ALBIN KURTI
BIOGRAFIA DEL PRIGIONIERO POLITICO KOSOVARO



maggio 2000, di Davide Volante



Tra il 1989 e l'estate del 1990 il regime di Belgrado attua di autorità una serie di misure per sospendere l'autonomia politica della provincia del Kosova, nonostante la durissima opposizione popolare espressa attraverso numerose mobilitazioni di massa, e instaura un regime di apartheid nei confronti della popolazione di origine albanese, oltre il 90% della popolazione totale. In tale contesto nel settembre del 1990, a seguito di un referendum clandestino, viene autoproclamata la Repubblica del Kosova che si dota di una vera e propria società parallela con un sistema sanitario, educativo e di rappresentanza politica interamente propri.
Nelle elezioni clandestine del maggio 1992 Ibrahim Rugova viene eletto presidente della Repubblica e il suo partito, la Lega Democratica del Kosova (LDK), fondata il 23 dicembre del 1989 da un gruppo di intellettuali con un passato nella Lega dei Comunisti di Jugoslavia, ottiene ben 96 dei 100 seggi a disposizione nel Parlamento Alternativo del Kosova (che in quasi un decennio non si è mai riunito delegando tutte le decisioni politiche al ristretto entourage di Rugova e al governo in esilio di Bukoshi). Nonostante la presenza di ben 24 organizzazioni politiche, sorte per lo più nella primavera del 1990 e in larga parte satelliti della LDK, lo spazio politico albanese si avvia ad essere interamente occupato dal partito rugoviano, che diviene il movimento nazionale degli albanesi del Kosova, più che una semplice formazione partitica.
Dopo le elezioni del 1992 Rugova e la LDK avviano un periodo, che durerà 6 anni, di resistenza non violenta passiva; sostenuta, nella misura in cui non intaccava lo status quo, dai governi occidentali che tuttavia non hanno mai dato alcun appoggio alla prospettiva indipendentista.

Scuola di resistenza
(1)
Nell'agosto del 1990, quando l'allora quindicenne albanese kosovaro Albin Kurti si avvia a frequentare il secondo anno presso una scuola superiore, l'amministrazione serba impone che i programmi di studio autonomi della provincia devono essere aboliti e sostituiti con quelli realizzati a Belgrado; a ciò devono aggiungersi la chiusura dei media in lingua albanese, il licenziamento di migliaia di docenti albanesi, e la razzia delle opere in lingua albanese dalla biblioteca nazionale, tutto per tentare di cancellare la cultura albanese dal paese. Ne segue il boicottaggio del sistema educativo. Genitori, studenti ed insegnanti rispondono organizzando tra mille difficoltà scuole superiori e università, in abitazioni private, retrobottega, magazzini messi a disposizione gratutitamente dai membri della comunità albanese. Si calcola che il sistema educativo parallelo totalmente autogestito e autofinanziato (anche grazie al sostegno della diaspora albanese), con un contributo volontario pari al 3% del salario mensile, nel 1995 arrivi a contare: “5.291 bambini in età prescolare, circa 312.000 bambini della scuole elementari, 65 scuole secondarie con 56.920 ragazzi, due scuole speciali con bambini con handicap, 20 facoltà e collegi con 12.200 studenti insieme a 20.000 insegnanti, lettori, staff amministrativo e di manutenzione”. (2)
Nell'anno accademico 1993/1994, Albin si iscrive all'Università parallela di Prishtina, frequentando i corsi della facoltà di elettrotecnica nella specializzazione di informatica e telecomunicazioni, dove tra le altre cose ottiene dei riconoscimenti per il suo rendimento scolastico. Dopo tre anni viene eletto membro della presidenza dell'Unione Indipendente degli Studenti dell'Università di Prishtina (UPSUP) e grazie alla sua ottima conoscenza della lingua inglese assume l'incarico di Rappresentante della Commissione per la Cooperazione Internazionale di questo sindacato. In tale veste negli anni successivi sarà tra gli artefici della creazione di una rete internazionale a sostegno della causa degli studenti kosovari. Nell'agosto dello stesso anno gli studenti, con il sostegno di docenti e rettori, costitituiscono un Comitato Organizzativo di cui Albin è il portavoce (per le pubbliche relazioni) e avviano la fase preparatoria di una serie di iniziative, delle “manifestazioni studentesche pacifiche e non violente”. L'obiettivo era la riapertura degli edifici scolastici e dell'università albanese, già stata sancita nel 1996 da un accordo tra Milosevic e Rugova e mai applicato dal regime di Belgrado, nel quadro di un passaggio ad una resistenza attiva. Il loro punto di riferimento politico è l'anziano leader Adem Demaçi ed entrano in conflitto con Rugova, che su pressioni dell'inviato dell'amministrazione USA Richard Miles (3) cambia idea e chiede agli studenti di revocare le mobilitazioni previste per il primo di ottobre in occasione dell'apertura dell'anno accademico.

