ALCUNE RIFLESSIONI SULLA PARABOLA DELL'UCK


settembre 2000, di Ilario Salucci

 

 

Il materiale informativo sulla vicenda dell'Esercito di Liberazione del Kosova (Uçk) attualmente disponibile è stato pubblicato per lo più lo scorso anno. In tutto si tratta di una dozzina tra articoli, saggi ed un libro-intervista a Bardhyl Mahmuti pubblicato in Francia. In Italia si è aggiunto recentemente un volume di Sandro Provvisionato, un "libro a tesi" ben poco informativo.
Nessuno studio degno di questo nome è invece apparso (a mia conoscenza) su diverse tematiche particolarmente importanti: nulla sull'opposizione kosovara clandestina negli anni '70 e '80; nulla per il tipo di organizzazione che l'Uçk creò o mantenne nelle "zone liberate" del Kosova nel biennio '98-'99; nulla sul problema di quanto, in che misura, l'Uçk fu dipendente dalla struttura clanica tradizionale del mondo rurale kosovaro; nulla delle discussioni interne al gruppo dirigente di questa organizzazione; e così via. Un tentativo di riflessione sulla parabola dell'Uçk non può quindi che essere parziale e soggetto a revisioni sulla base del nuovo materiale informativo che nel futuro si renderà disponibile. L'assenza di una documentazione soddisfacente su un movimento di liberazione nazionale che abbia operato per lunghi anni in clandestinità è d'altronde cosa comune (basti ricordare che solo da pochi anni sono disponibili una serie di documenti e di studi approfonditi sull'esperienza del FLN algerino), che non esime tuttavia da uno sforzo di comprensione di queste esperienze.

