LA SINISTRA ANTICAPITALISTA ITALIANA E LA GUERRA NEI BALCANI
UN BILANCIO A UN ANNO DAI BOMBARDAMENTI


maggio 2000, di Michele Corsi

 

Ci occuperemo in questa rassegna dell'area di quella che per brevità possiamo definire "sinistra anticapitalista". Intendiamo con questa denominazione l'insieme della militanza che consideriamo alla sinistra della socialdemocrazia per non aver rinunciato ad una critica radicale del capitalismo ed alla ricerca di una alternativa. Vi comprendiamo il PRC nelle sue varie articolazioni, il PdCI, i raggruppamenti alla sinistra del PRC, la sinistra sindacale CGIL, i "sindacati di base", i centri sociali.

Prima della guerra

In Kosova si sono avute due guerre: quella del regime serbo contro gli albanesi kosovari che è iniziata quasi un secolo fa e che nella sua ultima fase si è protratta dal 1988 al 1999, e quella della coalizione imperialista contro la Jugoslavia nel 1999. A merito di tutte le correnti della sinistra anticapitalista italiana va di aver combattuto contro l'intervento imperialista occidentale, e a demerito di non aver detto nulla (nel migliore dei casi) circa l'oppressione esercitata sugli albanesi del Kosova ad opera del regime serbo. E, come vedremo, il silenzio su questa seconda guerra getta un'ombra sinistra anche sull'opposizione apparentemente nobile e disinteressata alla prima.
Tutte le varie correnti della sinistra anticapitalista italiana hanno bellamente ignorato per dieci anni la resistenza non violenta degli albanesi kosovari nei confronti dell'oppressione serba. Il fatto è tanto più vergognoso se si pensa che, durante la guerra, le stesse componenti hanno esaltato in funzione antiUCK la precedente lotta di resistenza non violenta beatificando Rugova ed enfatizzando il suo incontro con Milosevic in piena guerra. Ma gli articoli sui giornali della sinistra che si occupavano della situazione kosovara, sino all'88, si potevano contare sulle dita della mano. E' solo con l'apparizione dell'UCK e le operazioni dell'esercito serbo che si comincia timidamente a parlare del Kosova, ma ancora a gennaio-febbraio '99 il Comitato di Solidarietà per il Kosova in occasione dei numerosi incontri organizzati con soggetti della sinistra si scontrava con una generale indifferenza, ignoranza o sottovalutazione del problema (la domanda che si rivolgeva più frequentemente era: ma perché vi occupate dei kosovari e non dei curdi? Era infatti il tempo dell'affaire Ocalan).
Con lo scoppio della guerra le diverse tradizioni della sinistra anticapitalista reagiscono in maniera diversa, pur all'interno di un quadro di riferimento che ci pare, con varie sfumature, lo stesso.

Le tradizioni politiche della sinistra anticapitalista italiana

Nella sinistra anticapitalista italiana sono nettamente maggioritarie, al di là delle articolazioni organizzative che si sono date, spesso in contrasto tra loro, due culture politiche: quella che definiamo "ingraiana", e quella "togliattiana".
Al filone culturale che abbiamo definito per comodità "ingraiano" fanno riferimento il segretario del PRC Bertinotti (e Ramon Mantovani, responsabile esteri del PRC), il gruppo dirigente del Manifesto, una parte (quella non berlingueriana) della sinistra diessina, svariati raggruppamenti più o meno provenienti dai quadri della disciolta Democrazia Proletaria (l'Associazione Punto Rosso, tra le altre), il gruppo dirigente della sinistra della maggioranza CGIL (Giorgio Cremaschi ad esempio, segretario della FIOM di Torino). Spesso questi soggetti sono in antagonismo tra loro, ma altrettanto spesso li ritroviamo insieme in certi seminari, in interviste collettive, in progetti editoriali comuni (l'ultimo è la Rivista del Manifesto). Trae le proprie origini teoriche dalla sinistra socialista degli anni sessanta ed in particolare dai Quaderni Rossi di Panzeri. La caratteristica dominante di questa corrente è il rifiuto della dialettica. Così come i panzeriani degli anni sessanta immaginavano ci fosse un "piano del capitale" che tutto sussumesse e inglobasse programmando ogni sua azione e persino determinando il corso dei movimenti sociali, così oggi questo settore indica nella "globalizzazione" il nuovo nemico, dotato di un piano che meticolosamente sta mettendo in pratica. Di fronte a questi nemici, che non sono mai individuati fisicamente e di fronte alla loro onnipotenza, non è mai chiara la strategia che la corrente in questione propone, se non una politica di resistenza (nelle sue versioni "morbide"). Gli intellettuali di questa tradizione odiano gli "schematismi", ma in realtà non posseggono un sistema interpretativo della realtà dotato di un minimo di stabilità nel tempo, ogni fenomeno sociale dunque è sempre, per loro, "nuovo" e costituisce un punto di partenza per inedite costruzioni teoriche e definizioni accattivanti.
La corrente "togliattiana" invece ha sempre esercitato sino all'uscita di Cossutta dal PRC una netta predominanza nella sinistra anticapitalista. Essa comprende oggi il PdCI, una parte consistente e forse maggioritaria dell'apparato del PRC (la Federazione milanese, la redazione di Liberazione, ecc.) composto sostanzialmente da cossuttiani che non sono usciti con l'ultima scissione, pezzi di CGIL (Area Programmatica dei Comunisti, ecc.). Possiamo anche definirla la versione italiana dello stalinismo. Questi militanti non sono in generale degli intellettuali, ma ottimi organizzatori. Non li ritroviamo a provarsi in grandi discorsi teorici, ma a gestire le strutture. La corrente in questione ha uno scarsissimo amore per la conteporaneità e si nutre di tutti miti dello stalinismo e del togliattismo. Così come l'ingraismo vive del "nuovo", il togliattismo vive, in buona sostanza, del "vecchio" (la Resistenza come lotta nazionale, l'edificazione dell'URSS, l'esaltazione della simbologia "comunista", ecc.). La loro strumentazione ideologica è fatta di un marxismo economicista e meccanicista che spiega tutto in termini di complotti. Per questa corrente vi è sempre tutta una serie di aneddoti, che "provano" la trama nascosta di questo o quell'imperialismo. La loro frase preferita è "non a caso", la loro domanda principe: "chi c'è dietro?". Sono diffidenti verso i movimenti coi quali non sanno e spesso non vogliono rapportarsi (perché non controllabili).

La corrente "ingraiana" alla prova della guerra

Possiamo rintracciare le posizioni della corrente che abbiamo definito "ingraiana" nelle dichiarazioni rese dal responsabile esteri del PRC Mantovani, negli interventi del segretario del PRC Bertinotti, negli articoli di vari intellettuali sul Manifesto. Ecco i punti centrali di questa posizione (gli esempi che riguardano il PRC sono tratti da documenti scaricabili dal sito del partito http://www.rifondazione.it):

a) Si ritiene che la guerra sia stata voluta dagli USA con una Europa che è dipinta, a seconda degli autori o del momento, complice o subalterna. L'Italia avrebbe partecipato dimostrando di essere "serva" della volontà USA, non dotata di una propria autonoma politica estera. In questa chiave viene interpretata anche la natura della NATO, vista come braccio armato USA. (1)

b) Durante la guerra non si ignorava il dramma degli albanesi espulsi in massa, ma lo si citava solo come una "dimostrazione" della dannosità dell'intervento della NATO. L'impostazione era: se cessa l'intervento USA anche i serbi non avranno più interesse a perseguitare gli albanesi. Si evita di criminalizzare l'UCK, preferendo esaltare il ruolo di Rugova e, a ritroso, gli anni della resistenza non violenta. (2)

c) Si chiede l'intervento dell'ONU, ed il controllo di questa su un Kosova cui deve essere garantito l'autonomia ma non l'autodeterminazione. (3) Si esalta sulla stessa onda il "ruolo di pace" (ad esempio il viaggio compiuto da monsignor Tauran nell'aprile dell'anno scorso a Belgrado) del Vaticano denunciando i tentativi di "trascinarlo" su posizioni guerrafondaie.