VREME: Quando Rugova la settimana scorsa vi ha detto di non essere d'accordo con la data prevista per le dimostrazioni, voi gli avete detto che sareste andati avanti lo stesso con il giorno prefissato. Vi siete messi contro Rugova, una cosa che fino a oggi era impensabile...
KURTI: I preparativi per le proteste erano in corso già da un mese e mezzo. Nessuno ci può dire due o tre giorni prima dell'inizio previsto: “Dovete rimandarle”. Abbiamo preso la decisione il 15 agosto. Abbiamo parlato con il Presidente e lui ci ha dato la sua approvazione. Non siamo più un'Unione Indipendente degli Studenti, ma un'Università. Il Senato dell'Università ha appoggiato all'unanimità la protesta. Ora l'unica entità autorizzata a prendere decisioni rispetto alla protesta è il Comitato Organizzativo composto da nove membri, nel quale gli studenti hanno la maggioranza. Tutti gli altri possono solamente darci dei consigli. Se in alcune facoltà il Decano è diventato membro del Comitato Organizzativo, per noi rimane per prima cosa e innanzitutto un membro del Comitato.
VREME: Un tale atteggiamento ha suscitato una notevole agitazione a livello politico. I vostri obiettivi sono politici?
KURTI: Vogliamo solo gli edifici dell'Università. Tutto quello che ci interessa è l'Università. Tutte le organizzazioni degli albanesi del Kosovo ci hanno offerto il loro appoggio (è diventato di moda) e molte di esse desiderano anche unirsi a noi. Noi lo abbiamo rifiutato. Se la protesta si dovesse ampliare, diventerebbe qualcosa di molto differente. Se ciò avvenisse ci potrebbe essere un'escalation. In questo modo ne conserviamo il controllo.
VREME: Perché allora i dimostranti sono così importanti per tutti?
KURTI: Dal '92 non ci sono più state dimostrazioni. Non succedeva nulla. Gli albanesi erano privi di speranza e timorosi della polizia. A causa di ciò, tutti i partiti hanno perso credibilità. La gente ha cominciato a pensare che volessimo occuparci del problema del Kosovo. Queste aspettative dei cittadini sono il risultato della passività dei politici. [...]
VREME: Corrono voci secondo le quali avete il sostegno di Adem Demaçi.
KURTI: Adem Demaçi ha passato 28 anni in prigione e non è come gli altri. Dice quello che pensa. Quindi è una figura più importante del suo partito, ma è ancora nel partito, mentre la nostra protesta è apolitica. (4)

All'epoca non vi era alcuna forza politica, tantomeno il minuscolo Partito Parlamentare del Kosovo (PPK) di Demaçi, in grado di contrastare l'egemonia della LDK, che propaganda la resistenza passiva nel timore di un inasprimento della repressione serba, e si affida per raggiungere l'indipendenza all'azione delle cancellerie occidentali anche se queste ultime non avevano mai riconosciuto la Repubblica del Kosova e nel 1995 con gli accordi di Dayton avevano accreditato Milosevic come garante della stabilità nei balcani. In questo contesto, con un sistema politico virtualmente bloccato, un'opposizione efficace poteva essere condotta da gruppi non partitici. Il movimento studentesco adottando una resistenza non violenta attiva riesce ad organizzare numerose mobilitazioni di massa raccogliendo l'esigenza di radicalità che proveniva da settori sempre più ampi della società kosovara.
Il primo di ottobre più di 20.000 insegnanti, studenti universitari e delle scuole superiori scendono in piazza. La risposta della polizia è durissima: diverse centinaia di feriti (tra cui il rettore e il vicerettore dell'università parallela) ed arrestati. Albin, il presidente della UPSUP Bujar Dugolli e il vicepresidente (e attuale presidente) Driton Lajci vengono brutalmente picchiati durante l'arresto e la permanenza presso il commissariato di Prishtina.