L'Uçk emerse come organizzazione di massa a cavallo tra il '97 e il '98, ma il percorso politico che ha portato a questo exploit si snoda per quasi un ventennio. All'inizio degli anni '80 alcuni raggruppamenti dell'opposizione kosovara a Belgrado si unificarono nel Movimento Popolare del Kosova (Lpk). Questa organizzazione, obbligatoriamente clandestina, rivendicava una Repubblica Kosovara e denunciava la direzione titoista della Jugoslava come "revisionista", uno strumento nelle mani dell'imperialismo per strangolare il "marxismo-leninismo" nella sua unica vera incarnazione, quella del Partito del Lavoro Albanese diretto da Enver Hoxha. La rottura con la Cina e con il maoismo era stata consumata da Tirana fin dal 1978, e la Lpk aveva - come altre organizzazioni filoalbanesi sparse in diversi paesi, compresa l'Italia - come unico riferimento a livello internazionale Tirana. Tuttavia l'opposizione kosovara "enverista" scoprì ben presto che in realtà non poteva fare vero affidamento sulla direzione albanese: tra il 1981 e il 1986 ben 250 kosovari che si erano rifugiati in Albania furono riconsegnati dalle autorità albanesi a quelle jugoslave, e nel 1988 il Ministro degli Esteri albanese dichiarò formalmente che la questione kosovara era questione interna alla Federazione jugoslava. Al di là delle roboanti dichiarazioni a favore delle "lotte del popolo albanese del Kosova", la direzione enverista non aveva mai avuto alcun interesse né al sorgere di una "seconda Albania", né all'unificazione del Kosova all'Albania, utilizzando in termini esclusivamente strumentali i raggruppamenti kosovari a lei fedeli. Le mobilitazioni dei lavoratori e degli studenti in Kosova nel 1989-1990 videro la Lpk in una posizione totalmente marginale. L'anno successivo crolla il regime albanese e la Lpk, nonostante rimanga ideologicamente "enverista", decide di non partecipare ai tentativi internazionali di riorganizzare tale corrente a partire dal 1991-1993. Nel proprio congresso del 1993 decide di organizzare la lotta armata all'interno del Kosova, creando l'Esercito di Liberazione del Kosova (Uçk). Fino al 1996 tuttavia anche questo "fronte armato" (creato e strettamente controllato dalla Lpk, ma ufficialmente organizzazione totalmente separata) non riesce a rompere l'isolamento politico degli "enveristi". La situazione muta nel 1996, quando inizia a crearsi un vuoto politico nella vita politica kosovara che l'Uçk riesce progressivamente (all'inizio molto lentamente) a riempire - nel novembre dell'anno precedente erano stati stipulati gli accordi di Dayton che avevano sancito il fallimento della strategia di passività interna e di pressioni diplomatiche internazionali per poter giungere all'indipendenza. Nell'arco di un paio d'anni (1996-97) l'Uçk riesce a crearsi un radicamento rurale, accumulando alcune (poche) centinaia di "combattenti". Nel dicembre 1997 arriva il primo "riconoscimento" politico: Demaçi, che presiede il piccolo Partito Parlamentare del Kosova, ma che ha un grande credito personale per aver pagato il proprio impegno a favore della popolazione albanese del Kosova con 27 anni di galera, chiede un cessate il fuoco unilaterale all'Uçk, riconoscendola come organizzazione patriottica albanese del Kosova (mentre fino ad allora era stata generalmente accusata di essere un gruppo di provocatori al soldo dei servizi segreti serbi).
Quanto è avvenuto nell'arco dell'anno e mezzo successivo è abbastanza conosciuto: la repressione cieca e pesantissima delle forze di sicurezza jugoslave nella regione della Drenica; l'insurrezione spontanea della popolazione albanese kosovara nella primavera del 1998 che porta decine di migliaia di persone all'Uçk nel giro di due-tre mesi e lo stabilirsi di "territori liberati" sul 40% del territorio kosovaro; l'offensiva delle forze armate jugoslave che nel luglio-settembre 1998 riprende il controllo di ampie zone con costi umani elevatissimi (distruzioni di villaggi, centinaia di migliaia di profughi); la ristrutturazione dell'Uçk, che dopo la sconfitta militare sul terreno organizza le migliaia di nuove reclute senza mettere in discussione la "direzione storica", salvo la cooptazione di Adem Demaçi, unico non-Lpk a entrare nei vertici dell'organizzazione; la preparazione a una nuova guerra, da tutti ritenuta inevitabile, nell'inverno 1998-99; l'adesione agli accordi di Rambouillet nel febbraio del '99 con la conseguente rottura con Demaçi; la guerra nella primavera dello stesso anno, con l'intervento della Nato. L'Uçk si scioglie definitivamente nell'autunno 1999.

L'Uçk ebbe un'adesione di massa stupefacente, per ampiezza e velocità, tra la fine del 1997 e i primi mesi del 1999. Le valutazioni correnti sul numero di uomini dell'Uçk in armi nella primavera del 1999 sono di circa 20-25.000. Una cifra paragonabile al radicamento delle forze partigiane nel '43-'45 a Milano e provincia, dove vi erano circa 2.200.000 abitanti (più o meno lo stesso numero degli abitanti del Kosova), e 20-25.000 persone in armi nelle varie formazioni partigiane. In più si consideri il fatto che in Kosova vi furono "zone liberate" che, a seconda dei momenti, coprivano tra il 15 e il 40% del territorio, e quindi il numero di persone coinvolte in un sostegno attivo dell'Uçk fu di gran lunga maggiore degli uomini in armi. E' particolarmente difficile in questa situazione ridurre l'esperienza dell'Uçk (come invece fa la quasi totalità dei commentatori di sinistra in Italia) a un'organizzazione fantoccio, creata e mantenuta da qualche servizio segreto o da qualche banda di trafficanti d'eroina, o come una semplice "banda di terroristi", come hanno sempre fatto le autorità di Belgrado. Nel passato balcanico di questo secolo vi furono almeno due famose "organizzazioni fantoccio": gli ustascia croati e la VMRO macedone. L'organizzazione di Pavelic non ebbe mai nessun vero radicamento in Croazia fino alla seconda guerra mondiale, e l'unico tentativo di conquistare un minuscolo "territorio liberato" si risolse in una farsa. La VMRO macedone si trasformò nel corso degli anni venti e trenta da organizzazione di liberazione nazionale a "organizzazione fantoccio", anch'essa legata alla Germania nazista e all'Italia fascista, solo attraverso una serie di rese dei conti interne che fecero centinaia di morti, e la perdita quasi totale del precedente radicamento di massa all'interno della Macedonia.

