detiene il monopolio dell'industria tipografica, dell'approvvigionamento della carta e della distribuzione dei giornali; attraverso imprese pubbliche, ancora molto potenti, le autorità manipolano il mercato della pubblicità. Se a questo si aggiunge la considerevole riduzione del potere di acquisto dei lettori, dovuta alla grave crisi economica degli anni '80 e alle sanzioni imposte dagli occidentali nel decennio successivo, si può dedurre quanto poco influente sia la stampa di opposizione in Serbia.
I media pubblici hanno una grave responsabilità nell'affermazione dell'ideologia nazionalista degli anni '80. Il conflitto in Kosovo, così come le guerre che hanno insanguinato la ex-Jugoslavia negli anni '90, è stato costruito scientificamente, con anni di anticipo, attraverso iniezioni di orgoglio, paura e aggressività nella psicologia di massa, dosaggi di adrenalina e veleno, iniettati dalla propaganda mass-mediatica di Belgrado.
A partire dal 1981, i media ufficiali di Serbia, Montenegro e Macedonia fecero proprie le tesi delle "pressioni albanesi" e "dell'emigrazione forzata dei serbi e dei montenegrini dal Kosovo", contribuendo a creare una psicosi di massa. Il periodico della stampa popolare Nin denunciò pesanti discriminazioni subite dalla comunità serba ad opera degli albanesi e chiese che ad esse venisse posto fine. La polizia locale e le autorità comunali e provinciali, dominate dagli albanesi, vennero accusate di negligenza o di complicità, cosa che spiegherebbe la ragione dei pochi reclami presi in considerazione e del ristretto numero di inchieste che individuavano i presunti colpevoli; non avendo fiducia nelle autorità locali, i serbi in gran parte non inoltravano ricorsi ufficiali. In breve tempo la propaganda di Belgrado riuscì a creare un appoggio di massa in tutto il paese nei confronti della comunità serba del Kosovo. L'attenzione dei media si rivolse a tutta l'area di popolazione albanese, con l'obiettivo di costruire nell'immaginario collettivo una concezione criminale dell'etnia albanese. Gli "irredentisti" albanesi vennero associati al più becero nazionalismo, a varie forme di delinquenza, lavoro nero, traffico di armi e di droga, usurpazione di beni. Gli albanesi negarono in blocco le accuse, ma il loro punto di vista fu costantemente ignorato dai media. La stampa serba fu abile a denunciare la psicosi di massa che prese piede nella comunità albanese, in occasione per esempio del sospetto di sterilizzazioni segrete da parte dei medici serbi di bambini e donne albanesi. I media giocarono un ruolo fondamentale nella questione kosovara, sostenendo a gran voce la tesi del "genocidio" subito dai serbi: a questo proposito furono evocate e proposte al pubblico cifre, volutamente gonfiate, a proposito della presunta emigrazione forzata dei serbi. L'importanza del ruolo e dell'uso dei mass-media nel mobilitare le masse serbe è ben rappresentato dal cosiddetto "caso Martinovic" (un contadino serbo del Kosovo orientale che fu ricoverato in ospedale, dove una bottiglia di birra gli venne rimossa dall'ano), che divenne uno scandalo nazionale grazie alla campagna anti-albanese di un giornalista di Nin. La stampa di Belgrado insistette a tal punto nella sua pubblicità a questo caso, che riuscì a farne discutere l'Assemblea federale jugoslava nel luglio 1985 e nel febbraio 1986. Nel corso del 1986 il giornalista di Nin che aveva condotto la campagna sullo scandalo pubblicò un libro di 485 pagine intitolato Slucaj Martinovic ("Il caso Martinovic"); il fatto che fu subito stampato in 50.000 copie può dare un'idea di quale febbre avesse contagiato l'opinione pubblica in Serbia.
