LE GUERRE BALCANICHE 1912-1913
RECENSIONE ALLA RACCOLTA DI TESTI DI LEV TROTSKY


febbraio 2000, di Michele Corsi


La raccolta

Il libro (Lev Trotsky Le guerre balcaniche 1912-1913, edizioni Lotta Comunista, Milano, 1999) che presentiamo raccoglie gli scritti di Trotsky sulle guerre balcaniche, in gran parte redatti come corrispondente di guerra del Kievskaja Mysl' ("Il pensiero di Kiev"), definito da Trotsky "giornale radicale con venature marxiste" (1) al quale aveva cominciato a collaborare dal giugno 1908, per mantenersi a Vienna dove si trovava in esilio. Scriverà nella sua autobiografia: "Naturalmente in un giornale pubblicato legalmente e che non apparteneva al partito, non potevo dire tutto quello che avrei voluto dire. Ma non scrissi mai quello che non volevo dire" (2).
La raccolta, tradotta per la prima volta in italiano, riproduce un analogo volume nell'originale russo (uscì nel '26) che costituiva il sesto volume delle opere complete di Trotsky, serie interrotta dall'avvento dello stalinismo. Il volume è integrato da altri materiali tra i quali corrispondenze per giornali (come il Den' di Pietroburgo, quotidiano della sinistra liberale), interventi a congressi, ecc. riguardanti le guerre balcaniche. Il libro non ordina gli articoli in maniera utile (cioè cronologica) a comprendere i passaggi del pensiero di Trotsky e la progressione dell'impatto che la guerra ebbe su di lui, avendo preferito il curatore un raggruppamento per "argomenti".
Trotsky ci restituisce un quadro vivissimo delle guerre balcaniche e il libro costituisce anche un'ottima lezione sul mestiere di "corrispondente". Trotsky applica una tecnica di indagine inesorabile che scandaglia varie figure sociali, cogliendo di queste i tratti psicologici e politici essenziali; incontra e interroga il povero contadino così come l'ufficiale, il ministro ed il rivoluzionario, l'ebreo e il turco, gente altolocata e miserabili delle periferie. Il tutto con notevoli capacità narrative (si legga a mo' di esempio "Una visita in Dobrugia" da pag.373).

Trotsky si trovava all'epoca in una fase di forte opposizione a Lenin visto da lui come il "colpevole" della scissione (formalizzata nel gennaio 1912) del Partito Socialdemocratico Russo. Proprio al fine di riunificare menscevichi e bolscevichi Trotsky aveva organizzato nell'agosto del 1912 una conferenza che fu però disertata dai bolscevichi. Trotsky si trovò così in compagnia dei soli menscevichi coi quali, dal punto di vista delle posizioni politiche, condivideva assai poco. Scriverà nella sua autobiografia:

"La Kievskaja Mysl' mi propose di andare nei Balcani come corrispondente di guerra. Era una proposta tanto più gradita in quanto la conferenza di agosto si era conclusa con un aborto. Sentivo il bisogno di sottrarmi, almeno per qualche tempo, alle faccende dell'emigrazione russa. Alcuni mesi passati nella penisola balcanica in tempo di guerra furono per me un grande insegnamento"(3).

Trotsky nei Balcani

Trotsky era stato solo per brevi periodi nei Balcani a partire dal 1910, in particolare a Sofia e Belgrado (alcune sue impressioni su questi viaggi sono riportate nella prima parte del libro): sono dunque questi i suoi due punti di riferimento geografici. In complesso si occuperà di Balcani per un anno, ma con vari e prolungati ritorni a Vienna, anche se dai suoi biografi e dallo stesso libro non è facile dedurne con precisione gli spostamenti.