L'origine e lo sviluppo della Lpk-Uçk è stato nella scia dell' "enverismo": questa organizzazione condivide riferimenti, abiti mentali, modi di funzionamento con settori dell'estrema sinistra internazionale (fino al 1978 l'Albania fu "il faro del socialismo in Europa" a detta di Mao e dei maoisti, una buona fetta della "sinistra rivoluzionaria" in Europa). Il regime di Enver Hoxha fu in realtà tra i più terribili regimi creati con la copertura strumentale del "marxismo-leninismo" (a questo proposito rinvio agli indispensabili studi di Arshi Pipa riuniti nel volume Albanian stalinism: ideo-political aspects, pubblicato nel 1990), la totale negazione pratica di tutti i principi ed i valori del socialismo e del movimento operaio internazionale. L'attrazione dell'enverismo per alcuni settori intellettuali e studenteschi aveva la propria ragion d'essere nello scorso decennio nel fatto che forniva una (illusoria) via d'uscita, un quadro concettuale, un modo d'operare, una continuità storica, a chi si opponeva all'oppressione a cui era sottoposta la popolazione albanese del Kosova. Di fronte prima alla repressione durissima diretta dai dirigenti kosovaro albanesi della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, e poi di fronte allo scatenarsi dello sciovinismo razzista dei dirigenti serbi di Belgrado, questi settori ritrovavano la "fierezza nazionale albanese" e le risposte che cercavano: la colpa era del criminale revisionismo titoista, la salvezza nel vero marxismo-leninismo il cui unico vero depositario era la dirigenza albanese di Tirana. Crollata la dirigenza albanese nel 1990, esposta a chiara luce la terribile miseria dell'Albania, finita anche la vecchia Federazione Jugoslava e sotterrata l'eredità titoista, l'enverismo diveniva un guscio vuoto, inutile e inutilizzato - non forniva neppure più le illusorie risposte a cui prima era stato piegato. Anche il "nazionalismo integrale" di matrice enverista (altrettanto grottesco di quello che s'impose a Belgrado dalla seconda metà degli anni '80) venne via via abbandonato, sia pur mai completamente (si vedano a questo proposito le analisi storicamente molto raffinate ed equilibrate di Mahmuti, e di contro le azioni dell'Uçk nel 1996 contro gruppi di profughi serbi della Krajna).
L'enverismo ha dato un'impronta totalmente negativa alla Lpk-Uçk, in senso antidemocratico, sciovinista e nei fatti antisocialista, una tradizione da cui la Lpk-Uçk si è emancipata solo in parte. Da questo punto di vista l'abbandono formale da questa tradizione politica, nel marzo '99, è stata quantomeno tardiva (Demaçi, proveniente dalla stessa tradizione, aveva rotto con essa fin dal 1990).