d) Non si difende Milosevic di cui si riconoscono i tratti autoritari, ma si legittima lo stato jugoslavo rimpiangendo il modello titino. (4)

e) Il fine dell'intervento sarebbe quello di destabilizzare l'area dei Balcani per garantire una maggiore penetrazione economica. (5)

Con il passare del tempo, dopo la fine della guerra, il discorso di questa corrente si è fatto più complesso. La vicenda dei serbi in fuga dal Kosova ha rafforzato ogni genere di argomentazione favorevole alla "convivenza multietnica" (con la quale questa corrente da sempre giustifica la propria contrarietà a mettere in discussione i confini degli stati) e che le serve come terreno di confronto e di intesa con settori pacifisti.. Inoltre ha preso quota una ennesima scoperta ideologica: "la guerra come nuovo paradigma". Un esempio è costituito dalla relazione di Fausto Bertinotti al Comitato Politico Nazionale del 6/7 novembre 1999:

"[vi sono] due coordinate di fondo che cambiano la situazione mondiale, come il processo di globalizzazione e il ricorso alla guerra. Quest'ultima, come dicevamo, non finisce con la fine della guerra guerreggiata nel Kosovo. Essa diventa un elemento permanente, per l'imposizione di un nuovo ordine mondiale [] Tutto ciò ci riporta a una questione generale: la guerra diventa funzionale in modo permanente al processo di globalizzazione e al rafforzamento del dominio oligarchico, di cui la Nato costituisce il braccio armato." (6)

Una delle conseguenze di queste tendenze interpretative "nuoviste" è che spiegano i fatti che si succedono come un sempre ulteriore passo verso il peggio, opera di un moloch non fisicamente determinato e onnipotente, rifiutando così di fare i conti con la storia e di confrontarsi dunque con fenomeni simili già accaduti nel passato. In questo modo la storia appena trascorsa diventa migliore dell'oggi e oggetto di una sottile nostalgia, ad esempio l'epoca della guerra fredda, dove, miticamente, l'ONU viene vista come garanzia di un qualche ordine più equo di quello attuale. Da qui la dimenticanza delle guerre combattute sotto le bandiere dell'ONU, dalla guerra di Corea sino a quella dell'Iraq (le cui attuali sanzioni omicide sono pure garantite dall'ONU).

La corrente "togliattiana" alla prova della guerra

La corrente "togliattiana" ha conseguito un non grande successo all'inizio della guerra, quando la fiumana di profughi albanesi rendeva piuttosto indigesto il suo acceso filoslavismo. La sua interpretazione complessiva è rintracciabile negli innumerevoli articoli pubblicati da giornalisti e corrispondenti del Manifesto e di Liberazione, o da sparsi intellettuali (Luciano Canfora, Domenico Losurdo) o propagandisti (Fulvio Grimaldi). Ecco gli assi di questo sistema interpretativo:

a) vi sarebbe un complotto ordito dagli USA con vaste complicità europee (soprattutto tedesche) tese allo smembramento della Jugoslavia e dell'URSS. La Jugoslavia è l'anello mancante per un dominio totale sui Balcani. Allo stesso modo si interpreta a ritroso anche la guerra di Bosnia. Il Kosova in particolare servirebbe per controllare i corridoi per il passaggio di merci e petrolio attraverso i Balcani, la guerra sarebbe stata scatenata per assicurare alla regione un'indipendenza di facciata che coprirebbe il dominio USA.

b) La cacciata degli albanesi dal Kosovo sarebbe una montatura dei mass media, non vi sono state stragi ma una lotta tra due eserciti: quello legittimo jugoslavo e l'UCK. Non è riconosciuta la leggittimità della lotta non violenta che ha preceduto l'apparizione dell'UCK. Si utilizzano abbondantemente gli strumenti della propaganda serba (i presunti stupri degli albanesi kosovari ai danni delle serbe, il diritto "storico" dei serbi sul Kosova, la complicità degli albanesi con il fascismo contrapposto al sacrificio antinazista del popolo serbo, ecc.). (7)

c) L'UCK sarebbe il braccio armato della NATO, uno strumento creato e finanziato dagli USA, costituito da criminali legati al narcotraffico. Nella pubblicistica della corrente c'è una vera e propria ossessione nei confronti di questa organizzazione.

d) Milosevic non sarà forse un santerellino ma il PSS e la JUL sono partiti di sinistra e difendono uno stato che esercita "oggettivamente" una funzione antimperialista.

Dopo il rientro dei profughi albanesi e la fuga di parte della componente serba, l'impostazione di questa corrente è andata incontro ad un crescente successo. Patrimonio inizialmente di settori che sino alla caduta del Muro erano filosovietici (8) oggi permea di sé la gran parte degli articoli del Manifesto e di Liberazione, che quotidianamente forniscono l'informazione ai militanti della sinistra anticapitalista. (9) In questi quotidiani , è profusa una tale quantità di inesattezze e bugie che in questa sede è difficile darne conto. Nella cronologia pubblicata dallo speciale di Liberazione dedicato all'anniversario della guerra si arriva a dei clamorosi falsi come il far risalire la "fuga" degli albanesi all'inizio dei bombardamenti, senza citare nemmeno in una riga l'azione delle milizie serbe! Il Kosova è visto come un inedito esempio di "stato criminale". E così via. Liberazione però se lo leggono 15.000 persone, i lettori del Manifesto invece superano i 100.000 e proprio per la larga influenza che sta avendo del determinare l'orientamento della militanza sul Kosova, gli dedichiamo una parentesi.