Un tema caro ai mezzi di informazione è stata la questione dello "stupro etnico", considerato una delle armi del "genocidio" nei confronti dei serbi del Kosovo. La violenza sulle donne serbe era presentata come un fatto quotidiano, nonostante non ci fosse alcuna prova che confermasse un fenomeno di tali dimensioni. L'unico serio studio su questo tema fu condotto da un comitato indipendente di avvocati serbi e di esperti di diritti umani, nel 1990. Analizzando le statistiche sulle violenze carnali tentate e portate a termine negli anni '80 nella Federazione, si giunse alla conclusione che la frequenza di questo crimine era in maniera significativa più basso in Kosovo che in altre parti della Jugoslavia. Nonostante questo venne introdotto nell'ordinamento un nuovo delitto: la violenza carnale fra persone appartenenti a nazionalità differenti. Sui giornali intanto dettagliati racconti di presunti stupri in Kosovo dipingevano un'immagine mostruosa del maschio albanese ed il giudizio su un intero popolo veniva così determinato dal più umiliante dei crimini, la violenza carnale. Nella propaganda serba questa campagna ha costituito un elemento micidiale per instillare l'odio etnico ed alimentare lo spirito di vendetta. La violenza sulla donna serba, fragile ed innocente, vittima della brutalità albanese, era un'efferatezza che simboleggiava alla perfezione la violazione della "terra santa" del Kosovo, santificata dal sangue degli eroi del passato. Ogni comunissimo conflitto tra serbi ed albanesi fu presentato dai mass-media di Belgrado come conflitto interetnico.
Milosevic seppe abilmente sfruttare a suo vantaggio questa situazione, riuscendo a farsi dipingere dai media come il "difensore" dei serbi in Kosovo. Radio Televisione Belgrado trasmise a più riprese il suo famoso discorso a Kosovo Polje nell'aprile 1987, che gli fece guadagnare una grande popolarità. I media offrirono una sponda all'ala radicale del partito sulla questione kosovara, e si guadagnarono l'appoggio delle masse a risolvere in maniera radicale il problema del "genocidio" compiuto dagli albanesi ai danni dei serbi.
Milosevic seppe utilizzare con maestria l'arma dei media, sul cui appoggio incondizionato potè contare nel suo progetto populista gran-serbo e anti-albanese. La televisione fu il mezzo principale attraverso il quale egli riuscì a farsi acclamare dal popolo come suo Vozd, Duce, interrompendo la lunga "amnesia di stato" sui conflitti etnici e sui crimini commessi ai danni dei serbi, rievocando i nemici pericolosi per il "popolo celeste". Tramite l'opera divulgativa dei media, venne dato grande spazio a cerimonie di carattere storico-simbolico, quale la traslazione dei resti dello zar Lazar, il sovrano serbo caduto nella battaglia di Kosovo Polje; nella messa in atto di questa cerimonia, di grande valenza politica, alcuni analisti hanno intravisto il tentativo di presentare Milosevic quale vivente incarnazione e, pertanto, erede mistico oltre che politico, di uno dei più importanti eroi della tradizione serba. La televisione serba "costruisce miti", in una straordinaria operazione mitologica che coinvolse tutta la macchina propagandistica belgradese, i giornalisti, gli intellettuali di regime, i servizi segreti e i persuasori occulti. La popolazione venne così chiusa in una cappa di disinformazione, che ne alimenta il vittimismo cosmico.
La campagna dei mass-media sul Kosovo ebbe una tempistica ben precisa. Prima si evocarono gli stereotipi etnici: in una rassegna di lettere sul quotidiano Politika, il popolo serbo diventò "popolo celeste", benedetto da Dio ma privato della leadership che gli spetta, umiliato dagli altri popoli. In primo luogo dai musulmani, definiti "parassiti" che succhiano il sangue della nazione; la colpa della bancarotta del paese era da addebitarsi soltanto a loro, non al partito. Fu il segnale che aprì la via alla seconda fase, l'evocazione del sospetto. Nel 1988 troupe televisive belgradesi, d'accordo con la polizia, organizzarono nella più nota rubrica televisiva nazionale, il magazine Zip, lunghi reportages in Kosovo e in Bosnia sui privilegi dei musulmani rispetto ai serbi: strade e scuole migliori, telefoni allacciati prima. Era tutto falso, la televisione di Sarajevo lo dimostrò in pochi giorni, tuttavia in Serbia l'impressione delle masse fu enorme. L'anno seguente segnava il cinquecentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje, e la ricorrenza fu magistralmente utilizzata dai media del regime. Radio e televisioni furono inondate di storia medioevale e di canti patriottici, ed in questo clima di isteria collettiva Milosevic tornò in Kosovo da trionfatore.