Ma la repressione non riesce a sfaldare il movimento studentesco perché "se saremo picchiati e uccisi facendo qualcosa che consideriamo nobile, non saremo delle vittime. Ma se verremo picchiati e uccisi mentre non facciamo nulla, come del resto è avvenuto sistematicamente in Kosova, allora saremo vittime" (5), e altre manifestazioni si tengono nuovamente il 29 ottobre, il 30 dicembre (ci furono nuovamente centinaia di feriti) ed il 13 marzo 1998.
La questione Kosovara riacquista nuovamente rilevanza internazionale. Agli studenti kosovari giungono attestati di stima e solidarietà da parte di gruppi in difesa dei diritti umani, associazioni studentesche e gruppi pacifisti europei e di oltre oceano. Durante il periodo compreso tra il novembre '97 e il marzo '98 i leader studenteschi (Kurti compreso) partecipano a numerosi meeting (Washington, New York, Bruxelles, Copenaghen, al parlamento europeo) e incontrano, per lo più a Belgrado e a Prishtina, numerosi diplomatici e politici occidentali di primissimo piano, compreso Robert Gelbard, inviato speciale USA nei Balcani.
Nel febbraio del 1998, quando appare oramai prossimo un conflitto armato tra le forze serbe e l'Esercito di Liberazione del Kosova (UÇK). Gelbard definirà quest'ultimo un gruppo "terroristico" legittimando di fatto le successive 'operazioni di polizia' della MUP che culmineranno ai primi di marzo con il massacro a Prekaz, nella Drenica, di 57 persone tra cui numerosi bambini, donne ed anziani.
Dopo la manifestazione studentesca del 13 marzo Albin dichiara ad un quotidiano sardo: "Vogliamo [come studenti] il dialogo ma a certe condizioni e se la trattativa fallisce, siamo pronti all' insurrezione [...] Ci sono ormai tutte le precondizioni per un conflitto", aggiunge Kurti, che peraltro ribadisce la volontà di percorrere tutte le possibili vie politico-diplomatiche per conseguire il fine dell'indipendenza. Afferma: "dovrebbe anzitutto modificarsi il quadro politico a Belgrado".(6)
Nonostante gli sforzi delle diplomazie occidentali, di Rugova (che per buona parte del 1998 continuerà a definire l'UÇK "emanazione dei servizi segreti jugoslavi") e soprattutto di Milosevic, il precedente equilibrio viene definitivamente rotto. Gli albanesi si radicalizzano ulteriormente. l'UÇK (nato nel 1992 ad opera di un pugno membri della LPK, un movimento politico in origine marxista-leninista, e attivo dal 1996), che controlla ampie eree del paese, acquista un consenso di massa divenendo un vero e proprio movimento di guerriglia insurrezionalista.
Nei mesi successivi Rugova, sostenuto dall'amministrazione USA, tenterà di recuperare il centro della scena politica dello schieramento albanese con il solo risultato di indebolire ulteriormente la propria leadership: a marzo, con il conflitto alle porte, organizza nuove elezioni politiche che sono boicottate dai partiti di opposizione; a maggio, su pressioni USA, si reca, senza porre alcuna condizione, a Belgrado per riavviare negoziati diretti con Milosevic.
A giugno le forze militari serbe sferrano un'offensiva nelle zone controllate dall'UÇK, secondo la tattica della "terra bruciata": in due mesi vengono momentaneamente riconquistati i principali centri controllati dalla guerriglia, con il risultato di più di 300.000 rifugiati, vastissime devastazioni e la minaccia (non concretizzatasi) di un intervento armato della NATO.

Agosto '98: una svolta?
Nell'agosto del 1998 Demaçi abbandona la presidenza del PPK per diventare il Rappresentante Politico Generale (RGP) dell'UÇK. Albin Kurti, lo segue in qualità di segretario.