Il Manifesto

L'approccio del quotidiano nei confronti del Kosova è andato via via peggiorando dopo la fine della guerra. Gli "intellettuali" del Manifesto (che hanno riempito lo speciale del quotidiano in occasione dell'anniversario della guerra) mantengono più o meno l'impostazione "ingraiana" sopra descritta, il team dei redattori e dei corrispondenti che si occupano dei Balcani si applicano invece alla bugia sistematica come i peggiori esponenti della corrente "togliattiana". Non pare si tratti di una contraddizione, ma di una sorta di "divisione dei compiti", con Di Francesco e compagnia a fare "il lavoro sporco".
Ci limiteremo a qualche esempio. (10) In numerose occasioni gli articoli del Manifesto hanno lasciato intendere che le sanzioni contro la Jugoslavia sono un vero e proprio embargo totale, comprendente il blocco commerciale, cosa assolutamente non vera, poiché le sanzioni riguardano solo gli investimenti e le (poco influenti per la Jugoslavia) vendite di petrolio dai paesi NATO.
Periodicamente il Manifesto riprende, al pari degli altri quotidiani italiani, le solite operazioni di "revisionismo storico" riguardo alla strage di Racak e, più in generale, sul numero di morti kosovari albanesi prima della ritirata serba. Le cifre fornite sui più vari argomenti del resto sono totalmente campate in aria, e per di più variano da numero a numero. Per esempio ricorrono sistematicamente negli articoli cifre che vanno dalle 3.000 alle 5.000 unità per quantificare il numero di serbi rimasti in Kosova; in realtà non solo tutte le fonti, dalla NATO, all'ONU, all'OSCE e, soprattutto, allo stesso governatore serbo del Kosovo, Zoran Andjelkovic, formalmente ancora in carica per Belgrado, concordano sulla cifra approssimativa di 100.000 serbi presenti in Kosova, ma il dato appare inverosimile se si pensa che nella sola municipalità di Mitrovica i serbi sono 10.000-15.000.
I giornalisti del Manifesto sono poi ossessionati dal Kosovo Protection Corps (KPT), la forza di protezione civile in cui sono confluiti molti ex UCK, che non è assolutamente una forza di polizia, tranne che per il Manifesto; il 16 febbraio Di Francesco scrive: "l'UCK altro non è che l'attuale KPT (Kosovo Protection Corps), la nuova polizia voluta a tutti i costi da Kouchner e dalla NATO che ha così riciclato [...] le sue gerarchie di comando, i mezzi militari [il KPT ha in tutto solo 200 pistole per 3.000 effettivi!] e le milizie".
In altri casi il Manifesto sfiora il ridicolo, come quando con due articoli pubblicati a gennaio a firma Scotti e Di Francesco, si fa passare la tesi che Arkan fosse in realtà un uomo di Tudjman e naturalmente... dell'UCK! A conferma di tale ultima fantasiosa tesi Di Francesco si limita a dare la seguente informazione sibillina, il 18 gennaio: "in Macedonia, pochi giorni prima della guerra, il governo di Skopje aveva aperto un'inchiesta su traffici d'armi, via Tetovo, tra settori dell'UCK e la malavita albanese-macedone collegata proprio ad Arkan". Naturalmente si tratta di una notizia che non trova riscontro da nessuna parte ed è in aperta contraddizione con le accuse, lanciate a più riprese dallo stesso Manifesto contro il regime di Skopje, di essere un sostenitore dell'UCK.
Ci sono poi i "silenzi" che valgono anche più delle bugie. Dall'estate scorsa è in corso il progetto Eurocorps, cioè il lancio in grande stile sullo scenario internazionale di una forza completamente europea e non NATO, già esistente, ma finora pressoché inattiva. Nel corso di importanti vertici franco-anglo-tedeschi, svoltisi tra ottobre e novembre, era stata ufficialmente varata la candidatura dell'Eurocorps ad assumersi il comando della missione Kfor. Ne hanno scritto molti articoli i giornali di tutto il mondo, da Le Monde al Washington Post, ai giornali russi, e anche il Corriere della Sera e la Repubblica. Si tratta di una cosa importantissima, perché è la prima volta che una missione militare è interamente comandata da una struttura militare europea non NATO (anche se vincolata da precisi accordi con l'alleanza). Ebbene, ai lettori del Manifesto la cosa è stata tenuta sistematicamente nascosta. Naturalmente, dopo avere sostenuto per mesi la tesi della guerra tutta USA mirata a indebolire l'Europa, il Manifesto deve tenere accuratamente nascosto fino all'ultimo tale fatto ai suoi lettori.
Va detto che il Manifesto in realtà non dà alcuna informazione su quanto accade in Kosova, se si eccettuano le uccisioni di serbi e l'"UCK che controlla tutto", e questo nonostante sia l'unica testata a pubblicare quotidianamente almeno un articolo in merito. Niente sulle spaccature politiche tra gli albanesi, ma nemmeno su cosa si muove politicamente all'interno alla minoranza serba in Kosova, alla quale tanto si mostra interessato. Niente sull'economia, se non il fatto che "non arrivano i soldi ONU", ecc. ecc. Anche su quanto accade in Serbia o negli altri paesi confinanti con il Kosova, il silenzio è assoluto, al di là dei testi su nebulosi complotti o sulle mafie albanesi. Tutto quello che viene offerto ai lettori del Manifesto è un quadro paranoico e martellante di "albanesi-UCK-narcotrafficanti invasati che trucidano serbi dalla mattina alla sera" e nulla più, il tutto in un contesto "protetto" da ogni notizia in contrasto con tale artificioso quadro, mediante una rigorosa censura.

"Duri" e "morbidi" a confronto

Come dimostra la vicenda del Manifesto la divisione tra corrente "ingraiana" e "togliattiana" non è poi così netta. A noi ci pare utile tenerle distinte perché non è indifferente per la militanza anticapitalista il tenore delle prese di posizione pubbliche del partito, che sono di impostazione "ingraiana". Possiamo dire in effetti che questa corrente di pensiero si è riservata i grandi interventi, le risoluzioni ufficiali di partito e gli editoriali, l'altra le notizie spicciole di tutti i giorni e la presenza "militante" negli incontri delle piccole realtà (circoli, feste, ecc.).
Nella produzione delle varie riviste o organizzazioni spesso queste due ottiche si confondono o si sorreggono a vicenda. Ma alla lunga è la visione meno critica nei confronti di Milosevic che ha formato la coscienza della gran parte della gente di sinistra, che sul tema salta volentieri le interminabili tesi di partito e si sofferma sulle cronache che sfiorano il razzismo antialbanese di Liberazione e del Manifesto. Tra queste due impostazioni vi è uno scontro sotterraneo (11) di cui ben pochi si rendono conto anche perché in realtà molti sono i punti di contatto a cominciare dalla negazione del diritto all'autodeterminazione dei kosovari. (12)
E' sorprendente come nessuna delle due correnti abbia tratto un qualche insegnamento dagli errori di previsione riguardo alla guerra. Per esempio sostenevano che il coronamento dell'operazione NATO sarebbe stata l'indipendenza del Kosova.; oggi appare chiaro che è proprio la NATO a garantire la permanenza del Kosova nel quadro formale della Federazione Jugoslava. Allo stesso modo rinunciano a riflettere sulle ragioni che hanno portato gli USA ad esercitare potenti pressioni sul Montenegro perché non passasse alle vie di fatto verso l'indipendenza, e come ciò si concili con la convinzione che l'imperialismo miri alla disgregazione della Jugoslavia. Nessuna riflessione sul fatto che una attenta analisi dei famosi corridoi mostra in maniera inequivocabile che nessun corridoio passa per il Kosova e che non ci risulta esistere alcuna irrinunciabile corrente commerciale che si è messa in moto da quelle parti. Quanto alla guerra come "nuovo paradigma" noi francamente non riusciamo a scorgere alcuna novità di sostanza nella normale politica compiuta da qualsiasi imperialismo in qualsiasi tempo.

Possiamo dedurre il crescente successo dell'ala più acritica nei confronti del regime di Milosevic da una serie di segnali.
Il primo è il parziale successo di iniziative quali il Tribunale Ramsey Clark che è riuscito ad attrarre anche pezzetti dell'universo pacifista. La campagna di per sé sarebbe anche utile (indagare sui crimini di guerra della NATO) se non fosse minata alla radice dal silenzio nei confronti del regime di Milosevic (Ramsey Clark del resto è stato avvocato del macellaio serbo bosniaco Karadzic) e dalla complicità con la repressione antialbanese (il tribunale si preoccupa di indagare soll sulle "speculazioni riguardo ai profughi"). (13)
Un altro indicatore è costituito dal successo che ha Fulvio Grimaldi, un oscuro personaggio in tutta evidenza profondamente ignaro della realtà e della storia dei Balcani, intento a sfoggiare una rara e compiaciuta rozzezza intellettuale dove mescola aneddoti a bugie, dati falsi a volgarità in una pappa profondamente antialbanese al limite del razzismo ed una sfacciata simpatia per Milosevic. Qualche perla tratta dallo speciale di Liberazione: "Ascoltavo sabato mattina una sbrodolata di Radio Rai sui profughi kosovari finiti, nel turbine dell'"ingerenza umanitaria" a New York. Era la solita tiritera lacrimosa e accorata con cui ci avevano picconato i santissimi per 78 giorni". Nello stesso pezzo inveisce contro la stampa per aver "pianto" su Radio B-92 "chiusa perché strumento CIA foraggiato dal superspeculatore George Soros", E ancora: "dovunque le armate del capitalismo imperiale siano passate sono germogliati narcostati" tra i quali il Libano che insieme ad altri "fornisce il 75% di eroina che l'UCK distribuisce in Occidente" "secondo l'Europol". Eppure il personaggio mantiene una rubrica fissa su Liberazione ed è la "personalità" più richiesta dai circoli del PRC, ma anche dai centri sociali. (14)
Un altro dato è la crescente popolarità di Limes (una rivista nata apertamente per rilanciare l'imperialismo italiano nel mondo) i cui editorialisti scrivono ormai normalmente sul Manifesto (tra i quali "Adriaticus", un nome che è una garanzia).
Ma l'indicatore più inquietante è ciò che è accaduto nel movimento sindacale.