È certo che Trotsky entra in Serbia all'inizio dell'ottobre 1912 e prosegue subito per Sofia, in Bulgaria, dove soggiorna sino alla fine di novembre. È precisamente ad ottobre che scoppia la prima guerra balcanica che vede Serbia, Bulgaria e Grecia unite contro l'Impero Ottomano che dominava ancora una parte consistente dei Balcani (le regioni attualmente occupate da Albania, Kosova, Macedonia, nord della Grecia, sud della Bulgaria). All'inizio di dicembre Trotsky è a Belgrado dove permane sino alla fine del mese, periodo in cui si firma un armistizio, presto rotto a gennaio con la ripresa della guerra. Nell'aprile del 1913 Trotsky è in Bulgaria. Nel maggio 1913 si arriva ad un accordo di pace a Londra che sancisce i rapporti di forza usciti dalla guerra, con qualche compensazione: alla Serbia va Kosova e parte della Macedonia, alla Grecia la parte meridionale della Macedonia, alla Bulgaria parte della Tracia. Viene creato anche il principato indipendente dell'Albania. Nel giugno dello stesso anno la Bulgaria, insoddisfatta per non aver avuto la Macedonia per la quale era entrata in guerra, attacca la Serbia dando inizio alla seconda guerra balcanica. Greci, serbi, romeni e turchi si coalizzano contro la Bulgaria costringendola alla resa nel giro di un mese. Trotsky è in Romania a luglio e poi a settembre. Diciamo che Trotsky, per gli impedimenti di censori e militari contro i quali non smetterà mai di protestare, non fu un corrispondente di prima linea, ma era sul posto quando scoppiavano gli avvenimenti essenziali e grazie ai suoi pressanti interrogatori di prigionieri, feriti, reduci, ecc. si ha un'idea molto viva anche di cosa era il fronte e di cosa vi accadeva.

Il metodo: l'importanza delle dinamiche nazionali

Da questo libro possiamo ricavare utili dati storici (non solo sulla guerra, si vedano ad esempio le note sulla natura, le potenzialità e i limiti strutturali dei partiti socialisti balcanici), ed anche insegnamenti di metodo, essenziali tra l'altro per capire oggi come interpretare le vicende balcaniche, ma più in generale come affrontare la questione nazionale. Ci dilungheremo qui di seguito su quest'ultimo aspetto, avendo ben presente che proprio lì si situano le difficoltà interpretative (a dir poco) nelle quali si é imbattuta la sinistra del nostro Paese nel dover approcciare le guerre balcaniche degli anni novanta.
Nell'analisi della realtà balcanica Trotsky utilizza costantemente due piani interpretativi: quello nazionale e quello di classe. Non li sovrappone, non stabilisce ordini di importanza, non li mescola. Dà per scontato, si direbbe, che la questione nazionale goda di una propria autonomia e concorra al pari delle determinazioni economiche a spiegare gli avvenimenti storici.
Un ottimo esempio di questo approccio é costituito dalla breve ma brillante esposizione della dinamica che portò alla rivoluzione dei "giovani turchi". Le categorie di nazione e lotte nazionali vengono utilizzate per spiegare il corso della rivoluzione:

"I Giovani Turchi tuttavia si sono recisamente rifiutati di seguire questa strada [quella di uno stato federale]. Rappresentando la nazionalità dominante [corsivo nostro n.d.r.] e avendo il controllo dell'esercito nazionale, aspirano a essere e restare dei nazionalisti-centralisti" (p.33).

Le dinamiche nazionali e di classe portano questo particolare ceto di intellettuali ad essere l'espressione allo stesso tempo della borghesia e della nazionalità dominante. Ma proprio per non essere riusciti a dare risposte sui due piani, tre anni più tardi Trotsky scriverà:

"Dai racconti dei prigionieri appare in tutta evidenza il grado di disgregazione al quale è giunto il corpo degli ufficiali turchi. Elevati al potere da un'ondata di generale malcontento, gli ufficiali si sono immediatamente posti in contrasto con i gruppi culturalmente più avanzati del paese, cioè con l'insieme della popolazione cristiana. Non hanno degnato della benché minima attenzione le questioni sociali e si sono di conseguenza isolati dalle masse. Eccoli dunque trasformati in una casta di potere che ordisce in segreto le proprie trame, condannata all'inevitabile degenerazione e al decadimento interno" (p.217).