Due anni dopo ai magistrati che lo condannano a quindici anni di detenzione Albin dichiara che ha lavorato presso l'ufficio sia per dare il proprio contributo alla lotta liberazione del Kosova sia "per il rispetto verso Adem Demaçi che è il simbolo della resistenza Kosovara". (7)
Del "Mandela dei Balcani" il giornalista F. Rexhepi ha scritto: "Demaçi è nato nel villaggio di Donja Ljupca, presso Podujevo, ma ha trascorso gli anni dell'infanzia e della gioventù a Prishtina. Al secondo anno degli studi universitari, nel 1958, quando aveva solo 22 anni, è stato arrestato e condannato a 5 anni di prigione (ne ha scontati tre) per attività politiche nazionaliste antistatali [...] La seconda volta, nel 1964 è stato condannato a 15 anni di prigione, scontandone 10, e la terza volta, nel 1975 è stato condannato nuovamente a 15 anni, che ha scontato quasi per intero. Complessivamente: 27 anni e 7 mesi di prigione. Spesso ripete che la sua prigionia non è ancora finita, spiegando come nell'aprile del 1990 è entrato in una prigione molto più grande, quella del Kosovo". Demaçi, rilasciato grazie a un'amnistia, diventa immediatamente un militante dei diritti umani, fonda il Comitato per la Difesa dei Diritti Umani e delle Libertà e viene nominato direttore del mensile ZERI. La rilettura critica del regime di Hoxha lo allontana dal marxismo-leninismo, "ma ha conservato una posizione senza compromessi riguardo alla libertà e all'indipendenza del Kosovo [...] Nei primissimi anni ha sostenuto Rugova e la sua Lega Democratica del Kosovo. Riteneva che fosse necessario sostenere la LDK come movimento popolare intorno al quale si sarebbero raccolti tutti i potenziali degli albanesi". Nel 1991 è Presidente del Parlamento del Kosovo, ma in seguito "ha per primo criticato la sterilità della politica della resistenza passiva. Come alternativa ha proposto una resistenza non violenta attiva sotto lo slogan: nè guerra nè capitolazione". (8)
La scelta fatta da Demaçi e Kurti nell'agosto del 1998 è la coerente evoluzione di un percorso personale sempre volto prioritariamente alla ricerca una soluzione politica del conflitto nel rispetto del principio dell'autodeterminazine dei popoli, e non significa il 'tradimento' delle precedenti lotte di resistenza condotte con pratiche non violente attive.

Verso Rambouillet

"Dopo il movimento insurrezionale kosovaro della primavera 1998, la successiva repressione serba e il "congelamento" della situazione attuato grazie all'accordo Milosevic-Holbrooke dell'ottobre 1998, era convinzione generalizzata che si sarebbe assistito ad una nuova esplosione in Kosova nella primavera successiva". (9)
Tra novembre e dicembre si susseguono freneticamente le iniziative diplomatiche (con le due bozze Hill) ma simultaneamente si assiste alla riorganizzazione dell'UÇK oltre che al ridispiegamento dei mezzi pesanti serbi le cui successive offensive nella zona di Podujevo, a dicembre, e nel villaggio di Racak, il 15 gennaio, porteranno al'apertura di un nuovo processo diplomatico totalmente gestito dal "Gruppo di Contatto".
Il 26 gennaio dopo l'ennesimo massacro di civili perpetrato dalle forze di sicurezza serbe durante un' "operazione di polizia", a Rakovine nei pressi di Giakova, Albin dichiara: "per fermare il regime serbo non vi è alternativa all'intervento delle truppe NATO" (10). Kurti tuttavia non intende con questo affidarsi passivamente alle potenze occidentali: ha una posizione simile a quella espressa da Demaçi, che nel dicembre 1998 ricordava che "l'esperienza insegna che le grandi potenze tendono a cercare di ottenere le maggiori concessioni dalla parte più debole, dalle vittime" (11) e rifiutando di recarsi a Rambouillet affermava che "ci viene proposta una cosiddetta autonomia sostanziale. L'integrità della cosiddetta Jugoslavia o della Serbia è condizione non negoziabile [...] le richiesta dell'UÇK sono le seguenti, garantire che dopo un certo periodo gli albanesi avranno diritto all'autodeterminazione [...] in secondo luogo, dovrà esserci qualcuno che garantisca la realizzazione di un eventuale accordo con il regime serbo [...] Non ci viene chiesto di andare in Francia per fare la pace ma per capitolare, per accettare una soluzione che durerà solo per un certo tempo e dopo di ciò gli albanesi saranno ancora una volta nella condizione di dovere combattere nuovamente per la propria libertà e la propria sovranità". (12)
Il Quartier Generale dell'UÇK non fu dell'avviso di Demaçi e Kurti e decide di includere una propria rappresentanza all'interno della delegazione albanese che si reca in Francia il 6 febbraio.