Il movimento sindacale

Il movimento sindacale di orientamento radicale può essere suddiviso in due aree: quello della sinistra CGIL e quello del "sindacalismo di base". La prima comprende: la sinistra della maggioranza uscita dall'ultimo congresso (dove troviamo tra gli altri la sinistra DS, il segretario della FIOM torinese Cremaschi, la FIOM di Brescia, ecc.), l'Area Programmatica dei Comunisti e quindi il pezzo più importante: Alternativa Sindacale. Vi è poi una struttura di movimento molto vicina ad Alternativa Sindacale: il Coordinamento dei delegati RSU. Si tratta di un'area piuttosto consistente che comprende migliaia di quadri sindacali. Vi è poi il "sindacalismo di base", dizione con cui si intende solitamente l'insieme di quei piccoli sindacati prevalentemente formatisi nel corso degli anni '90. Tra questi: la CUB, Confederazione Unitaria di Base (al cui interno il pezzo più consistente sono le RdB, Rappresentanze di Base, del pubblico impiego), lo SLAI-Cobas, Sindacato Lavoratori Autorganizzati Intercategoriale, con una certa presenza nelle fabbriche FIAT e nei trasporti, la CNC, Confederazione Nazionale Cobas, il cui settore più forte è nella scuola, ed altre minori come il Sin Cobas e l'USI anarchica.

Le due aree non si occupano in maniera continuativa di questioni internazionali a parte quei sindacati che mantengono un legame forte con una formazione politica definita dal punto di vista programmatico. E' il caso delle RdB, vicine al gruppo che edita la rivista Contropiano e che viene dalla corrente filosovietica legata a Nino Pasti, e che ha assunto posizioni sostanzialmente filomilosevic. E' anche il caso del piccolo Sin Cobas che durante la guerra ha assunto, al contrario, qualche iniziativa in coerenza con la posizione di Bandiera Rossa, che vedremo successivamente. Il posizionamento degli altri settori però, ben superiori quanto a consistenza a quelli di cui sopra, non era affatto scontato, molti di questi sono animati da gruppi dalla tradizione antistalinista o addirittura libertaria: basti pensare al Cobas scuola o al gruppo di operai dell'Alfa che dirigono lo SLAI, all'USI, oppure al gruppo di Alternativa Sindacale, in larghissima parte proveniente da Democrazia Proletaria. Eppure, lentamente, questi settori hanno via via assunto posizioni sempre più in linea con quelle peggiori espresse dalla sinistra anticapitalista.

Siamo stati personalmente testimoni delle primissime riunioni della sinistra sindacale CGIL quando il suo esponente principale, Gianpaolo Patta, difendeva il diritto all'autodeterminazione dei kosovari, insieme ad un deciso no alla guerra. Eppure questa posizione è stata via via sommersa da quella che metteva decisamente in ombra la critica al regime di Milosevic, sino ad assumere posture apertamente antialbanesi.
All'assemblea nazionale contro la guerra indetta dal Coordinamento RSU a Milano il 22 aprile '99 e che aveva visto la partecipazione di centinaia di lavoratori i toni erano già differenti, anche se non ancora disastrosi. Così nella relazione e nel documento conclusivo oltre ad argomentare il sacrosanto no alla guerra si affermava che "alla egemonia perseguita da Milosevic con la pulizia etnica si appaia, senza alcuna giustificazione, la voglia di egemonia perseguita dalla Nato con le bombe." Il nazionalismo serbo comunque veniva messo sullo stesso piano di quello dei kosovari. L'assemblea si concludeva affermando che "senza nulla concedere al nazionalismo del Governo Serbo e stigmatizzando le sue gravissime azioni di pulizia etnica, condanniamo l'aggressione alla Jugoslavia con la quale la NATO in primo luogo, ha deciso di rendere inconsistente ogni possibilità di comporre pacificamente i conflitti internazionali in sede ONU, in secondo luogo vorrebbe far dipendere dallo scontro militare la regolazione di tali conflitti." e chiedeva a CGIL-CISL e UIL di proclamare lo sciopero generale.
Questi toni, pur coi loro limiti, sarebbero stati presto abbandonati, a favore di una visione unilaterale dello scontro in atto, nei materiali che convocavano per il 21 maggio 1999 la Giornata di lotta e di mobilitazione nazionale promossa dalle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) e la cui parola d'ordine era "Fermare i bombardamenti - fermare la guerra" e dove già non si accennava più né a Milosevic né ai diritti degli albanesi.
Questo corso si approfondiva a giugno quando il Coordinamento RSU, con l'adesione di Alternativa Sindacale, invitava in Italia i delegati sindacali della Zastava per un giro di iniziative contro la guerra lanciando una proposta per una raccolta di fondi a sostegno dei lavoratori della fabbrica colpita dai bombardamenti e delle loro famiglie. Questa iniziativa, pur presentandosi come tesa alla solidarietà tra lavoratori "al di là delle differenze etniche, religiose, ecc.", non si accompagnava ad una analoga solidarietà nei confronti dei lavoratori kosovari, che, pure, avevano perso tutto, né ad alcuna critica nei confronti del regime di Milosevic, al quale del resto il sindacato della Zastava è legato a filo doppio. A luglio il Coordinamento RSU riusciva a coinvolgere la CGIL intera in una visita a Kragujevac e infine a ottobre la CGIL Lombardia si faceva direttamente promotrice della raccolta di fondi per il "Progetto Zastava" "per sostenere i bisogni di questi lavoratori con la rimessa in funzione del loro presidio sanitario danneggiato sia nelle strutture che nelle attrezzature mediche dai bombardamenti del 9, del 12 e 14 aprile scorso". L'appello della CGIL Lombarda con cui chiedeva soldi e materiale non accenna comunque minimamente alla guerra (la parola non è mai nominata) ed attacca indistintamente "la barbarie nazionalista". Data la sua genericità è un'iniziativa puramente assistenzialista.

