L'URBANITA' COME ALIBI
CAMPAGNA CONTRO CITTA' COME CHIAVE DI INTERPRETAZIONE DEI CONFLITTI BALCANICI?


febbraio 2000, di Boris Buden, traduzione dal francese di Cinzia Garolla

 

Boris Buden, nato in Croazia nel 1958, dirige "Bastard", il supplemento teorico della rivista croata di opposizione "Arkzin". Ha pubblicato a Zagabria nel 1997 il volume "Bastard II" e ha tradotto in croato, tra gli altri, Freud, Adorno, Lyotard e Dahmer. Ha pubblicato saggi in diverse riviste: quello qui tradotto è apparso in "Transeuropéennes", n. 10, 1997. Alcuni suoi testi sono disponibili su Internet all'indirizzo http://www.arkzin.com/bb/index.htm.



Il movimento di rivolta che ha fatto scendere nelle strade gli abitanti di Zagabria nel novembre del 1996 obbediva a un principio di esclusione interno alla Croazia: gli abitanti delle città contro quelli delle campagne, un'opposizione sterile quanto quella degli antagonismi nazionalisti.

Dopo la guerra è troppo tardi per amarsi. Non perchè la guerra abbia distrutto le premesse dell'amore tra gli esseri umani, ma perché le persone hanno capito che questo amore tanto invocato non ha mai potuto impedire la guerra. La domanda che li rode non è: "Perché non ci siamo amati a sufficienza?", ma: "Perché non abbiamo saputo odiarci come avremmo dovuto?". Questo suona come un paradosso, soprattutto per l'osservatore ben intenzionato che vede tutto ciò da lontano. L'amore non è ciò che unisce gli uomini nello stesso modo in cui l'Eros di Platone unisce ciò che è stato separato? E l'odio non porta alla discordia e alla distruzione? No, niente affatto. Oggi, dopo la guerra (ma è davvero finita?), le ragioni per odiarsi sono più numerose che mai. Rivolgendosi verso il passato, verso le montagne di cadaveri e di rovine, ogni uomo di buon senso fremerà di collera, piuttosto che versare lacrime di dispiacere e di tristezza. Chi ha fatto questo? Dov'è? Come è potuto succedere?

Nell'epoca della decadenza del comunismo jugoslavo, negli anni ottanta, l'eccesso di vecchi odi si era spento un po' dappertutto. Non c'era più un nemico esterno all'orizzonte, le grandi potenze e gli Stati vicini si mostravano ben disposti verso di noi o indeboliti. Più nessuno si preoccupava degli antagonismi di classe, e i comunisti s'inorgoglivano già nel contare un gran numero di tecnocrati e di manager nelle loro fila. Presto il fronte avrebbe ceduto contro il nemico interno più temibile: il nazionalismo. Una parte della nomenclatura comunista - quelli che avevano veramente l'ambizione di diventare dei leader e non erano ancora sazi del potere - decise di concludere con questa ideologia un matrimonio d'interesse.

La fidanzata piena di vita prometteva di portare con sé una dote meravigliosa: una forza politica inesauribile, sulle cui onde si poteva veleggiare verso l'avvenire, poiché lo slogan della società senza classi non permetteva più di mobilitare le masse per nessuna causa, né a vantaggio di chicchessia. Ma la giovane donna dall'anima candida si trasformò in una megera che nessuno poteva ammansire. Ancora oggi, i leader comunisti continuano ad andare alla deriva sulle onde del nazionalismo senza sapere loro stessi dove saranno portati. L'altra parte dell'élite comunista, all'inizio non di buon grado, lasciò che i nazionalisti occupassero la scena pubblica, e poi li beneficiò con condizioni democratiche, grazie alle quali poterono prendere, in modo corretto, il potere. Ma niente è mai corretto, né in amore né in guerra. Tanto meno in politica. L'umanesimo e lo spirito democratico di questi comunisti non rifletteva che la loro debolezza. La prova migliore di ciò è il fatto che non svolgono più alcun ruolo importante sulla odierna scena politica.