L'8 febbraio la delegazione albanese a Rambouillet chiede come precondizioni all'inizio dei negoziati, senza successo, il cessate il fuoco e che il testo dell'accordo includa un chiaro riferimento circa l'effettuazione di un referendum per l'autodeterminazione. Il giorno dopo Albin tiene una conferenza stampa: "La condizione preliminare per continuare i negoziati a Rambouillet è la firma di una tregua" (13) rilevando che "l'invio di una delegazione a Rambouillet è stato un segno di buona volontà da parte albanese, ma con il rifiuto da parte serba di un cessate il fuoco in pratica si sabotano i negoziati ["] L'autodeterminazione è un diritto democratico che appartiene totalmente al popolo kosovaro. Il futuro del Kosova deve essere deciso dal suo popolo, nessuno può farlo al suo posto". Demaçi ribadisce che "in ultima istanza non dobbiamo affidarci alle loro promesse e minacce [della comunità internazionale e della NATO] Dobbiamo fare affidamento sulle nostre forze e avere fiducia nel nostro esercito di liberazione e nella vittoria. Possiamo farcela solo unendo le nostre forze con il nostro esercito e non attendendo che qualcuno ci conceda la libertà". Queste parole cadono nel vuoto e i negoziati proseguono lungo le linee tracciate dal Gruppo di Contatto:
il 23 febbraio la delegazione albanese vota, all'unanimità, a favore della bozza di accordo, ma con la richiesta di un aggiornamento al 15 marzo (la delegazione serba accetta in linea di massima l'autonomia del Kosova anche se rifiuta la presenza dei soldati della NATO a garanzia di un eventuale accordo). Nella loro dichiarazione ufficiale i delegati confondono, in maniera deliberata, il termine "referendum" con il generico "sulla base delle aspirazioni del popolo" ("on the basis of the will of the people").
"La Delegazione del Kosova prende atto che alla firma verrà confermato nuovamente che il Kosova terrà un referendum per accertare la volontà del popolo alla fine del periodo temporaneo di tre anni, così come previsto dall'Articolo I(3) del Capitolo 8 dell'accordo". Ma come opportunamente ricorda il ministro degli esteri francese, Vedrine "la parola [referendum] non compare nel progetto di accordo temporaneo. Vi è una clausola in cui si fissa una scadenza per un nuovo incontro tra tre anni". (14) Lo stesso giorno Kurti tiene una conferenza stampa riguardo l'esito di Rambouillet: "Nell'ultimo decennio non vi sono stati conflitti etnici nei confini della ex Jugoslavia, ma guerre di liberazione di popoli oppressi dal regime serbo. Questo regime criminale ha combattuto con gli albanesi ma noi non siamo gli ultimi. La mentalità di Milosevic è una sofisticata simbiosi delle mentalità fascista e stalinista. Questa mentalità non può divenire democratica [...] Circa i negoziati di Rambouillet, è chiaro che non si basano sulla giustizia e non porteranno alcuna pace nei Balcani. Conseguentemente, non porteranno nessuna libertà agli albanesi [...] nessun disarmo o trasformazione dell'UÇK sarà presa in considerazione". (15) Afferma che l'ex comandante UÇK Sulejman Selimi è nominato Comandante Supremo dell'UÇK e che "a partire da ora, nessuna decisione politica potrà essere adottata dall'UÇK senza l'accordo di Adem Demaçi, leader politico dell'UÇK".
La realtà sarà molto diversa: il tentativo di realizzare, con l'appoggio di alcuni comandanti sul campo, un colpo di mano all'interno dell'UÇK fallisce. Demaçi e i suoi collaboratori sono l'oggetto di pesanti attacchi. Rubin dichiara che Demaçi è maggiore ostacolo a pace, mentre Hill, riferendosi all'UÇK, torna a parlare di "marxisti-leninisti antioccidentali". Qualche giorno più tardi anche lo scrittore ed "esule politico" Ismail Kadare si recherà a Prishtina spingendo per la firma degli accordi e insultando Demaçi (16), che il 24 ribadisce, all'agenzia di stampa Reuters: "Stanno esercitando pressioni su di noi perché sarebbe meglio se accettassimo visto che il presidente jugoslavo non sta accettando l'accordo. Non può essere una condizione che se Milosevic non accetta qualcosa, gli albanesi lo devono accettare. Non facciamo concorrenza a Milosevic. Accetteremo una soluzione che include il diritto a un referendum, cosa che porrebbe fine alla crisi".