Per quanto riguarda l'area del "sindacalismo di base" in un comunicato stampa del 31/3/99 dove lo SLAI Cobas dell'Alfa di Arese dava l'annuncio del primo sciopero contro la guerra, si diceva tra l'altro che "i bombardamenti della NATO, lungi dall'evitare la tragedia dei profughi, hanno provocato migliaia di morti nelle città serbe e nel Kosovo e ingigantito l'esodo, con centinaia di migliaia di profughi." Dai successivi materiali sparirà persino ogni riferimento all'esistenza degli albanesi.
Ad aprile lo SLAI Cobas lanciava la sottoscrizione nazionale a favore degli operai della Zastava e il 27 dello stesso mese un'assemblea con molte sigle presenti (tra queste Che Fare? Proposta, CUB, RdB, alcuni circoli del PRC, Rete dei Comunisti, ecc. e varie personalità come Molinari) aderiva. Queste realtà si ritroveranno insieme nello sciopero generale del 13 maggio indetto da CUB, Slai-Cobas, Sindacato di Base, Sin-cobas, CNC, USI, sciopero che sortirà un certo successo (per gli standard di queste organizzazioni: 100.000 persone secondo quanto da loro dichiarato), ma che non annoverava nelle sue parole d'ordine nemmeno un cenno contro Milosevic. Nello stesso mese si costituiva il "Comitato nazionale a sostegno del popolo jugoslavo" composto da SLAI Cobas, CUB ed altri che promuoveva poi vari viaggi (a giugno, luglio, ottobre) a Kraguievac, portando i frutti della raccolta. Lo stesso comitato ha promosso "tour" di sindacalisti della Zastava (l'ultimo a febbraio).

In complesso la solidarietà sindacale (indipendentemente dalla sigla di appartenenza) ha sortito un certo successo sui posti di lavoro. Ha potuto contare su una spontanea buona disposizione delle fabbriche alla solidarietà concreta, la stessa che aveva permesso un analogo successo alla raccolta di fondi a favore dei profughi albanesi. Le iniziative della sinistra CGIL e del "sindacalismo di base" contro la guerra sono state coraggiose e importanti, ma nulla vietava che ad un secco no alla guerra si accompagnasse il no a Milosevic ed una pari solidarietà nei confronti dei lavoratori albanesi. Le ragioni per cui ciò non è accaduto verranno indagate più sotto.

I centri sociali

I centri sociali non hanno una tradizione di intervento internazionalista consolidato. Per caratteristiche intrinseche si muovono per campagne con una generale sensibilità verso lo zapatismo e, in passato, verso la lotta dei baschi e degli irlandesi. Anche in questo caso, dunque, non vi era nulla di scontato nel loro posizionamento. Eppure anche i centri sociali dopo un iniziale sbandamento, sono per lo più slittati verso un no alla guerra non accompagnato da un parallelo no a Milosevic, sostanzialmente subalterni alla impostazione del PRC. Registriamo comunque l'eccezione dei centri sociali del Nord Est che hanno assunto, seppur timidamente, una posizione ostile verso il settore di movimento più scopertamente promilosevic sostenendo spesso scontri anche piuttosto duri. Dopo la guerra i centri sociali sono però tornati al silenzio e non ci sono più state iniziative e prese di posizione significative.

Le organizzazioni rivoluzionarie

Intendiamo con questo termine le piccole correnti che all'interno della sinistra anticapitalista sostengono posizioni teoriche che si collocano alla sinistra della maggioranza del PRC. Teniamo conto che sommando l'insieme dei loro militanti non superiamo le 2.000 unità. Alcune di questi gruppi si trovano all'interno del PRC, altri sono indipendenti. Quelle che partecipano alla costruzione del PRC si dichiarano tutte trotskiste: Bandiera Rossa, Proposta, Falce e Martello. Altre organizzazioni trotskiste sono esterne al PRC: Socialismo Rivoluzionario è quella più consistente. Il trotskismo si trovava teoricamente in una buona posizione per criticare a un tempo l'aggressione imperialista e l'aggressione serba nei confronti degli albanesi, ed in effetti, in quasi tutto il mondo, le organizzazioni trotskiste, a qualsiasi corrente esse appartenessero, si erano espresse in questo senso. E ciò perché il trotskismo basandosi teoricamente sul Lenin "libertario" (e ignorando per lo più quello "autoritario" successivo alla conquista del potere) sono ben attrezzate al sostegno del diritto dei popoli all'autodeterminazione, diritto che Lenin difese implacabilmente prima della rivoluzione anche se successivamente si dimenticò, diciamo così, sistematicamente di applicarlo. Eppure in Italia questa corrente, nelle sue diverse sfumature, non ha saputo incidere sulle caratteristiche del movimento antiguerra, vediamo brevemente perché.
Bandiera Rossa ha sostenuto nella sua rivista un chiaro no alla guerra insieme ad un altrettanto chiaro no al regime di Milosevic. Ha ospitato sulla propria rivista interventi di redattori di Balkan e (unica insieme ad SR) del Comitato di Solidarietà con il Kosova. Questa posizione è stata fatta propria dagli organismi in qualche modo influenzati dalla corrente, oltre al Sin Cobas anche vari collettivi studenteschi, tra i quali quelli di Bologna e di Roma. Eppure questa linea non è divenuta elemento di battaglia politica all'interno del movimento e soprattutto del PRC. L'impressione che abbiamo è che ciò che ha frenato questi compagni siano state considerazioni di opportunità politica: Bandiera Rossa sostiene la maggioranza bertinottiana e non aveva né ha al momento intenzione di rompere su questo terreno. La sua voce dunque è stata tenuta volontariamente su toni che non urtassero troppe sensibilità.
Proposta è il raggruppamento egemone nell'area della minoranza di sinistra del PRC. L'inizio della guerra ha colto il suo gruppo dirigente (che ha una formazione trotskista che che si autodefinisce "principista") impreparato a prendere da subito una posizione. Il vuoto è stato colmato con interventi via internet dei suoi militanti che sono stati invece reclutati sulla base delle battaglie interne al PRC su argomenti "italiani" (no agli accordi con il centrosinistra, ecc.) e che mantengono una formazione politica spesso di origine stalinista, dunque in sintonia con la corrente più filomilosevic del movimento. La posizione assunta alla fine è stata data dalla risultante di queste due spinte: largo spazio alla vulgata antiUCK, insieme ad una rassegna dei "principi" leninisti a favore dell'autodeterminazione, ma che, ahimé, da Proposta non venivano applicati al caso dei kosovari. Il risultato è stato l'adeguamento sostanziale di questo gruppo alla linea del PRC.
Falce e Martello è un piccolo gruppo che, forse per la giovane età dei suoi componenti, non è in grado di esprimere valutazioni autonome dalla corrente internazionale cui è legato (Militant) e che essendo profondamente "inglese" ha in seria antipatia le rivendicazioni di irlandesi e scozzesi. Così FeM insieme al no all'intervento imperialista, ha negato nei fatti il diritto all'autodeterminazione dei kosovari agitando (come Proposta) la parola d'ordine, oggi a noi pare assolutamente vuota, della "Federazione socialista dei Balcani".
Registriamo comunque a favore di questi tre raggruppamenti trotskisti il fatto che almeno due concezioni li differenziano dalla maggioranza del PRC: la denuncia dell'imperialismo italiano ed europeo (e dunque il rifiuto di considerarli "servi" degli USA, ma responsabili al pari di questi) ed anche la denuncia del regime di Milosevic e l'appello alle masse serbe perché si ribellino.
Per quanto riguarda il trotskismo fuori dal PRC, annoveriamo la posizione di Socialismo Rivoluzionario. Insieme ad una dura presa di posizione contro la guerra imperialista, si è trattato dell'unico gruppo politico che ha preso chiaramente posizione a favore del diritto all'autodeterminazione dei kosovari. Putroppo questa impostazione non ha potuto sortire effetti significativi nel popolo di sinistra poiché questa organizzazione, come in altre occasioni, ha preferito essere esterna ai movimenti e dunque non si è dialettizzata con la massa di coloro che si muovevano contro la guerra.
Fuori dal PRC tutti i residui delle organizzazioni m-l hanno assunto una posizione decisamente filomilosevic e di rivalutazione della ex-Jugoslavia (anche quelli dalla tradizione accesamente antitoista) e lo stesso hanno fatto i frammenti del bordighismo (Che Fare?) con la parziale eccezione di Lotta Comunista che invece non ha cessato di attaccare il regime di Milosevic, pur non difendendo i diritti nazionali degli albanesi.

