EDITORIALE


ottobre 2001

 

Questo numero di "Balkan", che pubblichiamo in ritardo rispetto ai tempi previsti, scusandocene con i lettori, sarà l'ultimo a uscire con la formula trimestrale: d'ora in poi adotteremo la formula più elastica di aggiungere al sito i vari materiali man mano che saranno pronti.

Con il salto di qualità nella "mondializzazione armata" cui stiamo assistendo in questi giorni, stiamo vivendo una brusca svolta storica nella situazione politica internazionale, svolta con una portata paragonabile a quelle del 1975 (sconfitta finale dell'imperialismo statunitense in Indocina) e del 1989 (crollo dei paesi a "socialismo reale"). E' troppo presto per tentare di delineare i contorni precisi di questa svolta, ma di certo le conseguenze si estenderano per un periodo significativo, di anni, e nostro intendimento è seguire e cercare di comprendere le dinamiche in atto nei Balcani in questo mutato contesto.

In questo numero proponiamo una serie di materiali che affrontano svariati aspetti della situazione nei Balcani. Tre articoli affrontano la realtà della Serbia senza Milosevic sottolineandone la continuità con il vecchio regime (Michael Karadjis), la dinamica della consegna al Tribunale dell'Aia (Sonja Drobac) e le caratteristiche delle relazioni con il Montenegro (Ljubeta Labovic). Un efficace articolo di Marijana Kadic illustra il dramma di Tuzla, significativo di tutta la realtà bosniaca, a sei anni dagli accordi di Dayton. Questo numero comunque, com'è logico, dedica una particolare attenzione alla Macedonia. Così pubblichiamo un resoconto dettagliato, e un bilancio politico, dell'evolversi del conflitto in Macedonia dall'inizio dell'anno fino all'inizio di settembre, scritto da Tino Brugos, militante della sinistra internazionalista dello Stato spagnolo, e l'articolo di un'economista di Skopje sulla situazione economica nel paese alla vigilia del conflitto. Inoltre proponiamo un consistente blocco di materiali storici, a cura di Ilario Salucci, sulla questione macedone e sulle modalità con le quali è stata affrontata negli anni dal movimento operaio.

Il conflitto apertosi in Macedonia segna una tappa fondamentale di questi dieci anni di guerre e rivolte nei Balcani, che ha profonde radici sia nei passati avvenimenti interni al paese che nei precedenti conflitti nella regione. La lotta armata aperta dall'Esercito di Liberazione Nazionale (UCK) trova origine, a differenza di quanto hanno sostenuto alcuni, nella situazione degli albanesi della Macedonia, ne è la prova il fatto che un gruppo armato di piccole dimensioni, come era l'UCK all'inizio, è riuscito ad arruolare in brevissimo tempo una grande quantità di combattenti e a crearsi una vasta rete di supporto logistico tra la popolazione di tutte le aree a maggioranza albanese, nonché tra l'emigrazione. Ciò è dovuto al fatto che, al di là di una presenza di facciata (e spiegheremo più sotto il perché di questa nostra affermazione) di albanesi negli organi statali, la popolazione albanese è stata sottoposta a una vera e propria segregazione, tenuta fuori, se si eccettuano presenze simboliche o di manovalanza, dai vertici militari, economici e accademici, privata del diritto agli studi universitari nella propria lingua, relegata a vivere delle rimesse (magari anche consistenti) di parenti emigrati o di attività di scambio, legali o meno, senza alcun ruolo nella sfera produttiva. La disoccupazione, altissima per tutte le nazionalità del paese, ha colpito maggiormente gli albanesi, in particolare quelli giovani. Si tratta di una situazione che ha origini lontane, frutto di politiche messe in atto già nella Jugoslavia di Tito e degenerate poi nella Macedonia di Gligorov prima e di Georgievski poi. In particolare, l'apparente "pace etnica" della Macedonia dell'era Gligorov è stata una farsa che sta costando cara alla Macedonia: mentre l'allora presidente, in passato uomo forte del regime repressivo della federazione jugoslava, diventava uno dei referenti dell'imperialismo occidentale nei Balcani (eloquente è, a tale proposito, l'ammirazione incondizionata del miliardario Soros nei suoi confronti), giungendo fino a offrire basi alla NATO già nei primi anni '90, nel paese diventavano fatti ordinari gli arresti arbitrari e la repressione, anche con le armi, delle manifestazioni degli albanesi. Sotto Gligorov, inoltre, è fiorito un ceto accademico e giornalistico di stampo nazional-sciovinista che, se non ha raggiunto le punte di isteria di altri paesi, è stato solo perché non aveva alle spalle un sistema economico e militare sufficientemente potente. E' stato sempre sotto lo stesso "saggio" presidente che ha cominciato a fiorire, proprio come in Croazia, in Serbia e altrove, una classe capitalista il cui unico principio è quello della rapina. In Macedonia, tuttavia, vi è stata la notevole differenza di un coinvolgimento diretto del ceto politico albanese in questo sistema. Ciò tuttavia non è stato un atto di democrazia, bensì solo un modo per garantire in un paese dalla fragili strutture statali il tranquillo proseguire degli affari della burocrazia della nazione dominante (e dei suoi protettori internazionali), spartendo la torta del potere e assegnandone una fetta ai partiti albanesi, che mai sono stati reale espressione delle esigenze dei loro elettori. Il fatto che tali partiti si siano potuti ridurre così facilmente a una semplice appendice del potere macedone è un segno della disgregazione e della debolezza alla quale sono stati ridotti gli albanesi di Macedonia. Non a caso, la prima reazione decisa la si è avuta, con l'inizio della lotta armata, solo in seguito agli avvenimenti in Kosovo e nella valle di Presevo. Naturalmente, anche l'UCK è espressione della frammentazione e della disgregazione della società albanese e questo traspare chiaramente dalla rapidità con la quale ha ridotto al minimo le proprie rivendicazioni e si è messa nelle mani della "comunità internazionale", creando un vuoto politico intorno a sé (all'inizio del conflitto c'erano state mobilitazioni di massa degli albanesi e perfino la creazione di un partito radicale, ma tutto è finito in nulla). La dirigenza dell'UCK ha lasciato esplicitamente intendere di volere semplicemente assumersi il ruolo dei vecchi partiti albanesi, ormai moribondi dopo il matrimonio letale con i regimi di Gligorov e di Georgievski.