A sinistra è stato "rimproverato" all'Uçk di non dare alcun contenuto sociale alla propria battaglia nazionale, il che, allo stato attuale delle conoscenze, è indubitabilmente vero. La peculiarità tuttavia non è in questo dato, comune a molte organizzazioni nazionaliste, quanto il fatto che nonostante questo l'Uçk sia riuscita ad ottenere un'adesione di massa. La risposta risiede nella particolare situazione sociale del Kosova. Dal 1990 Belgrado aveva proceduto al licenziamento di quasi tutti i lavoratori di nazionalità albanese in Kosova. La classe operaia kosovaro albanese veniva puramente e semplicemente cancellata. Questa decisione radicale da parte di Belgrado (abbastanza unica a livello storico) fu dettata probabilmente dalla consapevolezza del potenziale rivoluzionario di questa piccola classe operaia che a cavallo del 1989-1990 aveva diretto l'ultima e più grande battaglia a difesa delle conquiste della rivoluzione jugoslava, per l'eguaglianza nazionale, diventando il centro di un'effettiva solidarietà tra i lavoratori della Jugoslavia e attirando a sé l'intellighenzia del Kosova. Questa dinamica preludeva a una rivoluzione nazionale in Kosova che comportava contenuti sociali netti: espulsione dai posti di lavoro dei burocrati del partito e autorganizzazione dei lavoratori, in sintonia con le mobilitazione che i lavoratori jugoslavi avevano intrapreso dal 1987. Belgrado decise per la cancellazione sociale di questa classe. Poté così dormire sonni tranquilli, con la situazione ripresa in mano nel Kosova albanese dai settori dell'intellighenzia (proveniente per lo più dalle fila della vecchia burocrazia di nazionalità albanese) disponibili ad ogni mediazione e incapaci di chiamare alla lotta chicchessìa. Per questo tollerò più o meno l'esistenza e l'attività della "società parallela", perché sapeva che la colonna vertebrale di una vera rivoluzione nazionale democratica era stata spezzata. La classe operaia kosovara si ricostituì divisa all'estero, nell'esilio e nell'emigrazione. La situazione all'interno del Kosova fu unicamente di un ambiente rurale strutturato secondo linee claniche patriarcali, di piccola proprietà contadina, e un ambiente urbano di piccoli produttori autonomi e commercianti e di settori declassati. E' questo ambiente sociale arretrato che ha permesso l'emergere di una formazione nazionalista con una strutturazione ideologica indefinita.

L'esistenza di questi due fattori (tradizione politica e struttura sociale) non poteva tuttavia evitare l'esplosione della società albanese del Kosova contro i propri oppressori, ma solo determinarne le forme. L'Uçk crebbe (diventando quella che è stata conosciuta a livello internazionale) sull'onda dell'insurrezione popolare spontanea della primavera del 1998. Divenne il canale di espressione delle più profonde aspirazioni della popolazione albanese kosovara, soprattutto in ambito rurale (la piccola borghesia urbana non si fidò mai né dell'Uçk, né soprattutto delle classi sociali che si esprimevano tramite l'Uçk). La rivoluzione nazionale non poteva in queste situazione non essere che incompleta: l'orizzonte del villaggio non includeva le prospettive per il dopo la liberazione dall'oppressione serba, con i suoi complessi problemi economici, sociali, di rapporti tra molteplici nazionalità. Ma detto questo è necessario aggiungere che questo mondo rurale kosovaro ha dato una lezione unica di generosità e di coraggio nella battaglia contro i propri oppressori a tutti i popoli e i lavoratori balcanici: questo mondo ha dato tutto e più di quello che poteva dare per la causa della propria liberazione. Quello che è mancato è stato altro.