Perché?

Vorremmo qui tentare una risposta alla seguente domanda: perché la sinistra anticapitalista italiana non ha accompagnato, salvo qualche rara eccezione, al suo deciso no alla guerra imperialista un altrettanto deciso no al regime di Milosevic? Perché non ha mai difeso né prima né dopo la guerra i diritti nazionali dei kosovari? Perché, a un anno di distanza si rifiuta di prendere atto dei propri errori?
Dobbiamo anzitutto sgombrare il terreno da possibili facili risposte.

La prima: "si tratta di un atteggiamento confinato ai gruppi dirigenti, mentre alla base c'era una maggiore sensibilità". Purtroppo siamo costretti a smentire questa tesi consolatoria, non solo per la nostra larga frequentazione del popolo di sinistra, ma anche sulla base del semplice spoglio delle lettere che arrivano alle redazioni del Manifesto e di Liberazione o delle liste di discussione su Internet. A un anno di distanza una certa visione filomilosevic ed antialbanese è penetrata in profondità nella base della sinistra. Non solo. Ciò che è più grave è che il già precario status riservato alla difesa del diritto all'autodeterminazione nella coscienza dei militanti di sinistra, ha subito una grave retrocessione. Le vicende balcaniche, mentre in altri Paesi hanno segnato la ripresa del dibattito storico del marxismo sulla questione nazionale, in Italia hanno visto un pesante arretramento su questo stesso terreno nella coscienza del militante medio. Molti compagni oggi mettono in discussione la stessa giustezza del diritto all'autodeterminazione (almeno prima si limitavano ad applicarlo selettivamente). Alcuni arrivano a salutare con soddisfazione i cedimenti del PKK al subimperialismo turco, portandolo ad esempio di una forza che "saggiamente" rinuncia al diritto all'autodeterminazione. Allo stesso modo si vede con soddisfazione il pessimo "accordo di pace" destinato ad allungare il dominio imperialista inglese sull'Irlanda del Nord, e persino i continui tradimenti alla causa palestinese perpetuati dalla direzione di Arafat.

La seconda: "la stessa dinamica è occorsa anche negli altri Paesi". E' vero l'opposto. L'Italia è il Paese che più d'ogni altro (forse con la sola compagnia della Grecia) ha conosciuto un movimento antiguerra che non sapeva mettere tra le proprie parole d'ordine, insieme al no alla NATO, anche un secco no a Milosevic. E' molto significativo che quando il PRC ha cercato un sostegno da altre formazioni europee (non precisamente di formazione libertaria) ha dovuto sottoscrivere una dichiarazione che mai, in Italia, aveva formulato. (15)

Del resto raccogliamo oggi i frutti avvelenati di una guerra di Bosnia che ha visto impegnati sul fronte della solidarietà e dell'analisi pacifisti e cattolici, ma non la militanza di sinistra, salvo rare e a volte eroiche eccezioni. Una rete come quella di Workers Aid è nata e si è sviluppata nell'Europa del Nord, ma non in Italia che pure era il Paese geograficamente (e non solo) più vicino al terreno del conflitto. Qui di sotto registreremo dunque le ragioni che hanno portato ad un certo posizionamento acritico verso Milosevic, ma non le ragioni (non è questo il luogo) per cercare di capire come mai la militanza di sinistra in Italia ha tante difficoltà a "spendersi" sul campo, ad agire. Oggi l'Italia pullula di militanti che pensano di sapere ogni cosa sull'UCK, eppure quelli che si sono effettivamente recati sul posto non diciamo per intervenire (come settori cattolici e pacifisti) ma semplicemente per conoscere, li contiamo sulle dita della mano.

Quindi dobbiamo spiegare l'"eccezione italiana" in altri termini.
L'ipotesi che noi formuliamo si basa su due punti:
1) l'influenza dello stalinismo in Italia
2) l'influenza dell'imperialismo italiano

L'influenza dello stalinismo

In Italia è stato più forte che altrove. In Francia abbiamo avuto sempre una tradizione socialista da un lato e trotskista dall'altro, piuttosto radicate; nel Regno Unito il PC è stato storicamente fragile; in Germania la realtà del socialismo realmente esistente era un po' troppo vicina per permettere al riguardo qualche illusione; la tradizione della Spagna è stata anche quella del POUM e dell'anarchismo; e così via. Solo in Italia lo stalinismo ha conosciuto un radicamento ideologico di massa grazie ad un PCI, che, pur portando avanti in gran parte della sua esistenza una politica di tipo socialdemocratico, ha continuato a formare la sua militanza ad un filosovietismo che solo alla fine degli anni settanta ha cominciato a stemperarsi e con una gran numero di ambiguità. Per molti militanti la radicalità e la protesta nei confronti della deriva a destra del PCI ha assunto la "veste" del filosovietismo, e così la prima mozione di minoranza del PCI (quella di Cossutta) aveva quelle caratteristiche. Grazie cioè allo sdoppiamento che ha vissuto la militanza (moderatismo patrio controbilanciato dal sostegno all'Unione Sovietica, che diveniva così la "forma" presa dall'anima anticapitalista dei militanti) l'automatismo degli attivisti era quello di trovare un consolatorio rifugio in una ingenua difesa, al di là di ogni ragionevole considerazione, del totalitarismo staliniano. Il filosovietismo del PCI è stato il grimaldello teorico che ha permesso ai dirigenti del PCI di praticare nei fatti una politica socialdemocratica mantenendo comunque una patina di radicalità rivoluzionaria agli occhi della propria base, rallentando in questo modo i processi di differenziazione interna al partito.

Ciò ha prodotto un militante tipo che, insieme a vari pregi, tra i quali una forte disponibilità alla lotta e alla mobilitazione, possedeva anche alcuni, determinanti, limiti:

a) una scarsa conoscenza ed un ancor più scarso interesse verso le questioni internazionali. Dato che tutto veniva mediato dall'URSS o comunque da qualche stato guida (lo stesso difetto venne infatti ereditato anche dai maoisti degli anni sessanta e settanta, Manifesto dell'epoca compreso), c'era la più totale disabitudine a discutere sulla base di più fonti: tutto veniva mediato dalle notizie e dalle valutazioni delle burocrazie dello stato guida di turno. Dato che anche i rapporti internazionali erano mediati dalle burocrazie, anche l'internazionalismo non era vissuto in maniera viva e vivace sulla base degli scambi tra militanti. A ciò si unisce una peculiarità tutta italiana fatta di disinteresse verso le questioni internazionali, ravvisabile dallo scarso peso che hanno le vicende estere sui giornali, ecc.

b) La mentalità campista, per cui il militante ha bisogno per continuare a lottare di credere che esista un Paese dove le sue idee sono finalmente realizzate, e la conseguente abitudine a non considerare in maniera critica o dubitativa il proprio "campo". Oggi, orfani dell'URSS, della Cina, dell'Albania, la corrente più filomilosevic ha buon gioco, facendo leva sugli automatismi e sulle tradizioni culturali della nostra sinistra, ad introdurre un sempre più accentuato filoslavismo. Certo non si arriva a dire che la Jugoslavia è la patria del socialismo, ma vi si giunge vicinissimi ed in più si prende a difesa l'intera etnia slava, e più precisamente quei popoli che tra gli slavi hanno assunto spesso il ruolo di nazionalità dominante (russi e serbi), anche nei confronti di altri popoli slavi. Questo atteggiamento è frutto dell'impotenza politica: si sogna la "durezza" e si vive una radicalità mitica, virtuale e lontana che non si può o non si vuole praticare in patria.

c) Il rifiuto del diritto dei popoli all'autodeterminazione. E' questa una caratteristica che però non riguarda solo lo stalinismo, ma anche la socialdemocrazia (ed anche il pacifismo, ecc.). Diciamo che più in generale è un problema del movimento operaio che ha sempre fatto molta fatica, diciamo così, a cercare e mantenere delle alleanze sociali su un piano diverso da quello di classe: non solo con le nazionalità dominate, ma anche con le donne, ecc. Il riflesso di questa difficoltà lo troviamo anche a livello teorico: quella delle nazionalità è una problematica che il marxismo deve ancora affrontare compiutamente.

