BALCANI, UN MONDO DI PROFUGHI
MATERIALI SUI PROFUGHI BOSNIACI, SERBI, ROM...


maggio 2000, da Reporter e Vreme, traduzioni di Andrea Ferrario

 

Gli articoli che seguono, tranne l'ultimo, pubblicato da "Vreme", sono tratti dal numero speciale sui profughi pubblicato a fine 1999 dal settimanale serbo-bosniaco "Reporter" (http://www.reporter.co.yu). Si prega di tenere presente che tutti i dati riportati in tali articoli si riferiscono quindi ai rispettivi mesi del 1999 citati nel testo.

 

BOSNIA / RITORNO: OSTACOLI A OGNI PASSO
di Rubina Imamovic e Slava Govedarica

[...] Secondo le parole del viceministro federale per i profughi e gli sfollati, Jusuf Borovac, la sostenibilità di un ritorno per ora è difficilmente realizzabile a causa dell'"impossibilità di garantire le condizioni per la sopravvivenza, un lavoro sicuro, l'assistenza sanitaria e così via". Gli addetti del Ministero per i profughi della Repubblica Serba di Bosnia (RS) danno spiegazioni simili, e sia gli uni che gli altri negano che vi sia un ostruzionismo intenzionale al ritorno, soprattutto quando parlano di se stessi. "Se vengono rilevati atteggiamenti di questo tipo, le persone responsabili dei rispettivi settori vengono sostituite", afferma Drago Vuleta, del Ministero dei profughi della RS. Entrambi gli interlocutori di "Reporter" affermano allo stesso tempo che non viene assicurato un ritorno in entrambe le direzioni, cioè che "l'altra parte" pone ostacoli in tale senso. Secondo i dati di cui dispongono l'UNHCR (L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e il Ministero per i profughi e gli sfollati della RS, dalla firma dell'accordo di pace di Dayton fino alla fine dell'aprile di quest'anno [1999] sono tornati in Bosnia-Erzegovina 330.020 profughi e 258.001 sfollati. Di questi nella RS sono tornati 22.095 profughi e 77.693 sfollati di tutte le nazionalità. In termini di ritorni di persone appartenenti a nazionalità localmente in minoranza, nella RS durante il periodo indicato sono tornati 1.648 profughi bosnjak, 347 croati e 80 appartenenti ad altre nazionalità. Contemporaneamente sono tornati 7.888 bosnjak sfollati, 371 croati con lo stesso status, e altre 21 persone di altre nazionalità. Nei primi quattro mesi di quest'anno [1999] nella RS sono stati registrati 546 ritorni di appartenenti a nazionalità minoritarie (526 bosnjak, e 17 croati). Il numero maggiore di ritorni lo si è avuto a Prijedor - 160, Gradiska - 115, Novi Grad - 100... Il numero complessivo delle famiglie e delle persone sfollate il cui attuale indirizzo di domicilio è nella Federazione bosniaca e hanno fatto domanda di ritorno volontario nella RS, è pari a 24.863 famiglie, ovvero 86.152 persone. Se condo informazioni fornite dall'ufficio dell'Ombudsman a Sarajevo, i reclami più frequenti avanzati recentemente dai cittadini che ritornano nella RS riguardavano le modalità di applicazione della legge sugli immobili, la discutibilità delle sentenze emesse e altri problemi simili, mentre sono dimunuite le denunce relative alle minacce alla sicurezza delle persone tornate. Per quanto riguarda la Federazione, un problema particolare, secondo la stessa fonte, è rappresentato dalle città nelle quali funziona un'amministrazione parallela, come per esempio Mostar, Jajce, Vitez, Busovac, Kiseljak... Complessivamente sul territorio della Federazione ci sono stati 10.519 interventi, solleciti e raccomandazioni di diverso tipo indirizzati alle autorità sulla base delle denunce dei cittadini. A 8.334 di queste comunicazioni le autorità non hanno dato alcuna risposta, in 451 casi hanno risposto negativamente, in 618 sono giunte risposte inaccettabili e solo in 1.116 casi vi sono state reazioni positive.