L'Uçk poteva nel marzo 1999 rigettare gli accordi di Rambouillet e il "sostegno" che gli veniva offerto dalla Nato, come dicevano Demaçi, alcuni comandanti militari e la Lkck (una scissione del 1993 della Lpk che tuttavia dal 1998 si era posta agli ordini dell'Uçk)? Rigettare la Nato non equivaleva al puro e semplice suicidio, come si è visto ad aprile e maggio, quando l'Uçk non riuscì a reggere l'offensiva serba (figuriamoci a pensare di poter vincere)? Da un lato è possibile che Belgrado non avrebbe potuto permettersi una offensiva di tale ampiezza e radicalità in una situazione in cui non vi fosse stata l'emergenza dei bombardamenti della Nato (e gli argomenti a sostegno di questa ipotesi sono numerosi). Dall'altro un conto è accettare una situazione perché non si vedono alternative e un altro conto è magnificare tale situazione come una grande vittoria - per cui si scambia tranquillamente la liberazione nazionale con un protettorato dell'Onu e della Nato, dove gli unici a decidere sono gli emissari di USA e UE. Ma in ultima analisi ritengo che siano stati i limiti della direzione dell'Uçk (precedenti al marzo 1999) che hanno portato alla scelta forse obbligata di accettare il diktat della Nato.
La Lpk-Uçk è sempre stata un'organizzazione esclusivamente kosovara, che ha intrattenuto rapporti - ma a livello "diplomatico" ­ con altre organizzazioni di Macedonia e Albania (in particolare il suo riferimento a Tirana era il Partito Socialista). Non si è mai posta il problema di affrontare la "questione albanese" nel suo complesso: un problema di unificazione nazionale, che coinvolge tutti i problemi politici chiave esistenti per l'Albania e la Macedonia. La Lpk-Uçk non si è mai confrontata con i problemi posti dalla situazione di protettorato italiano de facto dell'Albania; con la situazione di sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori albanesi; con i problemi relativi ai rapporti tra popolazione tosk e gheg; alla vera o presunta specificità kosovara nei confronti di Tirana; ai rapporti con la popolazione macedone; e così via. La Lpk-Uçk si è potuta permettere di non affrontare tutte queste tematiche nella misura in cui si rinchiudeva in uno spazio esclusivamente kosovaro, dove da un lato una battaglia ristrettamente nazionale era l'unica possibile, ma dove dall'altro non esistevano le condizioni sociali perché questa battaglia nazionale potesse pienamente vincere. Queste condizioni esistono invece per il complesso della popolazione albanese, che vive in Albania, in Kosova, in Macedonia, e solo a questo livello una rivoluzione nazionale democratica può essere vincente. Una dimostrazione a contrario che questo è il punto critico è dato dal fatto che lo spettro di un progetto panalbanese (la "Grande Albania") viene esorcizzato da tutti gli attori al potere nella zona: dalle varie potenze imperialiste presenti in Albania e in Kosova; dagli uomini al potere a Belgrado, a Tirana e a Skopje; e così via. Questo in quanto un progetto panalbanese popolare e democratico non è un sogno irrealizzabile, ma un progetto realistico che metterebbe a rischio tutti gli equilibri di potere nella zona. Un progetto le cui uniche "gambe" sono l'organizzazione e la mobilitazione di massa della popolazione albanese ­ in primo luogo del mondo operaio e di quello rurale ­ di tutti i Balcani meridionali.
La Lpk-Uçk non si è posta su questo piano: questo avrebbe comportato non rapporti amichevoli con il Partito Socialista albanese al potere, ma una lotta a fondo contro di esso. Ha scelto di accordarsi con quanti a Tirana e a Skopje tengono il popolo albanese diviso, sfruttato e nella miseria, illudendosi di poter liberare il popolo albanese kosovaro grazie a questi accordi. In modo del tutto analogo ha operato nel febbraio-marzo del 1999 nei rapporti con la Nato. Il coraggio in battaglia non compensa gli errori politici. Sono stati questi errori a condannare la Lpk-Uçk al fallimento.

L'esperienza dell'Uçk è finita miseramente con il proprio autoscioglimento, sostituita da un patetico corpo disarmato comandato da un generale inglese. Sono rimaste le fanfare dei giorni festivi, le parate commemorative, i discorsi tanto più roboanti quanto più sono vuoti e una piccola nomenklatura che cerca di accaparrarsi i privilegi disponibili nell'attuale situazione. I Balcani sono ritornati più o meno "stabili", a sole spese degli esseri umani che ci vivono. Il Kosova vive grazie solo agli aiuti umanitari internazionali, e vota Rugova, l'uomo che sembra più vicino a chi questi aiuti li fornisce. La questione nazionale kosovara ed in generale albanese è ancora aperta. L'Uçk è finito, la lotta di liberazione delle popolazioni albanesi no.