Il metodo utilizzato dunque è quello di considerare come attori dei cambiamenti sociali non solo le classi, ma anche le nazioni. Un'abitudine che era data per scontata dal marxismo classico, ma che purtroppo è andata completamente perdendosi. Naturalmente le questioni nazionali non sono le uniche determinanti nella congiuntura turca: "Dopo (corsivo nostro n.d.r.) quella nazionale s'affaccia la questione sociale" (p.33) dove Trotsy descrive la questione contadina, quella operaia, ecc. E sintetizza con una frase quello che dovrebbe essere l'approccio costante di un metodo interpretativo che vuol essere materialista senza scadere nel meccanicismo:

"Implacabilmente essa [la storia] suscita lo scontro tra le forze vive del paese, attraverso aspre lotte, le costringe a produrre una risultante"(p.35).

L'importanza della questione nazionale emerge chiaramente anche nelle innumerevoli pagine dedicate a singole nazionalità: quelle indignate contro la discriminazione degli ebrei (la visita al quartiere di Juc-Bunar di Sofia, pp.235-239 e il pezzo sulla "questione ebraica" in Romania dove gli ebrei costituivano 1/3 degli abitanti della città e a proposito dei quali Trotsky critica l'Unione degli Ebrei Romeni, perché capitolarda proprio sul piano dei diritti nazionali, pp.348-356), quelle ammirate nei confronti dei volontari armeni che agli ordini del "leggendario" Andranik combatterono al fianco dei bulgari una guerra un po' meno sporca (pp.261-270, mentre la "questione armena" é affrontata alle pp.253-261), quelle incuriosite dedicate ai rivoluzionari macedoni (pp.246-252). Altre pagine vibranti sono dedicate alla denuncia di spartizioni territoriali che prescindevano totalmente dalla volontà dei popoli, come fu il caso dei bulgari del "Qadrilatero" della Dobrugia passati sotto la Romania, quando questa aveva "assalito alle spalle" la Bulgaria durante la seconda guerra balcanica, o dei macedoni per i quali i contadini bulgari avevano combattuto ed erano morti a migliaia (come gli stessi macedoni), per ritrovarsi con una terra passata dall'occupazione turca a quella greca e serba (pp.322-326).

Ma Trotsky non si limita ovviamente all'indignazione. Da ciò che osserva fa derivare delle conseguenze politiche, e quando scrive a proposito dei socialisti romeni assegna loro compiti che riguardano anzitutto le questioni nazionali irrisolte:

"Solo il partito dei lavoratori della Romania attribuisce alla questione ebraica la debita importanza. Esso ne fa una questione di lotta per la democrazia, inseparabile dall'abolizione del dominio politico ed economico dell'oligarchia semifeudale. Oltre al partito dei lavoratori non esiste in Romania un'altra forza democratica, organizzata e cosciente dei propri compiti. Ma questo non significa l'isolamento del partito socialista. Al contrario, al partito si pone l'obiettiva necessità di assumere la guida di tutti quei soggetti oggi politicamente passivi, la cui esistenza e sviluppo sia però incompatibile con l'attuale regime. Sono innanzitutto i contadini romeni scossi nel profondo dalla guerra, poi le masse lavoratrici ebree che l'Unione sul terreno dell'illusione politica e delle umiliazioni; infine la popolazione democratica della Dobrugia, la quale domani o dopodomani dovrà preoccuparsi di decidere l'atteggiamento da tenere nei confronti dell'ordine politico vigente in Romania"(p.340).

Piccoli imperialismi

È interessante anche l'uso che Trotsky fa del termine "imperialismo", più tardi utilizzato da gran parte dei marxisti solo nella sua accezione economica (per cui "imperialisti" sarebbero solo i Paesi industrialmente avanzati che godono di un surplus dovuto allo sfruttamento dei Paesi capitalisti dipendenti). Trotsky utilizza il termine anche per designare quelle piccole potenze che, pur essendo capitaliste dipendenti (diremmo noi oggi, ma all'epoca Trotsky le chiamava "arretrate"), hanno una politica espansionista "non nazionale", intendendo con ciò uno stato che non ha come obiettivo l'unificazione nazionale (obiettivo considerato legittimo), ma la conquista territori dove risiedono altre nazionalità. Così Trotsky definisce "imperialismo" quello greco ("quello di più antica data"), il romeno e il bulgaro. E quello serbo:

"si è dimostrato assolutamente incapace di procedere lungo la via normale, vale a dire nazionale. L'Austria-Ungheria racchiudeva nei suoi confini più della metà dei Serbi e sbarrava la strada alla Serbia. Essa ha quindi puntato verso la via più facile, cioè in direzione della Macedonia. Le conquiste nazionali decantate dalla propaganda serba sono state in realtà pressoché insignificanti. Più ampie appaiono invece le conquiste territoriali fatte dall'imperialismo serbo. I suoi confini racchiudono ora mezzo milione circa di Macedoni, oltre al mezzo milione di Albanesi che già imprigionavano. Che strepitoso successo! Bisogna però aggiungere che quel milione di cittadini ostili potrebbe dimostrarsi fatale per l'esistenza della Serbia storica..." (p.321).

La questione balcanica

Trotsky vede l'origine dei problemi balcanici nell'intrecciarsi di due fattori: l'irrisolta questione nazionale e le manovre delle potenze europee tese a far sì che questi problemi continuassero a rimanere insoluti, perché nazioni frammentate producevano stati fragili e dunque più controllabili:

"[nella questione d'Oriente] bisogna distinguere due aspetti: il primo è quello delle relazioni fra le nazioni e gli stati della penisola balcanica, il secondo è quello del conflitto degli interessi e degli intrighi delle potenze capitalistiche europee nei Balcani. Le due questioni non coincidono. [...] Le frontiere di questi piccoli stati della penisola balcanica sono state disegnate non in relazione alla conformazione geografica o alle necessità delle nazioni, ma come risultato di guerre, intrighi diplomatici e interessi dinastici" (p.58). I serbi ad esempio "sono dispersi in cinque stati diversi".

Il significato della guerra dei Balcani

Sulla base del metodo di cui sopra Trotsky cerca di dare una caratterizzazione della guerra dei Balcani. Il suo significato nel proporsi iniziale é progressista, ma le direzioni imperialiste degli eserciti slavi distorcono questo potenziale:

"L'attuale guerra nei Balcani esprime l'aspirazione del frammentato slavismo balcanico a una qualche forma di aggregazione che fornisca basi più ampie allo sviluppo economico e politico. In ultimo, a questa aspirazione non ci si può opporre, essa è storicamente progressiva e suscita la simpatia della massa del popolo sia dell'Europa occidentale che orientale" (p.160). "La guerra balcanica ha cause profonde, radicate nelle contraddizioni economico-nazionali e statali di questa sorprendente penisola, benignamente favorita dalla natura e crudelmente mutilata dalla storia. Lo sviluppo economico ha accresciuto il senso di identità nazionale e stimolato l'esigenza di autodeterminazione nazionale e statale. […] Sarebbe sbagliato ritenere che la guerra sia stata fomentata artificialmente dall'alto. No, I'iniziativa del governo si è incontrata a metà strada con un'ondata di sentimenti patriottici dal basso" (p.171).

La questione nazionale spiega di nuovo lo stato d'animo dei due principali eserciti che si scontrano nella prima guerra balcanica:

"Certo è però che i soldati bulgari giudicano questa guerra giusta e necessaria. L'hanno fatta propria. Questo è il fatto fondamentale. Per loro, la memoria dell'antico dominio turco è ancora molto vivo, più di quanto non sia il ricordo della servitù della gleba per il contadino russo. E nel paese confinante, in Macedonia, quel dominio è ancora in piedi. Il flusso dei rifugiati macedoni impedisce ai Bulgari l'oblio, anche per un solo giorno. Il terribile fardello del militarismo è stato accettato da tutti i Bulgari,fino all'ultimo contadino. Sono convinti che il fardello sia stato caricato sulle loro spalle dalla Turchia, e in particolar modo dal regime dispotico vigente in Macedonia" (p.216).
"L'esercito turco mostra un'immagine diversa. Non ha obiettivi popolari in questa guerra, che possano suscitare nelle masse un sacrificio volontario. L'esercito è stato del resto strumento di un sommovimento rivoluzionario che non ha arrecato alcun beneficio al popolo. [...] I Giovani Turchi hanno arruolato Bulgari, Greci e Armeni nell'esercito. Nel contempo, diventati i signori dell'impero, hanno fatto tutto quello che era in loro potere per indurre la popolazione cristiana, che di quell'impero era suddito, a odiare il nuovo regime come quello vecchio. Oltre a ciò, I'inclusione dei cristiani nell'esercito ha minato la convinzione che l'Islam sia il solo e unico vincolo morale fra Stato ed esercito. Nella mente del soldato musulmano si è dunque insinuata la piùgrave incertezza spirituale" (p.217).

