I BALCANI E LE GRANDI POTENZE
LA CRISI JUGOSLAVA NON E' IL PRODOTTO DI UN "COMPLOTTO" ESTERNO


maggio 2000, di Catherine Samary, apparso originariamente in "Critique Communiste" dell'autunno 1999, e successivamente in versione castigliana in "Viento Sur" del dicembre 1999. La traduzione di Cinzia Garolla è stata effettuata su quest'ultima versione.

 

La crisi jugoslava non è il prodotto di un "complotto" esterno, contrariamente a ciò che afferma una tesi diffusa a Belgrado. Non è dovuta nemmeno a fatali odi interetnici. E'in primo luogo il risultato di cause socioeconomiche e politiche derivanti dal regime titoista , ma i fattori internazionali hanno aggravato, e catalizzato, la crisi. E' questa articolazione interna/esterna che fa discutere anche sulla questione specifica del Kosovo.
La federazione titoista è entrata in crisi durante gli anni '80, soprattutto perché era stata incapace di riassorbire le differenze di sviluppo tra regioni e di assicurare una democrazia individuale e collettiva che desse all'autogestione una sua coerenza. Si tratta di questioni non risolte che ancora sono sul terreno, principalmente per la messa in marcia di un progetto socialista europeo: bisogna inventare le forme di una pianificazione autogestionaria che permetta l'associazione di regioni e paesi con un livello di sviluppo diverso, in modo che ciascuno abbia la sensazione di guadagnarci e di poter controllare i progetti comuni. E bisogna anche inventare le forme di una democrazia politica pluralista nella quale si realizzino sia una cittadinanza universale sia diritti collettivi (che forme di rappresentanza per le donne, i popoli, i lavoratori?). Le questioni nazionali nello spazio jugoslavo, come in altri luoghi, rimandano a questioni socioeconomiche e politiche da risolvere: perché popoli diversi possano vivere insieme in modo duraturo, bisogna avvicinare il livello di sviluppo delle regioni, assicurare a ogni persona diritti sociali uguali e, sul terreno politico nel senso ampio,è necessario un consenso sullo statuto delle lingue e dei meccanismi di decisione per i diversi popoli. Dopo le pagine nere della seconda guerra mondiale, i decenni di pace del regime jugoslavo non sono stati artificiali. I progressi reali del livello di vita e dei diritti (in confronto con il passato) sono la spiegazione fondamentale di questa relativa stabilità. Ma la repressione delle dissidenze o di qualsiasi movimento indipendente (sindacale o politico) ha reso fragile l'insieme. Questa assenza di democrazia ha distrutto le conquiste ereditate da una lotta antifascista che si era combinata con una politica di sviluppo (distribuzione delle terre, creazione di posti di lavoro, sviluppo culturale) e di fraternità tra i popoli. Questi sono stati gli ingredienti della vittoria del titoismo prima di tutto contro il fascismo e poi contro i diktat del Cremlino stalinizzato.
I fattori internazionali hanno aggravato potentemente la fragilità e poi la disintegrazione della federazione. I conflitti e la rottura con il Cremlino nel 1948 ruppero i progetti iniziali di confederazione balcanica (il ripiegamento sul progetto jugoslavo, che collocava gli albanesi del Kosovo in una situazione di repressione iniziale e poi di popolo di serie B). Le tensioni continue con l'URSS ebbero conseguenze complesse (che qui non si possono trattare). Non giunsero a una rottura con il sistema del partito unico: la flessibilizzazione del regime si fece sentire allora piuttosto sul terreno delle riforme economiche. Lo sviluppo dei diritti di autogestione nelle imprese (molto popolari tra i lavoratori fino alla fine degli anni '70) operò sfortunatamente insieme all'introduzione della concorrenza tra queste imprese in rapporti di mercato: questi meccanismi e la repressione smantellarono le solidarietà e il potenziale progressista del sistema, togliendogli ogni coerenza di insieme. L'apertura al mercato mondiale fu per questo particolarmente pericolosa.