La sicurezza di coloro che ritornano

Se si tiene presente che fino a due-tre anni fa l'ostacolo decisivo alla decisione di un ritorno da parte dei potenziali interessati a un rientro era, secondo quanto affermavano essi stessi, il timore per la propria vita, la conclusione che se ne dovrebbe trarre è che è stato compiuto un grosso passo avanti. Secondo le valutazioni dei ministeri competenti della Federazione ("la situazione della sicurezza va migliorando ogni giorno") e della RS ("non abbiamo reclami da parte di appartenenti ad alcuna nazionalità"), chi desidera rimpatriare non dovrebbe rimandare il proprio ritorno per tale motivo. Anche la libertà di movimento, per ammissione degli stessi cittadini, è di gran lunga migliorata, ma tuttavia non è ancora possibile escludere tutti i rischi. Le notizie riportate da chi segue da vicino l'evoluzione del processo di pace non coincidono completamente con le dichiarazioni degli organi del potere locale e la situazione sul terreno periodicamente smentisce questi ultimi. Il maggior numero di incidenti, alcuni dei quali hanno avuto esito mortale, è stato rilevato nel corso degli ultimi dodici mesi a Drvar, Travnik, Bugojno, Vitez, Stoca, Kljuc, Capljina, nei dintorni di Doboj... In alcune di tali città (Drvar, Stolac) i rimpatriati appartenenti a nazionalità in minoranza sono stati sicuri solo fino al momento in cui sono stati accompagnati da forze internazionali. Ai rimpatriati, il fatto che fossero indesiderati è stato fatto capire nella maggior parte dei casi mediante l'incendio della loro casa e la distruzione di altre proprietà, ma non sono mancate anche le aggressioni fisiche. Un alto grado di insicurezza è stato osservato anche a Cazina e a Velika Kladusa, dove, secondo le informazioni dell'Ombudsman della Federazione bosniaca, solo durante l'anno scorso e nei primi mesi dell'attuale anno, sono stati registrati più di 40 incidenti nei quali le vittime sono state persone definite come "autonomisti" [i seguaci di Fikret Abdic "Babo", che proclamarono l'indipendenza di Bihac a fine 1993, e si allearono con i serbo-bosniaci - N.d.T.]. La caratteristica tipica di quasi tutti questi incidenti è che la successiva indagine di polizia non ha dato assolutamente alcun esito. La sicurezza dei cittadini è minacciata anche dalla inesistenza di una polizia multietnica su tutto il territorio della Federazione bosniaca. Ljubusko, Zepce, Cazin, Velika Kladusa sono solo alcuni dei luoghi che non hanno dato vita a una polizia multietnica. Allo stesso tempo, anche là dove tali forze di polizia unitarie esistono, non di rado gli appartenenti a nazionalità differenti non collaborano, oppure si scontrano (uccisione di due poliziotti di nazionalità croata a Travnik). Anche nella RS la polizia multietnica non agisce su tutto il territorio e al fine dell'addestramento dei relativi quadri recentemente a Banjaluka è stata aperta un'accademia di polizia nella quale due terzi degli iscritti sono costituiti da appartenenti a nazionalità minoritarie. Un terreno che favorisce la mancanza di sicurezza degli appartenenti alle nazionalità minoritarie, secondo i rapporti dell inviato speciale dell'ONU per i diritti umani Mazowiecki, è la "discriminazione nel sistema giudiziario". "La mancanza di fiducia da parte dei cittadini nei confronti dei tribunali è grande e costituisce un freno alla creazione di una società multietnica". Naturalmente, oltre a tutto questo rimane la paura dei cittadini, che nella maggior parte dei casi si riassume nella domanda: "E se si trova qualcuno che per odio o per desiderio di vendetta decide di prendere di mira proprio me?". Questi dubbi sono rafforzati dal dato secondo cui i cittadini continuano ancora a possedere grandi quantità di armi. L'azione organizzata l'anno scorso per la raccolta delle armi possedute illegalmente dai cittadini, e denominata "Mietitura", non ha dato i risultati che ci si attendeva, così come non li ha dati il suo proseguimento quest'anno.

Tornare sì, ma dove?