Le pressioni dell'imperialismo italiano

L'imperialismo italiano più di ogni altro è impegnato storicamente in una politica neocoloniale nei confronti degli albanesi. Ogni politica neocoloniale deve giustificare il proprio interventismo con il razzismo, che oggi in Italia è evidentissimo nei confronti degli albanesi (quando la maggior parte di loro svolge mansioni di operaio, gran parte della popolazione è convinta che siano dediti ad attività criminali) e a volte è ammantato da paternalismo ("dobbiamo stare là perché loro da soli non sanno cavarsela"). In realtà la nostra industria è presente in forze in Albania con una politica di sfruttamento di stampo ottocentesco della manodopera locale che nessuna forza anticapitalista denuncia con forza.
A questo atteggiamento verso gli albanesi la politica estera italiana ha unito una politica di vicinanza e comprensione nei confronti della Serbia, all'interno della quale ha investito economicamente più di qualsiasi imperialismo. Durante la guerra era abbastanza evidente l'atteggiamento dell'Italia (distinto rispetto agli altri Paesi europei) che, pur rendendosi complice delle stragi degli aerei NATO, cercava di mantenere aperto un canale con il regime serbo. Non è un caso che l'ambasciata italiana sia stata l'unica tra i Paesi aggressori a non chiudere per tutta la durata della guerra. Questa linea è la linea della borghesia italiana, che ovviamente non poteva distanziarsi dalla NATO ma che cercava un modus vivendi con la Serbia, anche a spese degli albanesi kosovari. Gli inserti, in occasione dell'anniversario della guerra, del Corriere della Sera e della Stampa non differivano in molto da questo punto di vista da quelli del Manifesto e di Liberazione.
Vi è stata dunque una vicinanza oggettiva tra movimento anticapitalista e borghesia imperialista italiana e che si è sostanziata nella copertura data al Ministro degli Esteri Dini, uomo di fiducia della classe dominante italiana nei confronti dei quali Liberazione e Manifesto hanno sollevato per lungo tempo debolissime obiezioni.
Un altro segno è il già citato credito di cui gode la rivista Limes, una rivista di destra, smodatamente filoserba, nata per difendere e spingere, con il linguaggio apparentemente neutro della geopolitica, le ragioni di potenza dell'Italia.
Naturalmente qualcuno potrebbe parlare di atteggiamento "tattico" per evitare la guerra imperialista. E' un riflesso, anch'esso tipico della sinistra italiana (e non solo), causato dalla mancanza di fiducia nelle proprie forze, per cui si lavora alla "divisione dell'avversario" intendendo con ciò l'alleanza con un avversario considerato "meno peggio". E l'imperialismo italiano sarebbe "meno peggio" di quello USA.
C'è poi dell'altro. L'imperialismo italiano ha anche delle proprie espressioni politiche: si tratta dell'arco di partiti collocati al centro dello schieramento politico in un polo e nell'altro. Ebbene con una parte di questi la sinistra socialdemocratica è alleata "strategica" nella formula del centrosinistra. Il PRC è legato profondamente a questa alleanza pur non integrandola, e il Manifesto condivide questa tattica. Criticare a fondo l'imperialismo italiano, le sue mire, i suoi interessi e le sue strategie, significhebbe per il PRC precludersi potenziali accordi con queste forze, vorrebbe dire imporre condizioni inaccettabili ai suoi possibili alleati. Per questo credere alla bontà dell'imperialismo italiano significa anche non porre come pregiudiziale ad un'alleanza elettorale parole d'ordine dirette contro l'imperialismo italiano, come ad esempio l'estensione dei contratti ai lavoratori di Paesi stranieri, il ritiro delle truppe italiane dai Balcani, ecc.

La sinistra anticapitalista italiana, adottando le posizioni che abbiamo descritto, ha così perso grosse occasioni. L'occasione di stabilire rapporti fraterni con la minoranza albanese in Italia (la seconda per numero di immigrati) e che invece oggi vede nella sinistra la principale avversaria del conseguimento delle proprie legittime aspirazioni nazionali. L'occasione di ampliare il fronte di coloro che si opponevano alla guerra, perché un atteggiamento che chiudeva gli occhi di fronte ai massacri di Milosevic non ha attratto la maggioranza dei lavoratori e dei giovani, facendo sì che le manifestazioni di protesta fossero di gran lunga meno partecipate di quelle della guerra del Golfo, e che i partiti percepiti come filoserbi fossero duramente puniti dall'elettorato. L'occasione di dibattere a mente aperta, senza pregiudizi, sul diritto dei popoli all'autodeterminazione. Non mettiamo in discussione la buona fede di tanti militanti di base che hanno dirottato la propria rabbia e il proprio senso di impotenza sull'UCK, l'imperfetto strumento che le masse kosovare hanno utilizzato per difendere i propri diritti. Diciamo semplicemente che il primo "automatismo" di un militante della sinistra dovrebbe essere riconoscere, al di là dei propri preconcetti, dove sta l'oppresso e dove sta l'oppressore. E nei confronti degli albanesi del Kosova, come in tanti altri casi, ciò non è accaduto.

 

NOTE

(1) Dichiarazione di Mantovani del 10 giugno: "Tra le macerie di questa guerra vi è un'Europa sconfitta sul piano politico, mentre G8 e Nato si sono autoproclamati rispettivamente governo e gendarme del mondo. Il governo italiano, oltre che totalmente responsabile di questa guerra sbagliata, si è lasciato trattare da servo come le vicende del Cermis e delle bombe in Adriatico dimostrano".

(2) Dichiarazione del PRC durante la guerra ("La guerra prosegue e si intensifica"): "E' ormai chiaro che la guerra NATO nulla ha a che vedere con il dramma della popolazione albanese del Kosovo. Al contrario, i bombardamenti, il ritiro degli osservatori internazionali dell'OSCE e la più che prevedibile repressione etnica, hanno inflitto agli albanesi del Kosovo maggiori sofferenze. Si arriva allo sfruttamento del dramma dei profughi per giustificare l'ulteriore escalation della guerra".

(3) Brano tratto da un manifesto diffuso dal PRC durante la guerra: "La soluzione esiste: cessare i bombardamenti ed avviare una trattativa politica che garantisca, anche con un contingente militare dell'ONU, la sicurezza degli albanesi e il rispetto dell'integrità territoriale della Serbia".

(4) Brano tratto dalle conclusioni di Fausto Bertinotti al 4° Congresso del PRC il 21 marzo 1999: "Mai come oggi appare così chiara la grande capacità e lo straordinario merito che ebbe Tito nel riuscire a tenere assieme, in condizioni di isolamento internazionale su entrambi i fronti, popoli così diversi".