La prima guerra balcanica però non può essere definita di "liberazione", poiché fin da subito insieme agli elementi progressivi di autodeterminazione erano intrecciati, a causa delle direzioni politiche che questi popoli si ritrovavano, a obiettivi imperialisti. Dunque la seconda guerra balcanica che palesemente non aveva nulla di progressivo, si presentava comunque come logico sviluppo delle premesse poste dalla prima:

"L'emancipazione dei contadini macedoni dalla sudditanza al latifondista feudale era indubbiamente un fatto necessario e storicamente progressivo. Ma questo compito è stato intrapreso da forze che avevano a cuore non gli interessi dei contadini macedoni, ma i loro avidi interessi di conquistatori dinastici e di predatori borghesi" (p.281).

Il bilancio complessivo delle guerre balcaniche é perciò assai critico:

"Va dunque detto che i nuovi confini della penisola balcanica, a prescindere da quanto possano reggere, sfregiano e lacerano i corpi palpitanti di nazioni totalmente dissanguate, esauste. Nessuna di queste nazioni balcaniche è riuscita a rimettere assieme i cocci dispersi. Nello stesso tempo ognuno degli Stati balcanici, Romania compresa, racchiude oggi nei propri confini una compatta, ostile minoranza. [...] Sono questi i frutti di una guerra che ha divorato fra caduti, feriti e morti per malattie almeno mezzo milione di uomini, senza risolvere neppure uno dei problemi fondamentali dello sviluppo balcanico" (p.321).

Le atrocità della guerra

L'impatto con la guerra é per Trotsky sconvolgente. Come giustamente osserva Broué "all'inizio di un secolo che per molti sarebbe stato quello guerre e delle rivoluzioni, il giovane rivoluzionario, al pari del resto del della maggior parte degli uomini della sua generazione, non aveva mai visto la guerra" (4). Lo stesso Trotsky scrive in questa raccolta:

"La concezione astratta, moralistica, umanitaristica dei processi storici è del tutto sterile. Lo so perfettamente. Ma questa massa caotica di acquisizioni materiali, di costumi, di abitudini e di pregiudizi che chiamiamo civilizzazione ci ipnotizza, ci ispira una falsa fiducia nell'idea che l'umano progresso abbia già realizzato le conquiste maggiori. D'un tratto, la guerra ci rivela che procediamo ancora a quattro zampe e che non siamo tuttora usciti dal grembo dall'era barbarica della nostra storia. Abbiamo imparato a portare le giarrettiere, a scrivere intelligenti articoli progressisti, a il caffè e la cioccolata Milka. Ma quando si tratta di affrontare seriamente il problema della convivenza di poche tribù in una fertile penisola dell'Europa, non sappiamo escogitare altro metodo che il reciproco sterminio su scala di massa" (p.160).

Alcune corrispondenze di Trotsky ci rimandano subito alle più recenti vicende balcaniche. Trotsky ad esempio riporta in prima persona il racconto di un combattente serbo, che, parlando della conquista del Kosova, descrive le atrocità dei suoi commilitoni. Da un amico serbo apprende invece gli orrori della pulizia etnica antialbanese in Macedonia (nella corrispondenza "Dietro la cortina, i crimini dello sciovinismo" p.146). Trotsky si indigna per la sorte dei prigionieri turchi, spesso eliminati fisicamente (p.202) e a Stip, in Bulgaria, rimane impressionato dal racconto di un interlocurore che narra di come

"le abitazioni dei Turchi e degli Ebrei, cioè metà della popolazione, sono abbandonate. Tutti i negozi e le case di questa zona della città sono state saccheggiate e persino distrutte. I furti e gli assassini sono all'ordine del giorno. [...] Ti si spezza il cuore nel vedere pacifici contadini turchi assassinati senza una ragione, derubati delle loro proprietà, le mogli e i figli ridotti alla fame; fra Radovise e Stip circa duemila rifugiati turchi, in gran parte donne e bambini, sono morti di fame, letteralemente di fame" (p.208).