Fortunatamente gli incidenti, che in precedenza erano quotidiani, negli ultimi mesi sono sempre meno. Il miglioramento della situazione della sicurezza non è, tuttavia, una condizione sufficiente per un ritorno più massiccio e uno dei motivi avanzato più di frequente è quello della situazione irrisolta degli alloggi. Le leggi con le quali vengono regolati la restituzione degli immobili privati e i rapporti di affittanza hanno cominciato a essere applicate solo da breve tempo e i termini per la risoluzione delle domande di ritorno vengono prolungati perché "non sono state create tutte le condizioni". Detto con altre parole, ciò significa che negli appartamenti e nelle case dei potenziali rientranti vivono temporaneamente altri profughi, che non hanno abitazioni alternative e inoltre non desiderano ritornare da dove sono stati scacciati, nonché popolazione locale che ha preso illegalmente possesso degli appartamenti di coloro che desiderano rientrare. Ufficialmente, dagli addetti al problema alloggi della Sezione del Ministero per i profughi e gli sfollati ci si sente dire che "si sta facendo di tutto per consentire l'applicazione della legge", e che "tutti hanno il diritto di chiedere la restituzione delle proprie proprietà". L'unica domanda alla quale non si riesce a ottenere una risposta è quella su quanto chi vuole tornare dovrà attendere per la realizzazione dei propri diritti, cioè quando queste persone potranno tornare nelle proprie case e nei propri appartamenti. Se si tiene conto che in entrambe le entità, a capo dei rispettivi servizi per la soluzione del problema degli alloggi si trovano persone che vivono esse stesse in alloggi di altri, si pone la domanda di quanto abbia senso attendersi un'applicazione efficace della legge sugli immobili. [...] Ai rientranti che hanno la fortuna di risolvere il problema dell'alloggio rimane ancora tutta una serie di problemi irrisolti, come quello di trovare un lavoro, ottenere il diritto alla pensione, alla previdenza sociale, all'assistenza sanitaria e così via. Una circostanza che rende le cose più difficili è rappresentata dal fatto che né nella Federazione, né nella RS esistono leggi particolari che regolino tali questioni. Per quanto riguarda l'occupazione, secondo le parole di Veljak Miljus, viceministro del lavoro della RS, l'unica legge esistente è la Legge sui rapporti di lavoro. Secondo tale legge, quando un lavoratore rimane senza lavoro, ottiene una decisione contro la quale ha il diritto di ricorrere o protestare. Quando esaurisce tale diritto, gli rimane il diritto di fare causa. Per ora, secondo le sue parole, i rientranti non hanno presentato richieste per il ritorno ai loro posti di lavoro precedenti. E anche se lo avessero fatto, rimane dubbio in quale misura sarebbero riusciti a ottenere successo, se si tiene conto che, secondo i rapporti dell'Ombudsman, "nessuna delle autorità delle varie entità ha garantito il posto di lavoro, nemmeno ai cittadini che hanno passato tutta la guerra sul territorio dell'entità in questione". Neppure il fatto che come appartenenti alla nazionalità di minoranza abbiano preso parte alla difesa dell'entità nella quale vivevano è servito ad aiutare tali persone a non essere oggetto di licenziamento, né ha aiutato in tal senso i membri delle loro famiglie. L'ottenimento del diritto alla pensione, o il trasferimento di tale diritto da una all'altra entità, avrebbe dovuto essere solo una formalità, poiché la Bosnia-Erzegovina prima della guerra aveva un fondo pensionistico unico. Ma, avendone oggi tre, nemmeno questa è una cosa che si riesce a ottenere facilmente, e a volte non ci si riesce del tutto. Nella circoscrizione della Herceg-Bosna i profughi che rientrano non riescono assolutamente a ottenere il trasferimento della pensione. Per ora, una delle poche questioni che sono state regolate è quella dello svolgimento del servizio militare da parte di coloro che rientrano. Secondo i dati della sezione militare, gli appartenenti alle nazionalità minoritarie, secondo una delle clausole dell'accordo di Dayton, hanno il diritto di non svolgere il servizio militare nella entità in cui sono tornati per un periodo di cinque anni dalla firma del trattato stesso [1995 - N.d.T.], e così le eventuali incomprensioni su questo aspetto sono state evitate. Probabilmente per il fatto che in questo caso si tratta soprattutto di obblighi, e solo in secondo luogo di diritti.

 

IL RITORNO DEI SERBI IN CROAZIA: LA PESTE NERA
di Goran Tarlac

"Non esiste un paura del ritorno dei serbi", affermava Mate Granic [quando è stato scritto questo articolo, era ancora ministro degli esteri croato della Croazia di Tudjman - N.d.T.], che ha in tal modo dipinto nel migliore dei modi la posizione del governo croato riguardo "il più scottante tema politico in Croazia" - il ritorno dei serbi. "Tutte le inchieste dimostrano che il 52 per cento della popolazione croata è assolutamente contraria al ritorno dei serbi", ha dichiarato Ivan-Zvonimir Cicak, leader del Comitato Helsinki Croato (HHO), una delle organizzazioni più influenti nella lotta per i diritti umani in questo paese. [...] Nel corso del periodo compreso tra la fine del 1995 all 1° giugno di quest'anno, dalla Federazione jugoslava e dalla Repubblica Serba di Bosnia sono tornati in Croazia, secondo i dati dell'Ufficio profughi della Croazia, poco meno di 60.000 serbi. Di questi, 32.500 sono tornati dalla Federazione jugoslava, e circa 26.500 dalla Slavonia orientale. I serbi tornano in Slavonia occidentale, Dalmazia settentrionale, entroterra dello Siben, Kordun, Lik e Banija. I dati riportati, tuttavia, sono incerti, perché si riferiscono sia a quelli che sono giunti in Croazia, si sono registrati e vi sono rimasti, sia a quelli che si sono registrati in una città come residenti fissi, ma a causa delle condizioni di vita ancora cattive, non si sono decisi per un ritorno definitivo. Il Partito Popolare Serbo di Zagabria (SNS) ha dichiarato all'inizio di luglio che tali dati sono inesatti, che si può parlare solo di 36.000 rientri. Savo Strbac, direttore del Centro informativo-documentativo "Veritas" di Belgrado, ritiene che la parte croata effettui manipolazioni con il numero dei rientranti. "Penso che non ne siano tornati in maniera stabile più di 20.000", afferma, aggiungendo che la maggior parte della gente è ancora mobile.