Il processo che portò alla revoca dell'autonomia del Kosovo fu accompagnato da una campagna di stampa imponente a favore delle tesi dei nazionalisti, che alcuni mezzi di informazione fecero proprie a partire dai primi anni '80. Il 23 marzo 1989 i media di Belgrado proclamarono che la Serbia aveva finalmente riacquistato la sua sovranità. La macchina propagandistica di Belgrado aveva già iniziato la sua campagna denigratoria dei croati e dei musulmani bosniaci, che raggiungerà il suo apogeo durante la guerra degli anni '90. Gli albanesi del Kosovo furono associati agli altri "nemici" della Serbia; i media si concentrarono soprattutto nello scatenare la psicosi del fondamentalismo islamico che, dalla Bosnia al Kosovo, costituiva una minaccia mortale per il "popolo celeste". Il fatto che alcuni albanesi del Kosovo si arruolassero nelle file dell'esercito croato e di quello bosniaco musulmano contro i serbi fu sfruttato a dovere dai media di Belgrado. La programmata escalation della propaganda governativa fece un ulteriore "salto di qualità" con il richiamo alla memoria storica relativa ai crimini commessi dagli ustascia croati durante la seconda guerra mondiale nei confronti dei serbi; la mobilitazione dei morti fu usata per costruire il panico e quindi l'aggressività. La campagna propagandistica serba mirò a rievocare lo "spettro" del fascismo, ora nuovamente incombente attraverso il regime nazionalista di Zagabria, con i quali gli albanesi del Kosovo erano accusati di essere alleati.
Con l'apparizione della resistenza armata degli albanesi, a partire dai primi attentati del 1996, i media belgradesi ebbero facile gioco nel definire "terroristi" i guerriglieri dell'UCK, anche quando fu chiara la grande adesione di massa di contadini e studenti al movimento di insurrezione ed il carattere prevalentemente di difesa del proprio villaggio dalle incursioni della polizia e dell'esercito serbo. Il popolo serbo fu tenuto costantemente all'oscuro dei crimini commessi nei confronti dei cittadini albanesi sospettati di avere in qualche modo dato supporto alla guerriglia, mentre fu scatenata una violenta campagna di disinformazione sul presunto appoggio del fondamentalismo islamico all'UCK, fenomeno sul quale non si hanno assolutamente riscontri e ampiamente smentito da tutti gli analisti indipendenti. La propaganda di Belgrado, tipica di ogni regime alle prese con un movimento di insurrezione armata all'interno dei confini dello Stato, che rivendica la secessione di una regione, ricalca gli stereotipi ufficiali: l'UCK viene definito una banda composta esclusivamente da terroristi assassini, accecati dal più retrogrado fondamentalismo islamico, irredentisti mafiosi e narcotrafficanti, mentre i reparti speciali della polizia e dell'esercito serbo operano in Kosovo esclusivamente a difesa della terrorizzata popolazione serba, che chiede protezione. In tal modo in tutta la Serbia viene diffusa dai media l'equazione che identifica ogni membro dell'etnia albanese come un potenziale terrorista.

LA MOBILITAZIONE DI MASSA

La politica di lotta contro l'emigrazione dei serbi e dei montenegrini dal Kosovo e a favore della revisione della Costituzione del 1974 è stata appoggiata da una vasta mobilitazione popolare, che si è espressa, dall'estate 1988 alla fine del 1989, con grandi adunate di massa, talvolta di dimensioni impressionanti.