Il capitalismo disgregatore
A quanto detto si aggiungono i fattori internazionali legati al capitalismo che circondava il paese e le sue recenti trasformazioni che rimandano sia a meccanismi socioeconomici sia a opzioni politiche delle grandi potenze. Il debito estero di 20 miliardi di dollari all'inizio degli anni '80 derivava da una doppia serie di cause: cause interne di fallimento (sperpero burocratico, incoerenza di un sistema d'autogestione sempre più compartimentato nella misura in cui la repressione dei conflitti aveva spinto all'"ognuno per sé"); ma anche fattori esterni intrecciati uno agli altri. L'apertura imprudente del sistema al mercato mondiale negli anni '60 aveva portato a una dipendenza stretta dalle importazioni, soprattutto di petrolio. L'aumento dei prezzi del petrolio negli anni '70, dopo quello dei tassi di interesse all'inizio degli anni '80, hanno aumentato una "crisi del debito" che ha sottoposto il paese alle disastrose politiche di aggiustamento strutturale del FMI.
La volontà di aderire alla Comunità Europea (dove veniva accentuato un corso liberale radicale negli anni '90) ha disgregato ancor più tutte le solidarietà: le regioni ricche si presentavano come i "buoni europei" degni di entrare nell'UE contro i popoli balcanici, "pigri e incapaci". La Slovenia non voleva continuare a pagare per il povero Kosovo, come le Fiandre non vogliono continuare a pagare per la Vallonia. Alla fine degli anni '80, la differenza di reddito per abitante tra regioni andava da 1 a 7. La disoccupazione era inferiore al 2% in Slovenia, superiore al 20% in Kosovo dove più della metà della popolazione aveva meno di ventanni (oggi, il 70% della popolazione kosovara ha meno di trentanni). Alla fine, l'ascesa delle politiche liberali di privatizzazione nel contesto della crisi dell'insieme dei cosiddetti paesi socialisti ha portato alla disgregazione dell'insieme del sistema dopo un decennio in cui migliaia di scioperi sono rimasti atomizzati e disarmati di fronte a un'iperinflazione a tre cifre e a un'assenza di alternativa di insieme credibile. Le regioni meno sviluppate (Bosnia, Macedonia) spingevano verso una ridefinizione della federazione che ridistribuisse di più le ricchezze, ma le regioni più ricche, Slovenia e Croazia tendevano al contrario verso una maggiore indipendenza. In mezzo, La Serbia voleva ridefinire la Jugoslavia a beneficio della maggioranza relativa serba, cominciando nel 1989 da un recupero del controllo delle province autonome della Voivodina e del Kosovo. Era l'inizio di una messa in discussione dell'insieme della Costituzione jugoslava, il cui cemento socioeconomico da quel momento veniva sgretolato dalla perdita di sostanza di ogni autogestione e dai conflitti crescenti tra i poteri repubblicani e il "centro".
Si dice a volte che se le grandi potenze, e soprattutto i governi dell'UE, avessero avuto una politica di aiuto alla Jugoslavia, perché questa si integrasse il più rapidamente possibile nell'Unione, la crisi e l'esplosione sarebbero stati evitati. Ma con l'arrivo di Gorbaciov al potere nel 1985, e, successivamente, la caduta del muro di Berlino nel 1989, la Jugoslavia non giocava più un ruolo di "dissidenza" nel "mondo comunista". La crisi di un sistema che aveva potuto incorporare elementi di un socialismo autogestionario (tanto più attraente negli anni '60 perché aveva conosciuto uno dei più forti tassi di crescita del modo in quell'epoca) alla fine conduceva a un'offensiva liberale antioperaia: i meccanismi mercantili preconizzati in Jugoslavia dovevano smantellare l'autogestione. Dovevano anche aumentare le distanze tra regioni ricche e povere come in tutte le altre parti del mondo. Ma, a parte la Germania, i governi occidentali non volevano l'esplosione della Jugoslavia.

Dietro la realpolitik

Di fatto, le grandi potenze si sono trovate nella crisi jugoslava e nel suo recente episodio del Kosovo di fronte a una contraddizione importante tra un obiettivo di stabilizzazione di questa area e il carattere profondamente disgregante delle politiche liberali di privatizzazione che propagavano nella stessa.