I miliardi

In un primo tempo, dopo la firma della pace, il governo croato ha consentito un ritorno individuale con il contagocce ed esclusivamente in base a motivi umanitari, cioè per il ricongiungimento delle famiglie divise. Il ritorno dei "cittadini croati di nazionalità serba" dalla Federazione jugoslava è cominciato alla fine del 1995 e dal 1996 il ritorno dei serbi prosegue sulla base dei documenti emessi a Vukovar. Dall'inverno scorso [1998-1999] i serbi hanno cominciato a rientrare in Croazia in numero sempre maggiore. Nel corso di quest'anno, tra le altre cose, sono tornati serbi trasportati in 26 convogli dell'UNHCR. I primi ritorni dalla Slavonia orientale o dalla regione danubiana della Croazia in altre aree del paese hanno cominciato a realizzarsi nella primavera del 1997. In tali aree soggiornano 3.000 serbi scacciati da altre zone della Croazia. Le autorità croate condizionano il ritorno dei serbi, tra le altre cose, anche all'ottenimento di aiuti finanziari internazionali dell'entità di miliardi di dollari. In conseguenza delle sempre più forti pressioni internazionali vengono rilasciate pubblicamente delle dichiarazioni secondo cui si è a favore del ritorno, ma la politica pratica della Zagabria ufficiale fa tutto il possibile per impedire tale ritorno, e questo in tutte le direzioni. Il presidente del Comitato civile per i diritti umani in Croazia, Zoran Pusic, ha espresso recentemente la valutazione secondo cui in Croazia non tornerà più del 40 per cento dei profughi serbi. La situazione "sul terreno" è ben lontana dall'essere buona e gli esempi che si possono osservare dipingono un'immagine completamente diversa da quella offerta dalle nude cifre. Ci sono troppi incidenti per parlare solamente di reazioni spontanee, e quindi parte del problema è probabilmente causato volontariamente dai rappresentanti del potere. Più che le promesse formulate dai ministri croati, sui profughi serbi influiscono le sempre più frequenti esplosioni di mine che, secondo le dichiarazioni reiterate della polizia, vengono collocate da "personaggi ignoti". Le mine sorprendono i rientranti a ogni passo: tra le macerie, nei campi, nei frutteti, di fronte alla soglia di casa. L'esplosione di ogni mina sotterrata ha un'eco multipla, ma la vera intenzione di chi le colloca è quella di inviare un segnale univoco a coloro che devono ancora tornare. A Banjaluka oggi vivono circa 20.000 serbi fuggiti dalla Croazia, che vengono alloggiati in appartamenti di croati e bosnjak. Le cifre che riporta l'Associazione dei serbi della Krajna e della Croazia dicono che in tutta la Repubblica Serba di Bosnia (RS) ci sono circa 50.000 profughi serbi. Tale associazione, insieme all'organizzazione identica dei profughi croati dalla RS, ha cercato l'anno scorso, nell'ambito di un progetto denominato "Evident", di stabilire in quale misura i serbi desiderano tornare. A causa della mancanza di finanziamenti e del disinteresse delle autorità, il progetto "Evident" è stato realizzato solo in parte. Quelli che potrebbero restare, secondo la legge Westendorp sulla cittadinanza, non possono ottenere quest'ultima fino al 2000. Anche se nella RS su di loro si "chiude un occhio" e possono ottenere una carta di identità della RS senza conferma delle cittadinanza, difficilmente i profughi di decidono a fare questo passo, perché temono che così possa essere loro impedito il ritorno in Croazia. Oltre che a Banjaluka, nella RS i profughi serbi vivono in comuni che confinano con la Croazia: Kozarska Dubica, Novi Grad, Gradiska...

Il ritorno alla vita

Milan Dukic, presidente del Partito Popolare Serbo di Zagabria afferma che in Croazia "non c'è la volontà politica necessaria affinché i serbi tornino, rimangano e trovino sussistenza". Egli afferma che "si sente come vi sia stato un certo impulso nella messa in atto del processo di ritorno, ma allo stesso si riscontra come le formulazioni dichiarative sull'intenzione del governo croato di mettere in atto il programma di ritorno, che hanno infiammato l'opinione pubblica interna e internazionale, siano cadute nel nulla". "Noi speriamo che la Croazia riesca comunque a essere più chiara di fronte alla comunità internazionale e all'opinione pubblica interna", afferma Dukic, il quale ritiene che il processo in atto in Croazia non possa essere definito rientro. "Se in un mese due o tre convogli con 30, e solo uno con 100, profughi scacciati da Dvor na Uni giungono a Knin, non si tratta di un rientro. Non hanno riportato con sé la vita, perché per la maggior parte si tratta di vecchi". I serbi in Croazia sono un tema politico in primo piano. "Se uno straniero non esperto dovesse giudicare la loro situazione basandosi sulle vaste nuove discussioni relative alla questione serba", ha scritto un giornalista di Zagabria, "potrebbe pensare che si tratta di una minoranza organizzata, pericolosa, che minaccia una sovranità nazionale raggiunta con grandi sacrifici, e che con il ritorno dei propri connazionali metterà immediatamente ancora in questione perfino la stessa esistenza dello stato croato". Fino a quando non cesserà il suono delle mine, rimane da vedere se sarà confermato come vero quanto si affermava in una la domanda rivolta un anno fa a Jacques Klein sul suo presunto accordo con il presidente Tudjman. E cioè che è stato concordato un ritorno dei serbi in Croazia in misura tale che essi rappresentino al massimo dal cinque al sette per cento della popolazione. Klein non ha risposto direttamente al giornalista, ma non lo ha nemmeno smentito. Ciò vorrebbe dire che in Croazia, che finora ha accolto con riluttanza i 60.000 cui si faceva riferimento sopra, dovrebbero tornare ancora da 50.000 a 130.000 serbi.