Nonostante il diniego delle autorità serbe, che hanno sempre sostenuto il carattere spontaneo di tali manifestazioni, è evidente che questi grandi raduni popolari non avrebbero potuto assumere proporzioni così ampie senza il sostegno attivo delle autorità ed una totale sinergia dei sindacati, dell'amministrazione e delle imprese, con l'obiettivo di assicurare i trasporti e l'organizzazione pratica degli eventi. Si è trattato di un fenomeno esclusivamente serbo-montenegrino, che l'opposizione delle autorità federali e di quelle delle altre Repubbliche ha impedito di estendersi alle altre regioni della Federazione jugoslava popolate dai serbi, la Bosnia e la Croazia.
I raduni furono organizzati inizialmente dal Comitato dei Serbi e dei Montenegrini del Kosovo; dopo la sua dissoluzione, avvenuta il 6 ottobre 1988, furono i comitati locali dell'Alleanza socialista ad assumersi questo compito. Durante tutta l'estate del 1988, dimostrazioni di piazza, chiamate mitinsi (dall'inglese meetings) furono tenute in tutta la Serbia, nelle quali veniva chiesto il ritorno di Kosovo e Vojvodina sotto il controllo totale serbo. La campagna del 1988 si concluse a Belgrado con un meeting che, secondo gli organizzatori, avrebbe riunito un milione di partecipanti, e al quale i media governativi diedero ampio spazio.
Al di là della facciata ufficiale, di sostegno ai serbi del Kosovo ed al disegno politico della dirigenza di ridurre l'autonomia delle province, la grandi manifestazioni di massa furono utilizzate, nel contesto di una lunga crisi economica che le autorità si dimostravano incapaci di risolvere, per veicolare anche le rivendicazioni di una popolazione impoverita e scontenta. Milosevic sfruttò la componente antiburocratica del suo programma populista, che prometteva una soluzione alla crisi, secondo il teorema che la tematica socioeconomica era subordinata a quella nazionale, ma non doveva venire eliminata da quest'ultima.
I mitinsi costituiscono uno dei fenomeni più evidenti del risorgere del nazionalismo serbo, i cui temi centrali vennero sviluppati nel corso di questi grandi bagni di folla, dedicati alla questione del Kosovo. Questi raduni, quasi quotidiani, caratterizzati da una ricca iconografia nazionalista e religiosa, divennero uno strumento politico fondamentale del nuovo leader Milosevic. La mobilitazione di massa istigava alla guerra: slogan quali "dateci le armi" e "a morte gli albanesi" erano tra quelli scanditi con maggiore veemenza, trasmessi regolarmente dalla televisione e dagli altri mezzi di informazione. Milosevic viene considerato come una sorta di "inventore" dei mitinsi, anche se questi erano presentati come adunate di massa spontanee. A suggerirgli questo metodo di lotta politica furono proprio i dirigenti serbi del Kosovo, che nel 1986 avevano per due volte portato circa 1000 persone a Belgrado, per protestare contro i vertici dello stato e del partito; i manifestanti accusavano gli albanesi di volerli cacciare dai loro villaggi, le autorità del Kosovo di parteggiare con gli irredentisti e di aver abbandonato i serbi al loro destino. Già dimostratosi abile a raccogliere il consenso delle masse il 24 aprile 1987, con il suo famoso discorso alla comunità serba del Kosovo, Milosevic perfezionò questo metodo una volta salito al potere e, affiancato dalle organizzazioni del partito, della polizia e dell'esercito, lo trasformò in una efficace arma politica, facendo del Kosovo il suo cavallo di battaglia. In alcuni casi, le adunate di massa ebbero dei risultati immediati, come quando, dopo due giorni di manifestazioni ininterrotte, il 6 ottobre 1988, il comitato centrale della Lega dei comunisti di Vojvodina, su pressione della Lega dei comunisti di Serbia, revocò la presidenza provinciale del partito. Il Kosovo rimase esposto agli attacchi della dirigenza serba, che puntava all'allontanamento dei funzionari albanesi della Lega dei Comunisti locale, che continuavano ad opporsi ai progetti di revoca dell'autonomia. Raduni di massa, organizzati dal regime, si svolsero a Belgrado, in altre città della Serbia e del Kosovo; l'apparato statale organizzò l'arrivo dei manifestanti, ai quali vennero messi a disposizione gratuitamente treni e autobus speciali. Alle proteste di piazza degli albanesi, guidati dai minatori, che il 17-18 novembre manifestarono a Pristina in un numero che fu stimato in circa 100.000 unità, in seguito alla destituzione di due leader albanesi nel partito, la macchina del regime replicò con un grande contro-raduno a Belgrado il giorno successivo, che raccolse almeno 350.000 persone.