Da un lato, sul terreno politico, il loro obiettivo principale era quello di contenere l'esplosione delle frontiere e dei conflitti territoriali, anche se i gruppi di pressione militari potevano vedere nelle guerre locali una fonte di profitti. Per questo, salvo la Germania, i governi occidentali e il FMI avevano come priorità, fino alle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e di Croazia nel 1991, una trasformazione liberale della Jugoslavia (all'opera dalla fine degli anni '80) e non la sua disgregazione. La restaurazione capitalista ha bisogno di uno stato stabile. Come ottenere tale stabilità? Non c'era risposta "di principio" a questa domanda, ma una posizione pragmatica. Prima delle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia del 1991, due insiemi di fattori spingevano i governi occidentali a preferire il mantenimento dello Stato jugoslavo: da un lato i creditori, principalmente il FMI, preferivano trattare con il potere centrale per gestire e ottenere il rimborso del debito estero di 20 miliardi di dollari; dall'altro i governi occidentali preferivano politicamente uno Stato federale che contenesse i nazionalismi.
Ma il "principio" di preservazione delle frontiere jugoslave si scontrava con il diritto di autodeterminazione. Questo era riconosciuto nella Costituzione jugoslava per i "popoli" slavi costitutivi della Jugoslavia, ma non per le comunità dotate di uno Stato all'estero come gli ungheresi o gli albanesi. Che cos'è un popolo o una nazione dotata del diritto di autodeterminazione? Questa nozione aveva un senso etnico-culturale che era distinto nella Costituzione jugoslava da quello di cittadinanza: si era cittadino jugoslavo, e allo stesso tempo si apparteneva a un "popolo" o "nazione" serba, croata, slovena, montenegrina, macedone e, dagli anni '60 "musulmana" nel senso etnico-nazionale, in Bosnia. Ma i "popoli" non si sovrapponevano alle repubbliche.
Negli anni '90 di crisi aperta e di scoppio della federazione, i referendum di indipendenza delle repubbliche etnicamente non omogenee (tutte tranne la Slovenia) si sono scontrate dovunque con i timori (ereditati dai traumi passati) e con il rifiuto di massa delle comunità minoritarie di avere uno statuto di "minoranza" sottomessa alla nazione localmente dominante: ciò che era già vero per gli albanesi del kosovo, trovava espressione anche per gli albanesi in Macedonia, così come per i serbi in Croazia o anche per i serbo-bosniaci e i croato-bosniaci. Ma se i serbi della Croazia erano considerati come uno dei "popoli" di questa repubblica, questo non era il caso degli albanesi del Kosovo. Comunque nel 1990, Tudjman modificò lo statuto dei serbi della Croazia, da allora minoranza come gli albanesi. Ma questi presero le armi e cacciarono i loro vicini croati autoproclamando la "repubblica di Krajina" mentre gli albanesi del Kosovo, ampiamente maggioritari in questa provincia, resistettero pacificamente per 10 anni proclamandola, anche loro, "repubblica".
La politica delle grandi potenze consistette allora nell'appoggiare l'indipendenza degli "Stati" (repubbliche dell'ex-Jugoslavia) mettendo in questione la frontiera jugoslava, tentando però di mantenere le frontiere repubblicane. Si opposero poi alle logiche secessioniste interne in queste repubbliche, quelle dei serbo-bosniaci, e dei croato-bosniaci principalmente; ma anche a quelle dei serbi della Croazia. Per il timore di rendere ancor più fragile la Bosnia e la Macedonia (dove gli albanesi rivendicano uno statuto di popolo) seppellirono la questione del Kosovo negli accordi di Dayton. In questo piano si appoggiarono al regime serbo di Milosevic contro le aspirazioni degli albanesi kosovari: non ebbero dubbi nell'appoggiare la repressione dello Stato serbo contro l'UCK definita come "terrorista" meno di un anno prima di Rambouillet (così come appoggiano la repressione dei ceceni da parte del potere russo). La strategia privilegiata fino a Rambouillet fu piuttosto la ricerca di compromessi tra il capo eletto dagli albanesi kosovari, Hibrahim Rugova, Slobodan Milosevic e il governo albanese, anche se la diplomazia americana proclamava da tempo che non avrebbe tollerato una repressione "eccessiva" verso il