 

STATISTICHE: I PROFUGHI SERBI DALLA CROAZIA

Secondo l'ultimo censimento della popolazione in Croazia credibile (tenuto conto delle manipolazioni con la categoria "jugoslavo"), quello del 1981, i serbi in questa repubblica della ex Jugoslavia rappresentavano l'11,6 per cento di una popolazione complessiva di 4.600.000 abitanti, cioè erano 540.000. Il terrritorio della ex regione autonoma della Krajina (Dalmazia settentrionale, Lika, Kordun e Banija) era secondo lo stesso censimento abitato da 270.000 persone, 61,5% delle quali di nazionalità serba. Nel 1981 a Benkovac i serbi rappresentavano il 53% della popolazione, a Knin il 78,9%, a Korenica il 69,2%, a Petrinje il 37%, a Zagabria il 5,4%, a Osijek il 20%. Nell'anno 1993 il territorio della Repubblica Serba di Krajina, composto da 28 comuni (Regione autonoma della Krajina più Slavonia occidentale, Slavonia orientale, Baranja e Srem occidentale) aveva 436.000 abitanti, che in conseguenza della guerra erano al 90% serbi. Durante la guerra durata quattro anni, dalla Croazia sono stati scacciati circa 450.000 serbi. I dati dell'UNHCR parlano di circa 300.000 serbi della Croazia che sono fuggiti in Serbia e di 30.000 che si sono trasferiti nella RS. Tuttavia questi numeri riguardano unicamente le persone registratesi. I profughi hanno cercato rifugio nella RS e in Serbia in tre grandi ondate: nel 1991, quando sono arrivati in prevalenza dalle principali città dell'interno delle Croazia, nel maggio del 1995, dalla Slavonia occidentale dopo l'operazione "Lampo", e dalla Dalmazia, Lika, Banija e Korduna, nell'agosto dello stesso anno dopo, l'operazione "Tempesta". Nel corso dell'operazione "Tempesta" sono state scacciate almeno 220.000 persone e durante l'operazione "Lampo" 14.500. Nelle aree in cui è stata condotta l'operazione "Tempesta", nell'ottobre del 1995 vivevano 8.500 persone, di cui 1.500-2.000 non serbi. Nella Slavonia occidentale di serbi ne sono rimasti solo circa 800. Nella Slavonia orientale oggi, dopo il mandato UNTAES, vivono meno di 50.000 serbi, sebbene un tempo ve ne fossero circa 150.000. Le aree della Croazia dalle quali i serbi sono fuggiti in misura minore sono l'Istria e la zona di Rijeka. Secondo i dati del centro documentativo-informativo "Veritas", sul territorio della Repubblica Serba di Krajina nel corso della guerra sono morti o scomparsi 5.782 serbi.

 

STATISTICHE: I PROFUGHI CROATI DALLA BOSNIA

Censimento 1991: dei 750.000 (17,3%) croati che vivevano in Bosnia-Erzegovina prima della guerra, ne sono rimasti oggi circa il dieci per cento. Sul territorio della Bosnia-Erzegovina nord-occidentale (un quinto di tale area oggi appartiene alla FBiH [la cosiddetta "federazione croato-musulmana" - N.d.T.]) secondo il censimento del 1991 vivevano 82.000 croati, ovvero il 10,14% della popolazione complessiva. L'area del comune di Banjaluka era abitata da circa 31.000 croati (14,84%), a Prijedor ne vivevano 6.300 (5,60%), a Sanski Most 4.200 (7,10%), a Gradiska 3.400 (5,70%), a Laktasi 2.500 (8,64%), a Kotor Varos 10.500 (29,02%), a Mrkonjic Grad 2.100 (7,82%)... Più dei quattro quinti di tale popolazione è fuggita dai luoghi summenzionati nell'estate del 1992, e la maggior parte dei rimanenti tre anni dopo, con l'esodo dei profughi serbi dalla Repubblica Serba della Krajina. Oggi in tali territori, che fanno parte della RS, vivono in tutto circa 8.000 croati. Nel nord della Bosnia, nell'area della Posavina, nel 1991 vivevano 117.000 croati (26,40%). In termini di percentuale, rispetto alle altre nazionalità, ve ne erano di più a Samac 14.600 (44,68%), poi a Derventa 21.000 (39,01%), a Brod 14.000 (41%), a Modrica 9.600 (27,28%), a Doboj 13.200 (12,96%), a Prnjavor 1.700 (3,70%), a Teslic 9.500 (16,01%)... Circa il 98% della popolazione croata nella Posavina è stata scacciata nell'estate del 1992. Solo in un paio di centri abitati intorno a Prnjavor ne è rimasta un'infima percentuale del due per cento.

 

DAL RAPPORTO SUI PROFUGHI DAL KOSOVO A CURA DEL COMITATO HELSINKI SERBO
("Vreme", 26 febbraio 2000)

[...]

1. LE OPINIONI DEI PROFUGHI SERBI DAL KOSOVO

Campione e metodo di indagine

L'inchiesta è stata condotta a Kragujevac e dintorni, con il metodo di un campione rappresentativo. Gli intervistati (205 soggetti) erano persone adulte con famiglia, alloggiate in case (proprie o di conoscenti). (Va notato che a Kragujevac in tutto solo il 2,5% degli intervistati viene ospitato in centri collettivi). Queste persone hanno accettato l'inchiesta come un'occasione per esprimere i propri punti di vista e non vi sono state persone che hanno rifiutato di rispondere.