Trotsky condusse una vigorosa campagna contro la congiura del silenzio dei giornali russi che tendevano a mettere a tacere, in nome della "solidarietà slava" i crimini da "pulizia etnica" di bulgari e serbi a danno di albanesi e turchi. Per questo Trotsky attaccò l'ideologia panslavista, copertura ideologica degli interessi nazionali russi (p.52, p.57). Dalla sua autobiografia leggiamo:

"Nei miei articoli impegnai una battaglia contro la impostura slavofila, contro lo sciovinismo in genere, contro le illusioni della guerra, contro i metodi scientificamente organizzati di imbottimento dei crani. La redazione della Kievskaja Mysl' ebbe il coraggio di pubblicare l'articolo in cui raccontavo le atrocità commesse dai bulgari contro i prigionieri turchi feriti e denunciavo la congiura del silenzio della stampa russa. Ne seguì un'ondata di indignazione sulla stampa liberale. Il 30 gennaio [1912 n.d.r.] presentai a Miljukov una interpellanza "extraparlamentare" sugli atti di barbarie commessi da "slavi" contro turchi. Con le spaIle al muro, Miljukov, difensore istituzionale della Bulgaria ufficiale, cercò inutilmente di trarsi d'impaccio con balbettamenti. La polemica durò alcune settimane. Era inevitabile che i giornali governativi insinuassero che dietro lo pseudonimo di Antid Oto si nascondeva non un emigrato, ma un agente dell'Austria-Ungheria" (5).

In questa interrogazione Trotsky scriveva:

"[di fronte alle atrocità] non avete per caso concluso che i Bulgari in Macedonia e i Serbi nella vecchia Serbia, nella loro premura di correggere le cifre delle statistiche etniche e a dire il vero non molto favorevoli a loro, si siano dedicati, per dirla schietta, a uno sterminio sistematico della popolazione musulmana nei villaggi, nelle città e nei distretti?" (p.409)

E conclude con una argomentazione che sarebbe molto utile leggesse chi si é tappato gli occhi di fronte alle pulizie etniche di quei regimi che non si sa a che titolo vengono considerati da certa sinistra più "progressisti" di altri (la Serbia contro i kosovari, la Russia contro i ceceni):

"Che senso ha sollevare la questione di fatti anomali in un periodo anomalo di transizione, proprio adesso che la guerra è finita e il dispotismo turco è stato liquidato? chiede il signor Miljukov. Che senso ha questo alzare la voce contro le atrocità bulgare e serbe? Questa piccola domanda [...] rivela con evidenza, chiarezza ed efficacia l'invalicabile abisso politico che divide il mondo dei Miljukov dal nostro. Noi politici e giornalisti socialdemocratici spesso dobbiamo impiegare uno stile popolare per far capire alle larghe masse dei lavoratori i più semplici avvenimenti politici e sociali. Ma non riteniamo sia necessario spiegare che senso ha una protesta contro uomini trionfanti che schiacciano sotto i loro stivali vecchie e bambini (p.415) [...] Ci sono persone capaci di darsi una oggettivistica grattata di naso, mentre uomini ebbri di sangue, aizzati dall'alto, massacrano gente indifesa. Individui, gruppi, partiti o classi capaci di fare ciò sono condannati dalla storia a marcire e a essere divorati vivi dai vermi. Viceversa: un partito o una classe che con forza e senza esitazioni (come un organismo vivente reagisce per proteggersi gli occhi quando sono minacciati da un pericolo esterno) si solleva contro ogni azione abominevole dovunque essa venga compiuta, un tale partito o classe è intimamente sano" (p.416).