E' vero, negli anni ottanta si potè credere per qualche tempo che la democrazia che s'instaurava era la forma di ordine sociale che incoraggiava quanto c'era di meglio, di più nobile nell'uomo, che era, in qualche modo, l'organizzazione sociale dell'amore. Ci fu allora un periodo di vuoto, durante il quale i vecchi odi non ebbero più corso, mentre i nuovi non si erano ancora sviluppati. Fu una sorta di interregno, durante il quale la speranza da sola deteneva il potere assoluto.

Sarajevo, l'apertura di un secondo fronte

Qualche anno dopo, in una Sarajevo assediata e bombardata quotidianamente, un gruppo di cittadini volle dare una spiegazione diversa alla propria tragica situazione. Si trattava di persone che, per ragioni diverse, non corrispondevano all'immagine idealizzata che ci si fa degli attori della guerra jugoslava. Da un lato non appartenevano ad alcun gruppo etnico implicato nel conflitto (cosa comprensibile in Bosnia dove un terzo dei matrimoni erano misti), dall'altro rifiutavano di costruire la loro identità sociale sull'odio verso un'altra nazione. Nella misura in cui gli scontri nell'ex-Jugoslavia meritano di essere considerati come avvenimenti storici, queste persone apparivano come una specie di rifiuto della storia. E in quanto tali, pensarono che ciò che si svolgeva attorno a loro era la conseguenza dell'odio ancestrale che gli abitanti delle campagne nutrono nei confronti dei cittadini. Proponendo questa idea, contavano di aprire un nuovo fronte. Non si sarebbe più trattato allora di un conflitto interetnico che opponeva Serbi, Croati e Musulmani, non ci sarebbe stata più una demarcazione astratta tra buoni e cattivi. Creavano così un nuovo antagonismo, che offriva a questi sfortunati qualcosa di più dell'autovittimismo umiliante e dava un senso alla loro lotta per la semplice sopravvivenza. Venivano così reintegrati nella storia dell'umanità, di cui sembrava non fossero più che un'inutile appendice. Restavano allora alle porte di Sarajevo come sul bastione che proteggeva la civilizzazione (mondiale) dagli assalti dei barbari dalle colline circostanti. La loro lotta aveva ormai un senso, il loro destino non dipendeva più dal puro caso. Si poteva morire non di qualcosa ma per qualcosa. Non più per la pallottola di uno sniper, ma per il bene dell'umanità civilizzata, messa in pericolo da selvaggi che non avevano gran che di umano. L'aggressore perdeva contemporaneamente la sua identità etnica: gli assedianti non erano semplicemente dei Serbi, ma dei "papci" (termine peggiorativo che designava gli abitanti delle colline che circondano Sarajevo). Si poteva ormai odiare in modo più selettivo, e quindi più giusto.

Trasformando il fenomeno dell'urbanità in una forma di identità di gruppo, una parte della popolazione di Sarajevo ha tentato, nella sua disperazione, di opporsi al dominio assoluto dell'identità etnica. Si è trattato del primo tentativo serio di sostituire il paradigma nazionalista ovunque dominante con un'altra cosa; per la prima volta, ci si è sforzati di costituire una società attorno a un antagonismo diverso, non nazionale e non religioso, che per di più era generalizzabile, comunicativo, cosa che era benvenuta per gli abitanti di Sarajevo dolorosamente isolati, simbolicamente tagliati fuori dal mondo. Non dimentichiamo che la cosa più atroce non era ritrovarsi intrappolati in un assedio militare, ma ritrovarsi intrappolati in un nonsenso incomprensibile.