La maggiore rappresentanza dei macedoni negli organi dello stato e nella produzione è stata anch'essa uno strumento mirato unicamente a garantire una base di potere al regime di Skopje. I vantaggi di cui godono i lavoraotri macedoni sono miseri: il tasso di disoccupazione e la povertà sono altissimi anche tra questa popolazione, che da lungo tempo è stata preparata alla guerra da un'intensa campagna sulla "minaccia albanese", mentre i burocrati hanno approfittato dell'emergenza militare per saccheggiare quanto rimaneva dell'economia macedone e per la lucrare sulla vendita di beni strategici ad aziende estere, in particolare greche. Per garantirsi il l'ambiente ideale al fine di perpetrare questa politica di rapina, il governo macedone (partiti albanesi compresi) non ha esitato a trasformare il paese in un protettorato di fatto della NATO, nel quale la composizione del governo, la politica economica e quella dell'istruzione, per fare solo alcuni esempi, sono state sottoposte a un diritto di veto da parte dell'Occidente. Inoltre, per rimediare in parte alla fragilità del proprio stato, i burocrati di Skopje non hanno esistato a instaurare alleanze e collaborazioni, politiche, economiche e militari, proprio con i tre stati che continuano ad avere mire di controllo, se non addirittura di conquista, sulla Macedonia, e cioè la Bulgaria, la Grecia e la Jugoslavia.