Anche se la distribuzione degli intervistati non copre completamente la popolazione serba nelle rispettive regioni, si può dire che l'inchiesta ha coperto tutte le principali aree abitate da serbi e tutte le maggiori città (Pristina, Pec, Djakovica, Urosevac, Gnjilane, Prizren), con l'eccezione di Kosovska Mitrovica.

Una lacuna dell'inchiesta è che non è stato coperto un numero sufficiente di intervistati provenienti da aree rurali e pertanto non è possibile sapere quali sono le specificità della popolazione che è fuggita dai villaggi del Kosovo. Una delle conseguenze di tale lacuna nell'inchiesta è tra le altre cose la distribuzione nel livello dell'educazione scolastica, che mostra una tendenza positiva verso l'educazione superiore:

Scuola elementare - 8,8%
Scuola media - 16,1%
Scuola superiore - 48,8%
Università - 26,3%

Come criterio medio di misurazione delle condizioni materiali degli intervistati abbiamo utilizzato il numero delle persone che lavorano nella famiglia (prima della fuga). Che si tratti di un indice davvero alto lo dice il fatto che tale dato sia in notevole correlazione (r=0,20) con il dato relativo al possedimento di immobili in Serbia (fuori dal Kosovo). Il fatto che il numero degli intervistati facenti parte di famiglie in cui nessuno è occupato sia eccezionalmente basso, è un indice delle differenze tra la posizione dei serbi del Kosovo e quella degli altri cittadini della Serbia. Di tali differenze sono un indice anche il modo in cui gli intervistati hanno commentato spontaneamente la propria sorpresa per le cattive condizioni economiche in Serbia. Inoltre, ben il 22,4% degli intervistati ha una casa, o una casa in costruzione, in Serbia (fuori dal Kosovo).

Alta occupazione - 24,4%
Buona occupazione - 55,1%
Cattiva occupazione - 19%
Disoccupazione - 1,5%

Gli intervistati di Pristina e quelli degli altri luoghi hanno dato risposte differenti tra di loro solo riguardo alla seguente domanda. Mentre i profughi da Pristina affermano per la maggior parte che il loro appartamento / la loro casa è ora occupata (63% rispetto al 35%), i profughi da sud parlano molto più frequentemente di case distrutte o incendiate (32% : 14%) o di mancanza di informazioni sulle condizioni della propria casa (25% : 13%). E' interessante osservare che il dato sulle condizioni della casa non ha in alcun modo influito sulla posizione dell'intervistato rispetto al ritorno e alla possibilità di una convivenza con gli albanesi e della pace in Kosovo!

Alla domanda se tornerebbero in Kosovo, la stragrande maggior parte (addirittura l'88,4%) ha risposto affermativamente, ma solo se verranno soddisfatte alcune condizioni. Oltre a questa schiacciante maggioranza, l'8,8% afferma che non tornerà mai, mentre l'1,5% prevede di tornare senza alcuna condizione.

Alla richiesta di classificare per importanza le condizioni necessarie per un ritorno in Kosovo, gli intervistati hanno con larga maggioranza (62%) messo al primo posto il ritorno dell'esercito e della polizia e subito dopo la richiesta di un (effettivo) disarmo dell'UCK. Al terzo posto, in termini di media, vi è la restituzione delle proprietà e immediatamente dopo il controllo dei confini. Bisogna aggiungere che la maggior parte degli intervistati ha espresso l'opinione che l'UCK sia "importato dall'esterno" e che le "bande" provenienti dall'Albania siano il maggiore ostacolo a una pace in Kosovo e al loro ritorno. Questa differenziazione tra gli "schipetari" residenti di lunga data e gli albanesi dell'Albania traspare dall'intera inchiesta e rappresenta l'opinione dominante tra i profughi serbi. La possibilità di avere un lavoro sembra essere una condizione relativamente irrilevante per il ritorno (forse per il fatto che implicitamente scompare come problema nel caso di un ritorno nella precedente posizione).

All'ultimo posto della classifica si trova la KFOR. Solo il 5% degli intervistati pone la presenza della KFOR al primo posto tra le condizioni per un ritorno in Kosovo, mentre un altro 4% la pone prima del ritorno dell'esercito e della polizia serbi. Ben il 74,1% dei profughi esprime una totale sfiducia nella KFOR (per un raffronto, solo l'1,9% degli intervistati esprime una totale sfiducia nella polizia e nell'esercito serbi)!

[...] In armonia con la precedente domanda sulle condizioni per un ritorno è la posizione rispetto alla possibilità di una pacificazioen della situazione in Kosovo. Quasi i due terzi degli intervistati pensano che sia possibile solo in presenza di un ritorno dell'esercito e della polizia serbi, e un altro 12,5% ritiene che non sia affatto possibile. Una parte limitata (4,2%) pensa che sia possibile in presenza di una divisione del Kosovo in cantoni etnicamente puliti (ovvero in una zona settentrionale e in una zona meridionale), mentre il 20,8% ritiene che ciò sia realizzabile in presenza di una KFOR (o un'altra forza internazionale) "più giusta", "più neutrale", "più obiettiva", ma allo stesso tempo con "una cacciata delle bande provenienti dall'Albania". Solo un numero limitato di intervistati ritiene che affinché ciò sia possibile è necessaria una "modifica del contesto internazionale", "un'immagine diversa della Serbia" o "un cambiamento di regime in Serbia".