Belgrado: messa a morte pubblica della città

"Il Ghetto, vita segreta della città" è il titolo di un cortometraggio di due autori belgradesi. Si vede un giovane vagare per Belgrado e riflettere sulla sua vita e sulla sorte della sua città durante la guerra jugoslava. La maggior parte dei suoi amici, giovani della sua età, ha lasciato il paese e, per quanto lui ne capisca le ragioni, li accusa di essere traditori perché sono fuggiti, rifiutando di "combattere per la città". Infatti, Belgrado è la vittima di "criminali e degenerati", persone venute soprattutto da fuori e che hanno conquistato la città, spogliando i suoi abitanti. "Questa Belgrado non ha più niente a che vedere con la capitale della vecchia Jugoslavia" dice la voce fuori campo che accompagna l'eroe durante tutta la sua discesa nei sottosuoli. Là, in cantine oscure, una sorta di mondo parallelo, batte ancora il polso della vera vita - culturale - dell'antica metropoli. E' qui che le orchestre suonano rock autentico per il giovane pubblico urbano, che i fotografi d'arte lavorano, che i ballerini provano, ecc. In superficie, regnano gli elementi estranei che hanno distrutto l'identità urbana della città, trasformando la metropoli internazionale in una smorta provincia. Orde di "primitivi aggressivi" (si tratta ovviamente della massa di rifugiati che sono arrivati qui spinti dalla necessità e dalla guerra) hanno cacciato l'elemento urbano, cittadino, autentico e civilizzato in un ghetto sotterraneo dove deve condurre una battaglia eroica per assicurarsi la semplice sopravvivenza.

A Sarajevo come a Belgrado, l'urbanità come forma di identità cittadina rappresenta l'ultima linea di difesa per tutta una parte della società, per quella che non si è riconosciuta nel paradigma dei conflitti nazionali, ne è stata vinta, ed è stata rigettata sia dalla storia che dalla politica. Ma mentre a Sarajevo, che conosceva concretamente la guerra, l'antagonismo tra i cittadini e i primitivi della campagna aveva per funzione la difesa - senza speranza, ma vitale - della dignità umana, quest'antagonismo, a Belgrado dove la guerra non è stata sentita che indirettamente, indica solo una rassegnazione decadente e nostalgica, un specie di accettazione del destino. Nel film, la voce fuori campo evoca le lettere che il ragazzo scambia con i suoi concittadini sparsi per il mondo e nelle quali non si parla "di politica né di cio che si sente, perché questi due temi sono così dolorosi che non li si affronta più". Il ripiegamento sull'identità urbana è così un modo di fuggire dalla realtà, una sottomissione passiva e rassegnata di fronte agli avvenimenti sui quali la società e gli abitanti della città non hanno alcun potere. Il ghetto urbano di Belgrado è una enclave artificiale all'interno di una realtà che non si percepisce più e a cui non si vuole pensare. Mentre a Sarajevo l'urbanità rappresentava l'ultimo punto d'appoggio della dignità umana, ciò che consentiva di resistere eroicamente, di esigere il sostegno, la comprensione e il riconoscimento del mondo, questa non riflette a Belgrado che la sconfitta totale, uno sconforto nostalgico. Nel film, il ragazzo dice: "E' come se fossi in una casa la cui facciata è ancora ben tenuta. All'interno, ho il cuore, i nervi, il sangue di un vecchio Tutto è usato Desidero follemente che i vecchi tempi tornino Vorrei che le cose cambiassero e che questa città ridiventasse la mia città ma capisco che tutto è stato buttato all'aria e che tornare indietro non è più possibile". Il tentativo di riflessione del giovane belgradese termina con la banale dicotomia tra il bene e il male. All'origine della catastrofe che si è abbattuta su Belgrado e la società serba, egli vede, alla fine, la vittoria del diavolo su Dio. Ci si è dimenticati di Dio ed il problema è tutto qui. La triste realtà della città annientata, poiché è stato mortificato o rovinato tutto quanto faceva la sua urbanità, non è altro che la punizione per questo peccato.