Di fronte al conflitto, l'Occidente, già presente militarmente in Macedonia fin dal 1998, ha avuto un atteggiamento che ricalca in parte modelli passati, anche se con ritmi decisamente più accelerati. In un primo momento, i paesi della NATO hanno condannato duramente la lotta armata dell'UCK, dando chiari segni di volere "appaltare" un eventuale intervento militare ai paesi balcanici. Nel momento in cui la crisi ha raggiunto il suo apice, tra marzo e aprile, l'Occidente ha assunto una posizione sempre più ostile alla guerriglia albanese, definendola per bocca del segretario della NATO Robertson una "banda di terroristi straccioni" - contemporaneamente, sono stati forniti al governo di Skopje ingenti aiuti logistici (dispositivi di intelligence e istruttori militari da parte degli USA, ufficiali britannici con esperienza di antinsorgenza in Irlanda del Nord) e, indirettamente, militari (autorizzazione di importanti forniture da parte di Bulgaria, Ucraina e, forse, anche Jugoslavia), nella speranza che il governo di Skopje riuscisse a chiudere la crisi da solo a livello militare. Tuttavia, le profonde divisioni tra le varie lobby macedoni al potere, in particolare tra il ministero degli interni e quello della difesa, così come la scarsa preparazione dell'esercito di Skopje, hanno reso impossibile una tale soluzione. Sono cominciati allora i primi contatti diplomatici con la dirigenza dell'UCK, che dopo molte traversie sono sfociati in agosto negli accordi di Ohrid, grazie anche alla pronta disponibilità dei capi della lotta armata albanese a smilitarizzare e a rinunciare a richieste fondamentali. A questo punto, il governo di Georgievski, ex amico fidatissimo della NATO, è diventato uno degli ostacoli più grossi, in conseguenza del fatto che, per cercare di garantirsi una rielezione alle imminenti elezioni, è ricorso a una retorica patriottarda, spingendo per una soluzione militare e formando addirittura proprie forze paramilitari scarsamente controllabili. Si tratta di una sequenza per molti versi già vista in Kosovo. Il problema principale, per l'Occidente e per la NATO in particolare, è quello di mantenere la stabilità, evitando nuovi eccessivi impegni militari: da qui il tentativo di dare mano libera al governo per un intervento militare, a condizione che fosse efficace e di breve durata e, fallita questa opzione, l'apertura di colloqui con la parte albanese contrassegnati dallo sforzo di ridurre al minimo le richieste, di ottenerne la smilitarizzazione (senza un pari disimpegno da parte dei macedoni) e di cooptarne la dirigenza.

L'accordo di pace dello scorso agosto non modifica in modo sostanziale la situazione degli albanesi di Macedonia - per la regione dove vivono non viene prevista nessuna forma di autonomia. E' anche un accordo fragile, accettato da entrambi i campi con molte riserve.
La situazione sociale in Macedonia è molto tesa, con un forte malcontento sindacale, con scioperi e manifestazioni molto importanti contro le politiche di privatizzazioni e di smantellamento del settore pubblico. Questa situazione sociale viene sfruttata dalla destra nazionalista macedone, che da un lato rende gli albanesi colpevoli di tutti i mali, e dall'altro denuncia come loro "complici" FMI e NATO. Si assiste quindi all'ascesa di un movimento nazionalista fortemente antialbanese, che nel merito dell'accordo di pace ritiene eccessive le concessioni fatte, e che pensa che ciò che conta è l'autorità della polizia e dell'esercito. Il rischio che una volta disarmata l'UCK l'esercito e la polizia macedoni si lancino in un'offensiva contro i caposaldi dell'UCK è un rischio reale.
Da parte albanese questo accordo risolve ben poco. E' stato negoziato dai vecchi partiti albanesi, totalmente discreditati agli occhi della popolazione albanese. Il previsto aumento della proporzione dei poliziotti albanesi non cambierà le condizioni di vita della grande maggioranza della comunità albanese. La frustrazione accumulata in anni di discriminazioni non scomparità d'un colpo. Se le azioni dell'esercito macedone riprenderanno, la massa degli albanesi sosterrà una ripresa delle operazioni militari dell'UCK.
Il conflitto sara' destinato a prolungarsi per anni e anni se non verra' garantito agli albanesi di Macedonia il diritto di decidere del proprio destino. A quanto è dato sapere anche le correnti più radicali al loro interno sono disponibili alla coabitazione entro un'unica entita' statale ma
nel mutuo riconoscimento e nel rispetto dei loro diritti. In questo quadro sarebbe di importanza capitale una forma di autogoverno per la regione albanofona, che non lederebbe in nulla i diritti della popolazione macedone e garantirebbe invece quelli della popolazione albanese. Naturalmente ogni
forma di purificazione etnica dovrebbe essere bandita, e coloro che sono stati espulsi ­ macedoni da Tetovo, albanesi da Skopje ­ dovrebbero poter rientrare nelle loro case.
La situazione delineata dal cosiddetto accordo di pace del 13 agosto non va in questa direzione, e i rischi di una ripresa degli scontri armati sono molto forti.