popolo albanese. "Ogni soluzione (della crisi jugoslava) dal 1991 è fondata sull'inviolabilità delle frontiere" riaffermava durante la conferenza di Rambouillet Jiri Dienstbier, informatore speciale dell'ONU per la ex-Jugoslavia. " Se questo principio non viene mantenuto in Kosovo, si metterà in discussione ogni soluzione", proseguiva il vecchio ministro ceco degli Esteri, concludendo: "se il Kosovo ottiene l'indipendenza, ciò, secondo me, aprirà la strada alla spartizione della Bosnia poiché nessuno potrà più impedirlo". Il timore che l'indipendenza del Kosovo destabilizzasse l'Albania, la Macedonia e la Bosnia-Erzegovina era il sottofondo di questa politica. Ma nessun piano d'azione comune per gestire questo conflitto esplosivo al livello in cui si esprimeva, cioè a livello balcanico, fu messo in piedi. La questione albanese fu sotterrata a Dayton e con questa, la questione dei serbi della Krajina croata: il silenzio sul Kosovo dove da dieci anni la comunità albanese resisteva pacificamente al giogo di Belgrado accompagnava una realpolitik che aveva taciuto sulla pulizia etnica di 200.000 serbi nella Krajina croata nell'estate del 1995.

Fattori di disgregazione

Ma questa prima logica che aveva l'obiettivo di contenere l'esplosione dei Balcani è stata potentemente smentita da fattori socioeconomici e politici che andavano in senso contrario. La corsa alle privatizzazioni e per l'integrazione nell'UE è stata e continua ad essere un fattore di disgregazione della federazione: il controllo dei territori da parte di stati definiti su base etnica punta al controllo delle ricchezze e della valuta. La confederalizzazione della Jugoslavia titoista dalla metà degli anni '60 aveva favorito lo sviluppo delle burocrazie nazionali consentendo di accentuare i loro poteri sui territori delle repubbliche e delle province. La burocrazia serba aveva perso così la sua posizione dominante in Kosovo con l'autonomia di quasi repubblica che questa aveva ottenuto nella Costituzione del 1974. Il controllo delle miniere e dell'apparato istituzionale del Kosovo (massicciamente albanizzato dalla metà degli anni '60 fino alla svolta del 1989), come il controllo dell'accesso al mare in Montenegro o delle terre fertili della Vojvodina sono questioni strategiche di sottofondo dei conflitti costituzionali e nazionali che lacerano ancora oggi la Repubblica jugoslava. L'esplosione della stessa Jugoslavia titoista (e la messa in discussione dei suoi fragili equilibri istituzionali) è stata aggravata dalla politica di oppressione e di repressione condotta dal regime serbo in Kosovo. Queste politiche, dal canto loro, hanno radicalizzato le aspirazioni indipendentiste degli albanesi-kosovari che, prima in modo pacifico poi attraverso la lotta armata, hanno scommesso su un'internazionalizzazione del conflitto, incitati di fatto dalle dichiarazioni americane. Il ristagno della situazione dopo dieci anni di resistenza pacifica, ha portato dopo Dayton all'emergere dell'UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) la cui strategia di scontro armato con il potere serbo è sfuggita al controllo delle grandi potenze: questo è ciò che Rambouillet avrebbe voluto contenere.
I governi dell'UE hanno preso l'iniziativa della conferenza di Rambouillet sperando di ottenere un successo diplomatico pari a quello di Dayton per gli Stati Uniti: quello che era prioritario dal punto di vista geostrategico per loro era la costruzione dell'Unione Europea sul terreno politico.

La posta in gioco a Rambouillet

Ma i rapporti di forza politico-militari sul terreno dopo tre anni di guerra di vari eserciti in Bosnia non avevano niente a che vedere con la situazione in Kosovo. Il piano di Rambouillet voleva imporre un compromesso: ritorno ad una sostanziale autonomia del Kosovo, ma rifiuto dell'indipendenza. Una forza di interposizione internazionale doveva ottenere il ritiro delle forze serbe e il disarmo dell'UCK. Il regime serbo accetta incondizionatamente, all'apertura di Rambouillet, i principi della parte politica, perché escludevano l'indipendenza, ma rifiuta la Nato. La delegazione albanese-kosovara rifiuta al contrario l'autonomia (e il disarmo) ma è favorevole all'intervento della Nato.