Nei giorni precedenti alla conferenza di Parigi Thaci si reca in Kosova per incontrare i comandanti del'UÇK, forte della carica di primo ministro del neonato governo di transizione (sorto su volontà dei delegati a Rambouillet per indebolire la posizione di Demaçi), oltre che della presenza del diplomatico USA Sean Burns. In quattro giorni ottiene l'approvazione a firmare l'accordo e vola nuovamente in Francia.

Il 15 marzo, giorno in cui inizia la conferenza di Parigi, Demaçi, riafferma il suo dissenso (culminato con le dimissioni da RGP il 2 marzo) rispetto alla firma degli accordi di "pace": "mi limiterò qui al periodo dal 30 gennaio, quando all'Hotel 'Aleskandar Pallas' di Skopje il ministro degli esteri britannico Cook ci ha consegnato il documento-invito per la partecipazione alla conferenza che sarebbe dovuta iniziare a Rambouillet il 6 febbraio 1999 [...] Voleva che confermassimo immediatamente la nostra partecipazione. Ciò veniva giustificato con la motivazione che se la delegazione albanese lo avesse fatto, avrebbe avuto un vantaggio rispetto alla delegazione serba. [Invece] il team del nostro ufficio ha lavorato sul documento e ci siamo recati sulle montagne. Lì abbiamo espresso la nostra posizione al Quartier Generale [dell'UÇK]:
1. La preparazione della conferenza è molto affrettata e quindi inaccettabile per noi
2. Il documento così come è rappresenta una sintesi delle cosiddette 'bozze Hill' che sono state rifiutate dagli albanesi, in poche parole, il documento rappresenta una piattaforma per un'autonomia 'sostanziale', che diventerà immediamente solo culturale non appena le si toglierà il trucco. Quindi, è inaccettabile per noi
3. Il referendum organizzato, sorvegliato e garantito dagli Stati Uniti non vi viene menzionato
4. L'UÇK non viene menzionato, cosa che fa capire di conseguenza che si intende eliminarlo in quanto principale forza della lotta per la libertà e la conservazione della libertà
5. La composizione della delegazione albanese non potrà essere decisa dagli albanesi stessi, bensì dagli organizzatori della conferenza
6. Se andiamo a Rambouillet, accettiamo questa piattaforma come base per i negoziati con la parte serba
7. E' inaccettabile avere trattative con i rappresentanti del regime serbo, che non ha applicato alcuna delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sul Kosova e l'accordo Holbrooke-Milosevic. E' un errore imperdonabile condurre negoziati con i rappresentanti del regime serbo, che esercita violenza, terrore e massacri sugli albanesi. Si tratterebbe della legalizzazione del diritto del regime serbo di imporci una soluzione politica uccidendo e terrorizzando gli albanesi, una soluzione che sarebbe a suo favore. Tali trattative si svolgerebbero con un coltello alla gola". (17)
Il 16 marzo inizia l'offensiva serba nella Drenica e il comando della zona di Llap (Podujevo), presieduto dal comandante Remi e che ha come portavoce Valon Murati (leader della LKÇK), emette un comunicato estremamente critico verso i delegati albanesi a Parigi, definiti "business-patrioti": "queste persone sono pronte a ogni compromesso, che ci presenteranno poi come una grande vittoria, dato che non sono i loro figli a essere morti in una guerra per la libertà totale del Kosova [...] li invitiamo pubblicamente ad abbandonare le loro attività distruttive... e invitiamo tutti quelli che vogliono aiutare il Kosova a prendere le distanze da coloro che vogliono percorrere una strada così sbagliata". (18) "Speriamo che tutti coloro che si sono dedicati alla causa del Kosova e hanno preso attivamente parte alla sua risoluzione si dissoceranno dai mercanteggiamenti di Parigi". Ma sono solo gli ultimi sussulti. A maggio, nelle fasi più difficili del conflitto armato, si completa l'opera di "normalizzazione" dei vertici UÇK, con la sostituzione di Sulejman Selimi con Agim Ceku, più gradito alle potenze occidentali (arruolatosi nell'UÇK solo nel febbraio 1999).