(5) Manifesto del PRC "L'Italia del lavoro ripudia la guerra!" diffuso a un mese dall'inizio della guerra: "La guerra nei Balcani ha origine dalla volontà degli Usa di allineare tutti i governi della Nato alla loro strategia di instabilità e di controllo dell'area del Mediterraneo, imponendo anche all'Europa il modello sociale americano distruggendo nella globalizzazione modelli di democrazia partecipativa e di stato sociale".

(6) Altri esempi. Il padre spirituale di questa tradizione: Pietro Ingrao sul Manifesto del 24 marzo 2000:
"Questo ritorno alla 'guerra santa' o - per usare un termine più preciso adoperato da Isidoro Mortellaro - questa messa in campo della 'guerra costituente' [citatissimo autore di "I signori della NATO" ndr] ha uno stretto nesso con una 'correzione' sostanziosa rispetto alle terribili guerre del secolo con il balzo sconvolgente e incanzante dei saperi che la 'tecnica' compie nel corso del Novecento".
Una serie di interventi sullo speciale di Liberazione in occasione dell'anniversario dello scoppio della guerra del 19/03/2000 va nella stessa direzione. Tra questi quello di Raniero La Valle:
"La guerra ha partorito una istituzione inedita, una nuova creatura, un nuovo potere supremo (sovrano), assoluto (sciolto dalle leggi) e universale (senza confini riconosciuti). Il compito di questo nuovo soggetto, di questo Super-Stato che esprime poi la proiezione di potenza degli Stati Uniti, dovrebbe essere quello di tenere l'ordine del mondo, che il vecchio ordinamento, basato sul diritto internazionale [sic!] e sull'ONU, era accusato di non garantire".
E quello di Alfio Nicotra:
"La guerra in Europa aveva un senso ben più profondo: aprire una fase costituente in cui il diritto internazionale nato dalla vittoria sul nazifascismo venisse rapidamente sostituito da quello del più forte, legittimando luoghi decisionali abusivi come il G7 o la NATO medesima".

(7) Significativo a mo' di esempio l'articolo pubblicato da Domenico Losurdo sul Calendario del Popolo dell'aprile '99 dove per relativizzare la pulizia etnica di Milosevic ricorda come Roosvelt deportò americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale e di come i serbi "pur rappresentando il 36% della popolazione jugoslava erano costretti (sic!) a dividere equamente il potere con le altre cinque repubbliche e le due province".

(8) La rivista Contropiano, assai influente nella sinistra anticapitalista della capitale, affermava nel numero di febbraio di questo anno che "il 'genocidio' dei serbi contro gli albanesi del Kossovo è stato creato artatamente e con l'unico scopo di alzare la soglia dell'orrore per giustificare il terrore (quello vero) scatenato con i bombardamenti contro la Jugoslavia".

(9) Parte dell'area di sinistra radicale più vicina al volontariato ed all'associazionismo legge il settimanale Avvenimenti la cui impostazione traduce molto bene la confusione presente anche nel campo pacifista: nelle sue pagine vi hanno trovato posto disinvoltamente pagine di relazione di un Manisco reduce dal famoso pellegrinaggio di Cossutta a Belgrado, insieme ad interviste acritiche spacciate per fonti obiettive a miliziani serbi (aprile '99), dall'ammissione della pulizia etnica operata da Milosevic ad elogi a Ennio Remondino definito "un corrispondente scomodo", da una biografia non malevola su Albin Kurti di Giacomo Scattolini ad una stomachevole risposta di Fulvio Grimaldi.

(10) Ci serviamo abbondantemente in questo paragrafo di brani tratti dall'articolo scritto da Andrea Ferrario per REDS n.19 del febbraio 2000.

(11) Ecco comunque un esempio della tensione tra le due aree: su Liberazione del 19 marzo 2000 interviene Ramon Mantovani che risponde a lettere di segno opposto pervenute alla redazione a proposito della partecipazione di una delegazione del PRC al congresso del Partito Socialista Serbo:
"Innanzitutto vi è una questione generale. Nella nostra concezione delle relazioni internazionali la partecipazione al congresso di un partito non implica per niente un rapporto di fratellanza o di sintonia politica. [.] Vi è poi una motivazione più specifica e contingente, relativa alla necessità politica di conoscere direttamente lo svolgersi di quel congresso. [] Tutto ciò non risolve, invece, un altro problema che è relativo al fatto che nel partito vi sono compagni che non condividono la nostra posizione duramente critica sul nazionalismo serbo e sull'azione di governo di Milosevic. Queste posizioni sono rintracciabili sia in articoli e rubriche di "Liberazione" sia nel fatto che circoli, e a volte federazioni, organizzano iniziative effettivamente in contrasto con le posizioni del partito".
E' una traccia di questo conflitto latente, ma si noterà che all'atto pratico, che è quel che conta, vi è la convergenza sulla partecipazione al congresso del macellaio Milosevic, una scelta che il PCF e la PDS, ad esempio, non hanno compiuto.

(12) Una differenza di approccio è riemersa in occasione della guerra cecena quando quella che abbiamo chiamato corrente "ingraiana" s'è espressa contro l'intervento russo (pur non facendo assolutamente nulla per scoraggiarlo, né mostrando solidarietà verso la resistenza cecena), mentre la corrente "togliattiana" ha utilizzato la stessa strumentazione messa all'opera per demonizzare gli albanesi: i ceceni sarebbero legati al fondamentalismo islamico, alla mafia e al narcotraffico, dietro di loro si muovono gli USA che mirano al petrolio e alla disgregazione della Russia, ecc.

(13) Ramsey Clark in occasione del suo viaggio a Belgrado dell'ottobre 1999 dove incontrava Milosevic dichiarava che le repressioni contro gli albanesi erano "normali operazioni di polizia". Di ritorno, presenziava ad assemblee pubbliche (Casa delle culture 1/11/99) con, tra gli altri, Di Francesco, Grimaldi Russo Spena (in teoria di impostazione "ingraiana") e il fascista antisemita Kalajic. Al Comitato Italiano per la costituzione Tribunale Internazionale per i crimini di guerra della NATO aderiscono dai gruppi più beceramente filoserbi a pezzi di pacifismo (lo SCI, le Donne in Nero, ecc.).

(14) Sul numero di Avvenimenti del 30 aprile 2000 si può leggere una sua lettera dove inveisce contro le Donne in Nero di Belgrado la cui affidabilità "è garantita dal fatto che sono lautamente foraggiati da Georges Soros, punta di lancia dell'imperialismo finanziario USA e massonico".

(15) Riproduciamo brani del comunicato stampa del PRC del 21 maggio 1999 intitolato "La sinistra antagonista europea lancia un appello per la pace", in neretto la frase di cui non troviamo traccia nei documenti sottoscritti dal solo PRC:
"I firmatari del documento - Julio Anguita, coordinatore generale Izquierda Unida, Fausto Bertinotti, Segretario nazionale del PRC, Lothar Bisky, presidente della PDS, Gregor Gysi, presidente del Gruppo parlamentare PDS, Robert Hue, segretario nazionale del PCF - affermano che "questa escalation, lungi dall'aprire una prospettiva , lascia intatto il dramma dei rifugiati, estendendo il numero delle vittime innocenti a tutta la Jugoslavia e contribuisce alla destabilizzazione della regione. Il nostro obiettivo - continuano - deve essere, non una vittoria militare, ma una pace giusta e duratura, che ponga fine alle gravi violazioni dei diritti umani da parte del regime di Belgrado e alla sua politica di deportazione degli albanesi del Kosovo, e che garantisca, sotto la responsabilità dell'Onu - concludono - il ritorno dei kosovari in un Kosovo autonomo e smilitarizzato, nonché il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le comunità della provincia".