La federazione balcanica

Quale soluzione vede Trotsky per la questione balcanica? Due i suoi nemici: le potenze europee, e di qui dunque la sua parola d'ordine della non interferenza, e poi, in maniera sempre più chiara a mano a mano che procede la guerra, le direzioni imperialiste degli stati balcanici. La soluzione é quella della formazione di una "Federazione democratica dei Balcani". È bene precisare la natura sociale della federazione a cui pensava Trotsky: questa doveva servire sostanzialmente a rispondere alla questione nazionale, inquadrata dai marxisti dell'epoca, come una questione "democratica", e dunque di urgenza immediata.
Trotsky, conscio della debolezza del movimento operaio ed anche desideroso di battersi per obiettivi che fossero se non realistici, per lo meno percepiti come tali da larghe masse, dunque nemmeno accennò ad una federazione socialista dei Balcani.

"L'unica via d'uscita da questa sanguinosa confusione balcanica, da questo caos di Stati e nazioni, è l'unione di tutti i popoli della penisola in una sola entità economica e politica, fondata sull'autonomia nazionale delle parti costituenti. […] Solo uniti, questi popoli possono respingere le vergognose pretese dello zarismo e dell'imperialismo europeo. L'unità statale della penisola balcanica può essere raggiunta in due modi: dall'alto, mediante l'espansione di un solo Stato balcanico, il più forte, a spese dei più deboli. È questa la strada che porta alla guerra di sterminio e all'oppressione delle nazioni più deboli, e che consolida le monarchie e il militarismo. Oppure dal basso, con l'unione dei popoli stessi: è questa la strada che porta alla rivoluzione, all'espulsione delle dinastie balcaniche e ad alzare la bandiera della repubblica federale balcanica"(p.59).

Che dire di questa posizione? Certo, é facile oggi ironizzare sul realismo o meno di questa parola d'ordine, visto gli avvenimenti di questo secolo. In realtà i due tentativi di riunire alcuni popoli balcanici in una federazione sono falliti nel sangue e nella tragedia ed hanno costituito la copertura (con la prima Jugoslavia in maniera drammaticamente evidente, un po' meno con quella di Tito) della dominazione nazionale serba. Ma se guardiamo una carta etnica della regione all'epoca di Trotsky (6) ci accorgiamo che la sua frammentazione non era molto diversa da quella della Bosnia prima della pulizia etnica, ed anche la Turchia era largamente multietnica. Dunque all'epoca era abbastanza difficile immaginarsi una prospettiva di formazione di stati nazionali, senza pulizia etnica. Così come ieri siamo stati favorevoli ad una Bosnia multietnica perché non divisibile secondo linee nazionali, allo stesso modo era allora ragionevole prospettare una federazione balcanica. Oggi le cose sono molto diverse. I Balcani non sono più etnicamente a macchia di leopardo. Decenni di guerre hanno raggruppato le nazionalità, mentre alcune sono letteralmente sparite (ad esempio gli ebrei). Nei Balcani una politica democratica oggi deve chiedere il completamento del processo di formazione degli stati nazionali, processo possibile senza pulizie etniche. Non é la dispersione della nazione albanese ad esempio ad impedire la sua unificazione, ma solo la volontà delle grandi potenze e degli imperialismi balcanici: gli albanesi di Macedonia, del Kosova e dell'Albania infatti abitano un territorio contiguo, ma diviso da confini imposti. Solo se si risolveranno le questioni nazionali pendenti (divisione della nazione ungherese, di quella albanese, di quella turca, tra le altre) si potrà uscire dalla "sanguinosa confusione balcanica".


(1)Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.232
(2)Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.232
(3)Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.229
(4) Pierre Broué La rivoluzione perduta Vita di Trockij, Bollati Boringhieri, Torino,1991, p.117
(5) Lev Trotsky La mia vita Mondadori, Milano, 1976, p.230
(6) ve n'é una precisa e dettagliata riferita al 1900 in Paul Robert Magocsi Historical Atlas of East Central Europe University of Washington Press, 1993