Zagabria: l'urbanità come conformismo

Nell'autunno del 1996 le autorità croate tentarono di impedire a Radio 101, radio locale molto popolare soprattutto tra i giovani, di trasmettere. Suscitarono così un movimento di rivolta inatteso, che fece uscire i cittadini nelle strade, per la prima volta dopo l'indipendenza. La folla si riunì, è vero, una sola sera nella piazza principale, ma perché venne data soddisfazione alla sua rivendicazione concreta: che il potere lasciasse trasmettere questa radio. Ma dei Croati avevano osato protestare contro dei Croati! Un'opinione pubblica totalmente obnubilata dall'idea dell'unità nazionale non poteva considerare normale una cosa del genere. Ci volevano delle spiegazioni supplementari. Un politico dell'opposizione - il leader del partito socialdemocratico croato (è così che si chiamano i vecchi comunisti dopo essersi riformati) - ne fornì una che andava incontro alle attese di massa: "Radio 101 è diventata una radio culto, il simbolo della Zagabria urbana, cittadina, moderna, libertaria, europea e democratica; e dei buoni cittadini, che ne hanno abbastanza del primitivismo e del conservatorismo di campagna, dello stupro che si è fatto subire alla loro città rurarizzandola a forza, si sono sollevati per difenderla".

Per la prima volta si è articolato nel nuovo Stato croato un antagonismo interno, che aveva l'ambizione di riunire in sé tutte le contraddizioni apparse nella società croata dopo la guerra. Radio 101 si poneva già a difesa dell'identità autentica, urbana, degli abitanti di Zagabria. Il suo spirito sarcastico (i suoi scherzi, i suoi sottintesi, le sue prese in giro) era rivolto originariamente contro i Serbi, ma da anni, mantenendo un carattere xenofobo e aggressivo, si esercitava contro i nuovi venuti, sia quelli spinti dalla guerra a cercare rifugio nella grande città (per quelli cacciati dalle regioni occupate della Croazia), sia i vincitori (falangisti della rivoluzione nazionale, il più delle volte originari dell'Erzegovina, venuti a cercare a Zagabria la ricompensa per i loro buoni e leali servigi). La creazione di un antagonismo tra i cittadini dalle buone maniere e questi campagnoli primitivi si rivelava la soluzione ideale per risolvere la situazione conflittuale in cui la società croata si trovava. Questa demarcazione permetteva meglio di qualsiasi altra di associare, in modo geniale, conformismo e rivolta, fornendo una spiegazione a tutte le disgrazie derivanti dalla guerra.

Infatti la società croata aveva cominciato a disgregarsi fin da subito, spezzandosi negli stessi punti in cui già aveva ceduto durante lo smantellamento della società jugloslava. Non si parla qui della differenza di appartenenza nazionale, come si potrebbe credere in prima istanza, ma della logica che fonda un'identità sull'esclusione dell'altro, dello straniero, di quello che viene da altrove. Questo elemento autenticamente urbano, cittadino, che rigetta i rifugiati venuti dalla campagna e i profittatori infiltrati nel suo tessuto, è lo stesso che, nella sua euforia sciovinista e in nome di mille anni di cultura europea e cristiana, aveva rigettato l'elemento primitivo balcanico, incarnato dai serbi e dalla minoranza serba in Croazia. Oggi questo elemento urbano, cittadino, è sottomesso ai suoi stessi primitivi, croati pure loro, portati al potere perché cacciassero gli altri, - e ricrea lo stesso antagonismo, presentandolo come nuovo, verso i nuovi venuti. Gli abitanti di Zagabria sono scesi in massa nelle strade perché veniva loro data la possibilità di credersi (manifestando il loro antagonismo verso i nuovi venuti) dei democratici, degli europei, della gente colta, civilizzata e moderna, mentre in realtà per la loro xenofobia e il loro sciovinismo restano gli stessi primitivi, gli stessi provinciali di prima della guerra. In nessun luogo come a Zagabria è apparso in modo così lampante il carattere conformista dell'antagonismo tra identità urbana e identità rurale.