Il progetto di Rambouillet era prendere o lasciare su una questione eminentemente conflittuale e sulla quale tutti gli altri conflitti della stessa natura (da Cipro alla questione kurda passando per il conflitto israelo-palestinese) sono durati anni senza giungere a una soluzione.
Rambouillet rimandava a una diplomazia con il "forcipe", con l'obiettivo di ottenere un successo diplomatico facendo firmare, come a Dayton, un testo contraddittorio in cui ognuno spera che il tempo giocherà nel senso della "sua" interpretazione dell'accordo: con questo si pensava di apportare un miglioramento per i kosovari tornando a un'autonomia soppressa nel 1989 dal potere serbo; e si pensava che fosse accettabile da Belgrado perché escludeva l'indipendenza.
Ma il piano prevedeva che il "compromesso" si accompagnasse a una doppia smilitarizzazione (ritiro delle forze serbe e disarmo dell'UCK) con una forza di interposizione internazionale a verificare la sua applicazione (gli Stati Uniti volevano che fosse la Nato, ma il progetto iniziale non lo specificava come "obbligatorio"). Claire Trean evoca questa diplomazia con il "forcipe"(senza turbarsi per questo) in Le Monde del 6 febbraio : "Quindici giorni per raggiungere la pace". L'idea (sic) è fissare un quadro rigido ai negoziati, le parti in conflitto non dovendo accordarsi che sui dettagli di questo piano (ri-sic), che deve disegnare per tre anni uno statuto "di autonomia sostanziale" del Kosovo. L'85% del progetto che si porrà sul tavolo "non è negoziabile" ha dichiarato un responsabile americano, aggiungendo che non si sarebbe lasciato agli interessati "nessun margine di manovra per decidere aspetti fondamentali di questo piano (sic)". La giornalista concludeva, senza che ciò costituisse per lei un problema: "Per quanto riguarda gli interessati, partono da posizioni diametralmente opposte su tutti i punti (). La cosa più difficile sarà ottenere un accordo in meno di quindici giorni". Allucinante. Ma vero.
Lo stesso giorno, Le Monde indicava quale era l'obiettivo, secondo Bill Clinton: "è adesso che dobbiamo fermare il conflitto" (6 febbraio, Patrice de Beer). "Fermare il conflitto" e non (come si dirà dopo) "impedire l'applicazione di un piano di pulizia etnica".
Alcuni mesi prima, "fermare il conflitto" passava agli occhi degli occidentali attraverso un negoziato tra Milosevic e Rugova e attraverso la repressione serba dell'UCK denunciata come "terrorista". Erano gli "eccessi" della repressione serba che venivano condannati regolarmente con "minacce di attacchi aerei". L'effetto di questa diplomazia "preventiva" di tipo particolare, fu di incitare l'UCK a lanciare l'offensiva (principalmente perché si rompesse la tregua dell'inverno del 1998, nel corso della quale erano stati disposti sul territorio gli osservatori dell'OSCE e in cui decine di migliaia di abitanti delle città erano tornati). Gli albanesi indipendentisti non sono solo vittime; sono attori di un progetto politico: l'indipendenza. Si può dare un giudizio politico sul modo in cui hanno portato questo progetto alla sua realizzazione, ma non ignorarlo quando era evidentemente sia causa che effetto della repressione serba che Rambouillet tentava di "inquadrare".