Il 24 marzo iniziano i bombardamenti della NATO e il periodo più difficile per Albin. "Kurti ha compiuto 24 anni il 24 marzo, il giorno in cui la NATO ha cominciato a bombardare. I festeggiamenti per il suo compleanno sono stati silenziosi: lui e Cakaj sono rimasti seduti nell'ufficio di Demaçi a bere vodka e a guardare le notizie. "Era incredibile", si ricorda Cakaj. "Dopo tutti questi anni, la comunità internazionale si stava muovendo. Il mondo collaborava". E allo stesso tempo, si rendevano conto che ora il destino del Kosovo era completamente nelle mani della NATO: "All'improvviso ci siamo resi conto che la questione veniva affrontata a un livello così alto che noi non ci potevamo più fare nulla". Gli amici si sono lasciati alle cinque del pomeriggio. Cakaj, fuggito dal Kosovo per la Macedonia in aprile, non ha più visto Kurti da allora.(19)

Arresto, detenzione e processo
Durante i bombardamenti della NATO Albin rimane a Prishtina fino al 27 Aprile quando viene arrestato con il padre e i due fratelli (Taulant e Arianit) dalla polizia serba. Ventiquattro ore dopo il quindicenne Taulant viene rilasciato "con visibili segni di percosse". (20)
Fino al 1° maggio rimangono reclusi presso il cercere di Prishtina. Il 2 maggio vengono trasferiti a Lipjian (mentre Arianit e il padre vengono liberati il 29 maggio) dove Albin rimane fino al 10 giugno.
Arianit Kurti, ricorda: "le condizioni erano pessime. Io sono stato picchiato ma Albin è stato torturato ripetutamente perché i serbi sapevano che era stato un attivista politico e membro della Unione degli Studenti". (21)
Dopo la firma degli accordi di "pace" di Kumanovo, il 10 giugno come almeno altri 2000 prigionieri politici albanesi Albin viene deportato in Serbia. La sua famiglia per lungo tempo non ha potuto sapere dove si trovasse. Il 12 luglio tramite il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) comunica alla famiglia che Albin è detenuto a Pozarevac, dove riceve la visita di Franklin De Vrieze di Pax Christi della Vallonia quindici giorni dopo.
Il 5 gennaio Arianit informa che il fratello è stato trasferito da circa 15 giorni nel carcere di Nis: dopo otto mesi di detenzione preventiva in violazione delle stesse leggi jugoslave sembra imminente la celebrazione del processo, che invece si tiene dopo più di due mesi, il 9 marzo presso il tribunale di Nis. L'accusa è di "associazione in attività di stampo terroristico" con finalità di separatismo.
Adem Demaçi, dai microfoni di radio B92, cerca di alleggerire la posizione di Albin: "se qualcuno ha la responsabilità di essere stato il rappresentante politico dell'UÇK sono io e non traduttori, impiegati o collaboratori che mi hanno aiutato".
Natasa Kandic, dell'Humanitarian Law Center di Belgrado, descrive con le seguenti parole la fase dibattimentale: "poichè nessuna prova è stata presentata durante il processo, nè la corte nè il pubblico hanno potuto sapere se l'accusa disponesse di prove contro l'imputato, nè di quali eventuali prove si trattasse". Lunedì 13 marzo, a quattro giorni dall'inizio del processo, Albin Kurti viene condannato a 15 anni di carcere per "separatismo", cioé "minaccia all'integrità territoriale della Jugoslavia" e "associazione in attività ostili in relazione con il terrorismo".
Secondo Stasa Zajovic delle Donne in Nero di Belgrado: "Albin Kurti è stato condannato senza prove, senza testimoni. Processi come questo mettono in risalto il carattere repressivo del nostro regime". (22)

Albin rinuncia all'avvocato assegnatogli d'ufficio, a difendersi ed a rispondere alle domande dei magistrati. La dichiarazione, in lingua albanese, resa alla corte il 9 marzo è un durissimo atto di accusa contro il regime di Belgrado. Riprendiamo dal resoconto di Vladan Vukovic delle Donne in Nero di Belgrado:
"Sono stato membro della presidenza dell'Unione Indipendente degli Studenti di Prishtina e il rappresentante della Commissione per la Cooperazione Internazionale, il nostro obiettivo è stato organizzare manifestazioni per liberare l'università da cui siamo stati cacciati con la forza. Le manifestazioni sono state organizzate contro il regime serbo ("e non contro i serbi come è stato tradotto", ha precisato in lingua serba lo stesso Kurti) che ha occupato il Kosova con il suo esercito e le sue forze di polizia ed ha esercitato terrore nei confronti degli albanesi. Sono anche stato segretario del Rappresentante Politico dell'UÇK (Esercito di Liberazione del Kosova) Adem Demaçi. Come segretario ho rappresentato la politica dell'UÇK e della guerra di liberazione. Quella dell'UÇK è stata una lotta per l'indipendenza del Kosova e la liberazione degli albanesi dal regime fascista di Slobodan Milosevic. La guerra è stata ad un tempo anti-fascista ed anti-coloniale. La guerra era il mezzo, il fine era l'indipendenza del Kosova. Solo in una repubblica indipendente gli albanesi possono sentirsi liberi e possono realizzare i propri diritti. [...] Questa corte non ha nulla in comune con la verità e la giustizia. E' al servizio del regime di Milosevic [...] Io non considero il popolo serbo e il regime serbo la stessa cosa. Il Kosova è stato trattato come una colonia fin dalla nascita dello stato serbo. Anche il popolo serbo non potrà vedere la luce fino a quando Milosevic sarà alla sua testa [...] L'indipendenza del Kosova è nell'interesse della Serbia. Mentre il Kosova era trattata come una colonia il popolo serbo aveva un regime fascista. Non riconosco questa corte e non voglio rispondere ad alcuna domanda. Intendo rispondere solo alla corte del mio popolo. Ed è per questo motivo che non mi interessa a quanti anni sarò condannato. 10, 20, 30 o 40 anni di carcere sono la stessa cosa. [...] Ho fatto tutto volontariamente, con dignità e sono fiero di ciò. Se avessi la possibilità di tornare indietro non cambierei nulla, rifarei le stesse cose". (23)


NOTE

(1) Shkelzen Maliqi, Kosova Separate worlds, MM society Prishtina "Dukajini publishing house, Peja 1998
(2) vedere nota 1
(3) si veda la ricostruzione fatta da Massimo Calabresi, Law of the mailed fist, TIME, 13 ottobre 1997 (http://www.time.com/time/magazine/1997/int/971013/europe.law_of_the_ma.html)
(4) Dejan Anastasijevic and Zoran B. Nikolic, Problem of spontaneity, Vreme, 6 ottobre 1995. (Disponibile in italiano con il titolo "Un problema di spontaneità": http://www.ecn.org/est/albania/approf/albart34.htm)
(5) Isuf Hajrizi, U.S backs Kosova students after their talks in the U.S., Illyria, 3 novembre 1997 (http://www.FreeAlbinKurti.com/article-illyria.html)
(6) Kosovo: i giovani mirano senza indecisioni all'indipendenza da Belgrado, L'Unione sarda, 15 marzo 1998
(7) Trascrizione delle dichiarazioni rese al tribunale di Nis da Albin Kurti, a cura di Vladan Vukovic delle "Donne in nero" di Belgrado (http://www.matriz.net)
(8) Fehim Rexhepi, La fenice esce definitivamente di scena?, AIM Prishtina, 6 marzo 1999 (disponibile in italiano in italiano: Notizie Est #224, http://www.ecn.org/est/balcani)
(9) Comitato di Solidarietà con il Kosova, Guerra del Kosova PERCHE' ?, Milano 1999
(10) Dall'ufficio di Adem Demaçi nella mailing list "Albanews" (disponibile in italiano, Notizie Est #162)
(11) Da AIM Podgorica/Prishtina, 16 dicembre 1998 (disponibile in italiano, Notizie Est # 128)
(12) Dall'ufficio di Adem Demaçi nella mailing list "Albanews"
(13) Dall'ufficio di Adem Demaçi nella mailing list "Albanews"
(14) Dall'agenzia di stampa AFP 23 febbraio (disponibile in italiano, Notizie Est # 176)
(15) Dall'ufficio di Adem Demaçi nella mailing list "Albanews"
(16) Ismail Kadarè, I kosovari non dimentcano chi li aiuta, Koha ditore 12 marzo 1999 (proposto in lingua italiana dal settimanale "Internazionale")
(17) Kosova Sot, 15 marzo 1999 (disponibile in italiano, Notizie Est # 191)
(18) Dalle agenzie stampa AFP e Reuters, 16 marzo 1999 (disponibili in italiano, Notizie Est # 191)
(19) Carla Power, Where is Albin Kurti, Newsweek, 7 giugno 1999
(20) Natasa Kandic, Humanitarian Law Center, Yhrf # 11, 29 aprile 1999
(21) da dichiarazioni private rilasciateci da Arianit Kurti nell'agosto 1999
(22) Dal sito delle "Donne in nero" di Belgrado (
http://www.matriz.net)
(23)
Vedere nota 7