Nel corso dei primi mesi del 1989, le autorità di Belgrado organizzarono grandi adunate di massa, a sostegno dei minatori serbi del complesso di Trepca, in Kosovo, scesi in sciopero a causa dell'accettazione, da parte delle autorità, delle rivendicazioni dei minatori e dei lavoratori albanesi, che avevano paralizzato la provincia con uno sciopero generale. Il 1° marzo, a Belgrado, venne organizzata una manifestazione imponente, nella quale furono ribadite le rivendicazioni dei minatori serbi. In Serbia, Vojvodina e Montenegro, furono organizzati circa 200 raduni di questo tipo, con toni violentemente anti-albanesi. Sotto questa pressione enorme, le concessioni agli scioperanti albanesi furono annullate, e Belgrado ebbe via libera per dichiarare lo stato di emergenza in Kosovo e per fare votare al Parlamento regionale gli emendamenti alla Costituzione, che annullavano di fatto la sua autonomia. L'appoggio delle masse popolari, indottrinate attraverso la propaganda ufficiale e pronte a scendere in piazza a sostegno dei "fratelli" del Kosovo, fu quindi un tassello fondamentale del disegno della dirigenza politica belgradese.
Il 28 giugno 1989, nell'occasione del 500° anniversario della battaglia di Kosovo Polje, la piana a nord di Pristina, fu invasa da più di un milione di persone, ammassate intorno alla torre di pietra, per commemorare l'evento che viene considerato dal nazionalismo serbo come la causa di tutte le sofferenze sofferte dal suo popolo. L'apparato dirigente riuscì ad orchestrare in maniera esemplare una manifestazione di massa che vide partecipare gente proveniente da tutta la Serbia: giovani, anziani, famiglie, uomini dell'apparato burocratico; tra loro vi era anche l'anziano patriarca serbo-ortodosso German, con un'imponente delegazione di vescovi e metropoliti. L'organizzazione fu perfetta: questo vidov dan, il giorno del venerato S. Vito, costituì l'occasione ideale per l'apoteosi personale di Milosevic; l'adulazione che ricevette il leader serbo in quell'occasione è paragonabile soltanto, nell'esperienza jugoslava, al culto di Tito. Tra migliaia di poster e foto del capo, il discorso che Milosevic tenne in quell'occasione non diede alcuna speranza di riconciliazione agli albanesi, che non furono nemmeno menzionati. I leaders serbi del passato furono attaccati pesantemente e la dirigenza politica attuale fu presentata come quella che aveva finalmente riunito la Serbia, con la "riconquista" del sacro suolo del Kosovo, dopo la revoca dell'autonomia del marzo precedente. "È giunto il momento in cui, in piedi sui campi del Kosovo, possiamo dire apertamente e chiaramente ­ mai più!"; con queste parole, Milosevic volle sottolineare l'importanza della vittoria ottenuta dai serbi in Kosovo. Egli concluse il suo intervento con delle parole divenute tristemente profetiche: "Oggi, sei secoli dopo, stiamo ancora combattendo delle battaglie; non sono battaglie armate, sebbene queste non possano essere escluse". Intanto la folla, trascinata dal fanatismo nazionalista, intonava l'inno del trionfo serbo, una canzone degli anni 1912-13, quando i serbi cacciarono i turchi dalla Serbia meridionale e dall'attuale Macedonia: "Suona più forte, eroe e fratello, è tornata serba la Piana dei Merli".

 

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