Bill Clinton spiegava nell'articolo citato (6 febbraio) che si trattava di frenare gli ingranaggi della violenza, ottenendo un accordo (cioè un compromesso). L'articolo si concludeva presentando quali erano allora, secondo Madeleine Albright, i punti più importanti di Rambouillet. "se il presidente Milosevic rifiuta le proposte del Gruppo di Contatto () ci potranno essere attacchi aerei. Se gli albanesi del Kosovo si oppongono al progresso di Rambouillet () non potranno contare sulla Nato e sulla comunità internazionale per un aiuto. Se le due parti arrivano a un accordo, dovremo concentrare i nostri sforzi per assicurare il suo successo". Nemmeno una parola sulla fatalità di un piano di pulizia etnica in tutto questo. E un'unica dissimmetria di trattamento: non si può minacciare di bombardare l'UCK. Di fronte al rifiuto del piano da ambo le parti, la diplomazia americana con l'accordo dei governi europei si fece carico della questione (e dell'UCK i cui giovani quadri furono immediatamente valorizzati). L'obiettivo politico fu quello di ottenere la firma degli albanesi-kosovari e la rottura con Belgrado, le cui responsabilità in una messa in discussione dell'autonomia del Kosovo erano manifeste (era necessaria una "legittimazione morale" della guerra). Da qui le promesse verbali di voto di autodeterminazione dopo i tre anni e l'intransigenza sulla Nato (allegato B del piano).
Il bombardamento di Belgrado fu inizialmente motivato dal rifiuto di firmare l'accordo. Fu giudicato politicamente meno grave del fallimento diplomatico per i governi europei e americano; e agli occhi degli Stati Uniti implicava vantaggi geostrategici importanti. Ma gli uni e gli altri intrepresero questa avventura solo perché era previsto che non durasse: lungi dall'identificare allora Milosevic con Hitler, si insisteva al contrario nelle diplomazie sul fatto che il dirigente jugoslavo aveva rinunciato ai progetti della Grande Serbia in Croazia e in Bosnia e che sarebbe stato di conseguenza disposto a rinunciare al Kosovo, presentandosi come il salvatore del suo popolo contro una guerra della Nato.
E' difficile conoscere la parte di cinismo o di meccanismi non controllati (e anche di un progetto ultimo e inconfessabile di divisione etnica del Kosovo) di questa guerra e dei suoi "effetti collaterali". In ogni caso il timore di una destabilizzazione dei Balcani (sia per l'indipendenza del Kosovo, sia per una repressione serba "eccessiva") è la questione politica iniziale su cui si aggiunsero i fattori geostrategici.
Gli Stati Uniti sfruttarono il vicolo senza uscita di Rambouillet per perseguire obiettivi maggiori: legittimare una guerra della Nato senza passare attraverso l'Onu - cioè, aumentare nella pratica i pieni poteri di decisione degli Stati uniti; consolidare le basi della Nato in Albania e nei Balcani in generale; accentuare la definizione della cosiddetta politica di sicurezza europea nel quadro dell'Alleanza atlantica - a scapito dell'OSCE. Per i governi dell'UE, si trattava di "costruire" l'Europa politica, e di conseguenza evitare il totale fallimento della sua politica estera "comune".
Da parte sua, il potere serbo tentò di sfruttare i bombardamenti della Nato su vari piani: approfittare dello stato di guerra e di aggressione per annientare la sua opposizione, e eventualmente lanciare un'offensiva militare per il controllo del Montenegro, il rischio di un colpo di stato è sempre presente; lanciare in Kosovo l'esercito, le forze paramilitari del suo partito e dei suoi alleati di estrema destra in un'operazione di pulizia etnica massiccia mirando senza dubbio a vari obiettivi più o meno combinati, offrendo "uscite" alternative al conflitto: o una zona etnica del Kosovo (sforzandosi di associare ai monasteri le ricche miniere del nord nella parte assogettata alla Serbia); o un'autonomia basata su una modificazione della composizione etnica della provincia (ricolonizzata dai rifugiati serbi della Croazia e della Bosnia) e una divisione etnica delle istituzioni (e della fiscalità) associata a una sconfitta politico militare dell'UCK oppure una destabilizzazione dei paesi vicini, basi di intervento delle truppe della Nato.

Quale bilancio?