La metà degli intervistati si è espressa scetticamente in merito alla questione della possibilità di un Kosovo multietnico (il 49% ha risposto che non è possibile un Kosovo multietnico). L'altra metà si divide in una percentuale più limitata (il 22%) di coloro che non hanno riserve nei confronti degli albanesi come popolo ("se abbiamo potuto vivere insieme in passato, potremo farlo anche in futuro") e una leggermente maggiore (29%) di coloro che vedono la possibilità di una convivenza unicamente con i residenti da lungo tempo ("i nostri vicini schipetari"), ma non con "i banditi penetrati dall'Albania". Per un'immagine completa dell'opinione sulla possibilità di una vita comune ci manca, purtroppo, il contesto politico. In particolare, rimane poco chiaro se la multietnicità viene accettata nel contesto dei precedenti rapporti politici oppure, invece, indipendentemente dai rapporti di forza politici (ovvero in una situazione in cui gli albanesi fossero la forza politica dominante e i serbi invece fossero in minoranza).

La netta maggioranza degli intervistati (71,7%) non è affatto soddisfatta della propria condizione di esilio né del trattamento che ha ottenuto in Serbia. Si lamentano di tutto - sia degli organismi statali che del trattamento riservato loro dai cittadini comuni. E' parzialmente soddisfatto (secondo il principio - "stiamo come stanno gli altri cittadini della Serbia") il 22,9% dei profughi, mentre è completamente soddisfatto solo il 5,4%. Va tuttavia osservato, che la posizione positiva rispetto alla propria condizione è fortemente correlata (r=0,31) con il possedimento di immobili in Serbia al di fuori del Kosovo!

2. LE OPINIONI DEI PROFUGHI ROM DAL KOSOVO

Campione e metodo dell'indagine
L'indagine è stata condotta nella zona residenziale "Veliki Rit" alla periferia di Novi Sad (100 intervistati) e nei dintorni di Belgrado (64 intervistati), con il metodo del campione rappresentativo. Gli intervistati erano persone adulte con famiglia, abitanti in alloggi di fortuna, dei quali si può affermare che sono assolutamente inadeguati. Hanno accettato l'indagine come una possibilità di esprimere le proprie opinioni, con l'evidente speranza che ciò possa portare loro qualche vantaggio concreto, quindi non ci sono state mancate risposte.

Il limite metodologico dell'inchiesta è che essa è stata condotta molto spesso "in gruppo". In particolare, anche in questa indagine si è ripetuta una situazione caratteristica delle inchieste condotte tra i rom: intorno ai singoli che dovevano essere oggetto dell'indagine ben presto si raccolgono i membri della famiglia e i vicini, cosicché le risposte sono state raccolte dall'intero gruppo, e non dal singolo in questione. Un altro problema è rappresentato dal basso livello medio di scolarizzazione dei rom, che ha impedito una variazione più sottile delle risposte, un fatto che ha influito notevolmente sulle percentuali delle singole risposte raccolte rispetto a quelle ottenute dai profughi serbi.

Gli intervistati provenivano da tutti i comuni del Kosovo e il gruppo di dimensioni maggiori era quello proveniente da Pristina (16%). La distribuzione rispetto al livello di scolarizzazione ha una netta tendenza verso l'istruzione inferiore, ma corrisponde al quadro normale del livello di scolarizzazione della popolazione rom. Come criterio medio di misurazione delle condizioni materiali degli intervistati abbiamo preso il dato del numero delle persone che lavorano nella famiglia (prima della fuga).

Condizione della casa

Rispetto alle risposte ottenute dai profughi serbi, i rom hanno molte più case distrutte, addirittura il 76%, mentre quelle rimaste in buono stato sono complessivamente il 9% e quelle occupate il 15%.

Disponibilità al ritorno in Kosovo

Complessivamente, solo l'1% dei profughi tornerebbe in Kosovo senza condizioni, mentre addirittura la metà non lo farebbe in nessun caso! Il rimanente 48% ritiene l'esercito e la polizia serbi come la condizione per il ritorno.

Alla domanda "Cosa è necessario per garantire le condizioni di un vostro ritorno e per una normale vita quotidiana" abbiamo ottenuto una varietà decisamente ristretta di risposte (di gran lunga più ristretta rispetto ai profughi serbi). Ciò può essere in parte spiegato con la marcata tendenza dei rom (che è trasparita lungo l'intero svolgimento dell'indagine) a indicare i serbi e la Serbia come propri unici difensori e amici. In tal modo si può spiegare come tra le opzioni offerte, la stragrande maggior parte abbia scelto la risposta "Solo in presenza di un ritorno dell'esercito e della polizia serbi". In una limitata percentuale (12%) è emersa un'altra risposta: "la costruzione di una casa nuova".