Lítost

Uno dei racconti della raccolta di Kundera Il libro del riso e dell'oblio è intitolato "Lítost". Dietro questo termine difficilmente traducibile si nasconde un sentimento che è, come precisa lo stesso Kundera, la sintesi di numerosi altri sentimenti: il dispiacere, la compassione, la nostalgia e il rimprovero verso sé stessi. E' "uno stato tormentoso suscitato dallo spettacolo della nostra miseria improvvisamente scoperta". "Funziona come un motore a due tempi. Al tormento succede il desiderio di vendetta. L'obiettivo della vendetta è ottenere che il partner si mostri altrettanto miserabile. L'uomo non sa nuotare, ma la donna schiaffeggiata piange. Possono quindi sentirsi pari e perseverare nel loro amore"(1).

Se in Jugoslavia, durante il periodo degli scontri e della guerra, si è sentita l'esigenza di mettere in gioco questo antagonismo tra città e campagna, senza alcun dubbio ciò ha qualcosa a che vedere con questo sentimento tipicamente ceco. Il nazionalismo è certo un'ideologia (piccolo)-borghese, ma la sua messa in pratica politica ha bisogno della mobilitazione di larghi strati della popolazione. Il populismo nasce dall'élite, in spazi prevalentemente urbani: nei salotti degli intellettuali e sui palcoscenici dei teatri di Stato, nelle Facoltà e nelle Accademie, nei ministeri e nelle redazioni, nella materia grigia di una società che gode del confort della capitale (potrebbe vivere altrove?). Nonostante ciò, quando queste persone escono nelle strade e vanno più lontano, nelle campagne che circondano la città, il loro movimento prende generalmente delle caratteristiche che non hanno nulla a che vedere con le pure e sublimi idee di libertà e di bene in nome delle quali si sono messi in moto. Le campagne delle periferie delle città sporcano le idee urbane, e i campi di battaglia ancora di più. Del resto è risaputo che, in una situazione politica determinata, non ci può essere manipolazione totale. Le marionette sono testarde, capricciose e molto spesso incontrollabili, come lo sono le conseguenze di ogni azione politica, anche quella meglio diretta.

Questa logica, delle più banali, ha svolto il suo ruolo negli avvenimenti politici e di guerra dell'ex Jugoslavia. Le forze impegnate nella realizzazione delle idee nazionaliste sorte da un ambiente cittadino hanno avuto ragione dei loro istigatori; oggi, li coprono di vergogna, li umiliano e li allontanano sempre di più dai loro ideali. Le nostre città si sono ruralizzate, siamo stati vittime di un urbicidio. I cittadini piangono sulla loro sorte e, disperati, impotenti, continuano a sottomettersi al primitivo collerico che li ha portati al potere, pensando che si sarebbe sacrificato per loro senza pensarci e si sarebbe sempre industriato per fare la loro felicità. Attraverso le lacrime, la signora di buona estrazione che è stata schiaffeggiata rimprovera a questo crudele mascalzone di non saper nemmeno usare il coltello e la forchetta. Possono quindi sentirsi pari e perseverare nel loro amore. E' questa la lítost, no? L'antagonismo tra l'elemento urbano e l'elemento rurale, che gli ottimisti ingenui considerano oggi come una contraddizione nuova - più produttiva e costruttiva sul piano sociale che i dissensi tra le nazioni da cui non ci si deve aspettare più niente tanto sono irrimediabilmente distruttivi - e suscettibile di sostituire gli antagonismi nazionali sul territorio dell'ex Jugoslavia, non è che, ancora una volta, un'ingannevole illusione. Non è che, ancora e sempre, l'espressione dell'amore, perverso e stupido, che va di pari passo con il paradigma nazionalista della comunità felice. Da questo antagonismo non potrà uscire nessun odio costruttivo sul piano sociale, di cui ci sarebbe un gran bisogno. Il suo paradigma è ancora da inventare.

 

Note

(1) M. Kundera, Il libro del riso e dell'oblio, Milano, 1998, pag. 151