La guerra della Nato non ha sbarrato il passo alle azioni del progetto nazionalista serbo di pulizia etnica del Kosovo; lo ha catalizzato e drammaticamente facilitato dandogli una copertura. I bombardamenti hanno provocato un rigurgito patriottico in Serbia, consolidando, e non indebolendo, Slobodan Milosevic. Ma nonostante la percezione del Kosovo come una provincia serba e il rifiuto radicale dell' UCK come "organizzazione terrorista" che legittima la repressione serba, non è vero che la popolazione serba e montenegrina fosse mobilitata per appoggiare un "genocidio" (la televisione di Belgrado mostrava l'incontro tra Miloesvic e Rugova e pretendeva che gli albanesi fuggissero dalla Nato e non dalle azioni di violenza serba). I giovani non erano disposti a morire per pulire etnicamente il Kosovo dalla sua popolazione albanofona. La violenza fu il prodotto di gruppi paramilitari che arruolavano un certo numero di serbi del Kosovo, molti dei quali scelsero l'odio e la violenza dopo l'inizio dei bombardamenti. Le prime diserzioni nell'esercito, ancora prima della conclusione degli accordi, e le proteste tra le giovani reclute indicano una distanza tra ciò che ufficialmente era il motivo della loro chiamata (contro la Nato) e le scene di atrocità alle quali vennero più o meno associati. Il bilancio dovrà essere minuzioso. Oggi esistono tutti i mezzi necessari perché si compiano indagini in Kosovo sui crimini commessi (principalmente le torture inflitte nel corso della repressione dei kosovari prima della guerra della Nato). Facendo ciò, si dovrà discutere sia la propaganda di Belgrado che quella della Nato.
Lungi dal facilitare la caduta di Slobodan Milosevic sulla base di una chiarificazione politica e di una critica progressista della sua politica, la Nato ha seminato più confusione che mai e ha reso ancora più problematico l'emergere di un'opposizione coerente e progressista. Spetta alla popolazione jugoslava, soprattutto serba, e non alla Nato, fare un bilancio finale dei drammi a cui l'ha condotta la politica di Milosevic. L'incriminazione di Milosevic, e il condizionamento dell'aiuto economico, spingono un buon numero di vecchi fautori della "Grande Serbia" a riciclarsi in campagne "radicali" per le dimissioni di Milosevic. Possono appoggiarsi sull'aspirazione alla pace e a ricevere crediti occidentali per ricostruire un paese distrutto, e anche sulle disillusioni accumulatesi nei confronti del regime di Milosevic. Ma anche l'amarezza verso la politica della Nato è molto profonda, e rende incerto il risultato delle elezioni. La grande massa dei rifugiati serbi del Kosovo, della Croazia e della Bosnia corre il rischio di fornire la base elettorale al Partito Radicale di estrema destra.
Il protettorato messo in piedi riafferma la sovranità serba del Kosovo e prevede il ritorno dell'esercito serbo alle frontiere e contemporaneamente fa del marco la moneta ufficiale. E' agli antipodi del "Kosovo multietnico e tollerante" che pretende di imporre; e impone una forma di neocolonialismo e di presenza straniera massiccia e corruttrice in contraddizione con le aspirazioni dei kosovari a gestire da soli il Kosovo. Si può capire che le truppe della Nato siano state percepite come forze di liberazione di fronte al giogo di Belgrado, ma non hanno messo fine, anzi hanno aggravato le tensioni tra le comunità; e non hanno riconosciuto, anzi tentano di contenere il diritto dei popoli a prendere il destino nelle proprie mani.
La coscienza crescente dei disastri non confessati della guerra e del groviglio delle questioni nazionali nell'insieme dell'Europa balcanica è all'origine della proposta del "Patto di stabilità" firmato a Sarajevo il 31 luglio del 1999 con i governi della regione, eccetto la Serbia. Per il momento è un guscio vuoto. Gli aiuti alla ricostruzione dei paesi devastati da questa guerra sono la minore delle riparazioni esigibili. Ma non devono essere condizionati a politiche di "aggiustamento strutturale" e devono essere sottoposte a un controllo pubblico pluralista: i governi della Nato offriranno alle proprie multinazionali i mezzi per ricostruire le infrastrutture che sono state distrutte dalla loro guerra. Come in Bosnia e altrove, nell'universo liberale, la corruzione per ottenere i contratti di privatizzazione accompagnerà questo "Patto" con obiettivi di "stabilizzazione" che saranno smentiti dalla logica socialmente disgregatrice e dalla politica di austerità sociale della costruzione europea liberale. E' a questa logica che bisogna opporsi a livello di tutto il continente, sviluppando dal basso legami di solidarietà.