E' possibile la pace in Kosovo?

In armonia con le risposte citate sopra, gli interessati che ritengono la pace possibile unicamente in presenza dell'esercito e della polizia serbi (oppure pensano che tale formulazione sia quella più soddisfacente per loro) sono il 44%, mentre l'8% complessivamente menziona altre condizioni per una vita sicura. Ben il 48% non crede che la pace possa mai tornare in Kosovo.

E' possibile nuovamente una vita in comune?

I rom hanno dimostrato la tendenza, in questa indagine (così come era avvenuto in alcune idagini precedenti), a rappresentarsi come popolazione molto tollerante nazionalmente. Alla domanda sulla possibilità di un Kosovo multietnico (vale a dire sulla possibilità di una nuova vita in comune con altre popolazioni in Kosovo) il 13% ritiene che sia possibile con tutti, mentre l'87% ritiene che sia possibile unicamente con i serbi.

Tuttavia, alla domanda, "Come vivevate con le altre popolazioni prima dell'inizio del conflitto?" quasi la metà (47%) afferma di non avere avuto alcun problema, mentre i rimanenti hanno affermato di vivere meglio con i serbi. Solo l'1% riconosce di avere avuto cattivi rapporti. In armonia con tali risposte [...], i rom affermano che in Serbia stanno "bene" (56%) o "altrettanto bene dei serbi" (10%). Perfino coloro che sono stati inseriti nella categoria "cattivo trattamento" (34%) non hanno formulato esplicitamente tale valutazione, ma è stato l'intervistatore a dedurlo dalle loro affermazioni sulle proprie condizioni.

Osservazioni

I media di regime, concentratisi sulla "grande vittoria nella difesa dell'integrità dello stato", hanno taciuto sull'arrivo di migliaia di profughi dal Kosovo parallelamente alle unità "eroiche e invitte" dell'esercito e della polizia. Nel giro di soli alcuni giorni, dalla Metohija è fuggita l'intera popolazione serba e rom, ma anche la maggior parte dei gorani, degli egiziani e dei membri di altre nazionalità. Per la paura della vendetta e del revanscismo, ma anche dell'entrata non regolata di criminali dall'Albania, questa popolazione ha cercato rifugio in Serbia e in Montenegro, mentre parte di essa si è ritirata nelle zone interne del Kosovo. E anche se la paura di queste persone è giustificata e comprensibile, molti indizi mostrano come l'esodo da tale zona non sia stato interamente spontaneo e incontrollato. Un gran numero di profughi ha testimoniato come la propria fuga abbia seguito gli ordini degli ufficiali dell'esercito e della polizia e alcuni di essi possiedono anche le relative schede verdi di notifica-revoca della residenza, ricevute dalla polizia locale prima della firma degli Accordi di Kumanovo. Il tentativo di trattenere con la forza queste persone a Pristina e in altre zone a nord sono un'indicazione dei piani di spartizione del Kosovo, alla quale avrebbe dovuto probabilmente fare seguito un "esodo umano" e l'annessione del Kosovo settentrionale alla Serbia. Sebbene l'evoluzione negativa della situazione sul terreno abbia presto portato a un esodo dei serbi anche dal territorio del Kosovo centrale e settentrionale, si ha l'impressione che il regime (a lungo termine) non abbia comunque ancora rinunciato a tale soluzione. [...]

Riguardo al numero complessivo dei profughi (espatriati) dal Kosovo, è indicativo che nemmeno un organismo statale, ivi compresi quelli che si occupano specificamente del problema (Croce rossa jugoslava, Commissariato per i profughi e gli espatriati) abbia fino a oggi pubblicato alcuna informazione ufficiale in merito. Inoltre, lo stato non ha ancora avviato nemmeno i preparativi per un loro censimento, anche se una tale azione viene di tanto in tanto annunciata dai media. A seconda di quanto risulta loro utile, i funzionari della repubblica e di partito manipolano le cifre che, nella maggior parte dei casi, risultano essere irreali o esagerate. Allo stesso tempo, si minimizza costantemente il numero di coloro che sono rimasti in Kosovo e le loro attività vengono tenute nascoste all'opinione pubblica. Secondo le affermazioni del vicepresidente del Comitato esecutivo dell Consiglio Nazionale Serbo [del Kosovo - N.d.T.], Randel Nojkic, in Kosovo all'inizio di dicembre vi erano ancora circa 110.000 serbi. I dati cui è giunto il Comitato Helsinki per i diritti umani affermano che nei quattro distretti della Serbia centrale (Sumadijski, Pomoravski, Podunavski e Branicevski, che comprendono insieme 24 municipalità) alla stessa data erano registrati 49.065 profughi, nella zona di Novi Pazar 5.200, a Kraljevo circa 17.000, a Kursumlija circa 8.000, mentre per la Vojvodina, la Serbia orientale e quella occidentale vengono calcolati numeri ancora inferiori. Se questi dati sono anche solo approssimativamente giusti, il numero dei profughi serbi è inferiore a 90.000, una cifra che è in contraddizione con le affermazioni dei funzionari serbi, ma coincide con i dati statistici pubblicati sulla struttura nazionale della popolazione. [...]